Philippe Forest: Il gatto di Schrödinger, Del Vecchio editore, pagg.
310, euro 15,50
Risvolto
Le vite che avremmo potuto vivere, le esistenze che avremmo potuto
conoscere, i mondi nei quali avremmo potuto abitare: senza quasi
accorgercene, ci troviamo trasportati in uno spazio parallelo. Philippe
Forest fa del paradosso del gatto di Schrodinger una metafora della
condizione umana, focalizzata sulla perdita di una persona amata: la
questione relativa all’apparizione e alla scomparsa di ogni essere
vivente. Come il gatto, contemporaneamente vivo e morto, è anche allo
stesso tempo qui e altrove, questa condizione di possibilità spinge a
riflettere sulle nostre vite parallele, sui mondi possibili tra i quali
ciascuno di noi esita. Il romanzo continua la meditazione sul desiderio e
sul lutto che ha rappresentato il soggetto esclusivo dei romanzi
precedenti di Forest (a partire da Tutti i bambini tranne uno. Il gatto
di Schrödinger è un romanzo che si serve della scienza senza farne il
fulcro della narrazione, una sorta di favola all’interno della quale
veniamo trascinati.
Il miglior romanzo è figlio di un paradosso della fisicaLo scrittore francese Philippe Forest trasforma il "gatto di Schrödinger" in una chiave per riflettere sull'esistenza. E su tutti i suoi lati più folli
Massimiliano Parente - il Giornale Lun, 10/11/2014
Portate la fisica nella narrativa . E viceversa
Domenica 7 Dicembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA
In questi giorni sono usciti due libri molto diversi che nondimeno, letti insieme, sembrano rimettere in circolo il flusso di pensieri che dalla letteratura conduce alla fisica e viceversa — due libri i cui autori non tessono blandamente le lodi del campo avverso, ma impiegano in modo antiretorico l’uno il linguaggio dell’altro, giovandosene a tal punto da produrre: il primo, un mirabile quanto inquietante oggetto che potremmo definire romanzo quantico; il secondo, una dissertazione di grande valore letterario sui rudimenti della fisica del ventesimo secolo.
Nel primo libro, Il gatto di Schrödinger (Del Vecchio Editore), Philippe Forest utilizza il più famoso esperimento mentale della fisica moderna come chiave di lettura, per non dire immagine-mondo, della sua propria esistenza personale. Erwin Schrödinger, insignito del premio Nobel grazie alla scoperta dell’equazione d’onda, nel 1935 inventa, con intenzioni paradossali e sottilmente burlesche, un esperimento mentale in cui dimostrare l’assurdità dell’interpretazione troppo letterale del principio di sovrapposizione sostenuto da Bohr e Heisenberg. Questo fondamento della meccanica quantistica infatti, una volta esteso dalla realtà subatomica alla macro-realtà (la nostra), comporterebbe che, come per l’indeterminazione degli stati delle particelle, anche per un gatto chiuso in una scatola sia necessario supporre la coesistenza simultanea di stato di vita e stato di morte fino a quando un osservatore non verifichi direttamente.
Il cortocircuito con l’esperimento si crea nella mente di Forest, il giorno in cui un gatto entra anche nella vita dello scrittore. Accade d’un tratto, durante un breve soggiorno di riposo nella casa al mare. È un gatto che sembra sbucare dal nulla, come partorito dall’oscurità in cui affonda il muro del giardino, un gatto venuto dalla notte a offrire la sua calda presenza di animale in un’esistenza fredda anche d’estate, quella di un uomo tramortito e, verrebbe da dire, evacuato, reso inabitabile dal dolore.
Philippe Forest ha raccontato il suo dolore nel capolavoro ustionante Tutti i bambini tranne uno , ma qui, a distanza di quindici anni, accenna appena alla morte di sua figlia, evitando con maestria l’impiego di un’arma infallibile come la commozione. Piuttosto perlustra il suo stato mentale insieme al nuovo ospite, venuto a fargli visita dalla realtà indefinita che si cela oltre il muro di cinta, realtà-non-realtà ovvero realtà «sovrapposta» alla quale il gatto torna spesso con un semplice balzo e dalla quale altrettanto improvvisamente riappare. Così per un anno.
Sono weekend fatti di passeggiate per sentieri sabbiosi e contemplazioni notturne qua e là interrotte da dialoghi con una voce femminile non meno evanescente del nuovo inquilino a quattro zampe. Forest cammina, fuma, sorseggia un whisky, osserva le misere piante del giardino, scambia poche parole con la sua compagna. È vivo ma, nello stesso tempo , è anche morto, come una particella subatomica e, a dispetto di Schrödinger, come il gatto che viene a trovarlo. Questa almeno è la sensazione che si è fatta largo in me mentre leggevo, al punto da lasciarmi credere che il libro fosse diventato la scatola stessa dell’esperimento, con lo scrittore autorecluso al posto della cavia. Ma a rendere particolarmente importante questo libro è il fatto che Forest non fa un uso suggestivo, estetizzante, del linguaggio scientifico. Al contrario, affronta la fisica con autentico desiderio conoscitivo, importandola nel territorio della letteratura senza disinnescarla.
Nel secondo libro, Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), Carlo Rovelli sembra riprendere a distanza il dialogo. Come la carica esplosiva della meccanica quantistica resta intatta nel romanzo di Philippe Forest, così il valore della scrittura è tutt’altro che ornamentale nel saggio dello scienziato. La curvatura dello spazio, le onde gravitazionali, i pacchetti di energia, il bosone, il tempo, il fatto che passato e presente esistano «solo quando c’è calore», ogni cosa viene spiegata in modo che sia compresa anche da una persona mediamente scolarizzata. Al di sotto la semplificazione scadrebbe nella retorica del facilese.
Non si tratta di parlare ai bambini, Rovelli vuole richiamare l’attenzione sulla bellezza di quelle scoperte, sull’eleganza delle loro equazioni, non banalmente divulgare. La fisica gode da sempre di grandi divulgatori — oggi, su tutti, l’anglo-iracheno Jim Al-Khalili —, ma per suscitare un interesse vero nell’interlocutore serve una scrittura non vicaria, che resti alta, limpida e insieme seduttiva, come quella di Rovelli.
Questa zona di intersezione tra scienza e letteratura è quasi per nulla frequentata in Italia, se si esclude il grande esempio di Daniele Del Giudice, la cui vocazione leonardesca lo rende affine a Paul Valery. Circa vent’anni fa, alla Sissa di Trieste (Scuola internazionale superiore di studi avanzati) Claudio Magris ha curato un seminario interdisciplinare a cui sono intervenuti molti scienziati. Sembrava l’inizio di qualcosa, ma non è stato così. In America vengono subito in mente Il dilemma del prigioniero di Richard Powers, La stella di Ratner di Don DeLillo, le considerazioni sul tennis e la trigonometria o le note di Infinite Jest di David Foster Wallace (trascuro colpevolmente, avendo interrotto per limiti di comprensione, il saggio sull’infinito).
Da noi invece anche i giovani tecnicamente più equipaggiati, parlo di narratori con un dottorato in matematica come Chiara Valerio o in fisica teorica come Paolo Giordano, solo di rado lasciano affiorare i loro saperi sulla pagina, e lo fanno con timidezza, quasi temessero di disturbare il lettore. Allora mi permetto una richiesta, a tutti gli scrittori scienziati: non rifilateci manualetti for dummies , fateci entrare davvero nel vostro mondo e noi proveremo a seguirvi. E dove non capiremo, sarà bello lo stesso. La letteratura è piena di cose belle e incomprensibili almeno dai tempi di Finnegans wake.
Lo scrittore francese parla del nuovo libro e del precedente “Tutti i bambini tranne uno” che lo ha imposto all’attenzione di critica e pubblico
Philippe Forest “Il mio mondo visto dal gatto”
CRISTIANO DE MAJO Repubblica 8 12 2014
PRIMA del 1997 Philippe Forest, anno in cui esce Tutti i bambini tranne uno ( pubblicato in Italia da Alert e adesso nei tascabili Bur), era unicamente un professore universitario di letteratura. Un libro che coinvolge e commuove, in cui racconta della morte per un tumore osseo della figlia di quattro anni, Pauline. Passati quasi vent’anni, Forest (che ieri era a Roma a “Più libri più liberi”, la mostra- mercato dell’editoria che si conclude oggi) ha continuato a essere uno scrittore, oltre che un professore, autore di altri cinque libri, che lui stesso definisce “romanzi” o “autofiction”. L’ultimo, Il gatto di Schrödinger è ancora un racconto ibrido, che mescola narrazione diaristica, speculazione filosofica, critica letteraria.
E persino divulgazione scientifica, intorno alla questione gigantesca del senso ultimo della realtà. Forest all’apparenza è un uomo timido e tranquillo, che sembra camminare su un filo sottile, tra distacco e partecipazione.
In Tutti bambini tranne uno confessa di non avere mai desiderato essere uno scrittore e che si è sempre sentito più a suo agio come lettore. La vita ha fatto di lei uno scrittore?
«Proprio così; senza esperienza, senza la malattia e la morte di mia figlia, non sarei mai diventato uno scrittore. Ancora adesso scrivo per dare risposta a una domanda senza risposta. Un dubbio che dopo vent’anni di scrittura continua a essere irrisolto ed è sempre il motore dei miei libri. Alcuni sono più autobiografici. Altri, come gli ultimi
due, meno».
Che tipo di emozioni ha vissuto dopo la pubblicazione e il successo di Tutti i bambini tranne uno ? Si è mai pentito di averlo scritto?
«No. Ma non si può dire che il libro sia stato un successo eclatante in termini di vendite. Ha avuto un impatto forte sui lettori, questo sicuramente. Ci sono state reazioni di incredibile vicinanza, di empatia e allo stessa tempo di rifiuto. Alcuni, per esempio in Francia, hanno considerato la lettura del mio libro una specie di tabù, ma quelli che lo hanno difeso e amato, lo hanno fatto molto intensamente».
Ha avuto delle critiche sul piano etico?
«Direi di no. I critici mi hanno quasi sempre dato un’accoglienza positiva. La questione etica è in realtà già molto presente, come domanda, come dubbio, all’interno di tutti i miei libri».
Nel Gatto di Schrödinger rivendica la scelta di non usare nomi perché “mettere dei nomi in una storia è un po’ come reclamarne la proprietà”. Non è in contraddizione con il fatto che in Tutti bambini tranne uno il nome Pauline si trova praticamente scritto in ogni pagina?
«Il vero eroe è quello che cancella la sua identità. Ulisse è Nessuno, così come il signor Bloom di Joyce è il signor Tutti. Nonostante sia un autore di “autofiction” mi piacciono gli scrittori che tendono a non mostrarsi. Anche in Tutti bambini tranne uno credo di avere rispettato quest’idea di massima. Il mio personaggio non ha nome e quasi si fa inghiottire dalla storia».
Qui e là traspare nel Gatto di Schrödinger una sfiducia nei confronti dei libri che suona male, soprattutto perché proviene da un professore di letteratura. L’esperienza diretta ha affievolito le sue passioni letterarie?
«Certamente sì. Ci sono libri che non riesco più a leggere. Mi capita sempre più spesso di trovare libri indegni, che non reggono il confronto con la vita».
Quali per esempio?
«Trovo che Kirkegaard sia un autore impareggiabile».
In letteratura?
«Ho una grande ammirazione per Primo Levi e in particolare per I sommersi e i salvati , su cui ho anche scritto un saggio critico. La sua idea che il vero testimone dell’orrore sia che non è rimasto e che il sopravvissuto sia un testimone indegno ma necessario, m’interessa moltissimo come scrittore».
In un’intervista Emmanuel Carrère ha dichiarato: “Il pathos fa parte della vita e la letteratura che preferisco è quella che lo accoglie”. Lei scrive qualcosa di molto simile in Tutti i bambini tranne uno . Carrère ha fatto un percorso simile al suo?
«Vorrei che i miei libri avessero il successo di vendite che hanno i suoi. Carrère è un autore che rispetto. Ma se dobbiamo parlare di pathos, lui guarda le cose da una distanza molto più grande rispetto alla mia. Racconta il pathos delle vite altrui. Io, al contrario, ho cercato di comunicare con la letteratura un pathos che ho vissuto sulla mia pelle».
E W.G.Sebald è un suo autore di riferimento in quanto a trasformare la realtà in letteratura?
«Ecco, quando penso a cosa considero letteratura in questo momento storico, mi vengono in mente libri come i suoi».
È consapevole del fatto che Tutti i bambini tranne uno , insieme forse all’ Anno del pensiero magico di Joan Didion, ha sdoganato il racconto del dolore nella letteratura “alta”?
«Non ho letto quel libro e so che dovrei farlo. Ma se questo fosse vero, ne sarei particolarmente contento. Quando uscì il mio, nel ‘97, esisteva un tabù del dolore in letteratura. Eppure il tragico ha spazio nell’esperienza umana. Anzi, le persone si dicono umane nel momento in cui accettano l’esperienza del dolore. Il ruolo della letteratura dev’essere sempre quello di rompere gli argini».
I reality show: la rappresentazione del dolore in tv. Che ne pensa di queste forme di spettacolarizzazione del privato?
«Sono convinto che i reality show non si debbano snobbare. La letteratura ha bisogno di confrontarsi con l’esperienza. I reality costituiscono un pezzo importante dell’immaginario prodotto dall’ideologia della nostra società. E la letteratura non può che mantenersi allo stesso tempo prossima e distante da queste forme: pervertirle, corromperle».
Se il nucleo tematico di Tutti i bambini tranne uno era il tempo, nel G atto di Schrödinger la stessa centralità è attribuibile al vuoto?
«Sicuramente sì, il libro è un esperimento letterario così come quello di Schrödinger è un esperimento concettuale. È un racconto filosofico, quasi di stampo voltairiano, che parte da una cosa piccola per tentare di arrivare al tutto. E il tutto si rovescia nel vuoto, nell’incomprensibilità ».
Il libro è costellato di teorie scientifiche. Che funzione attribuisce alla scienza? La teoria degli universi paralleli, di cui nel libro si parla molto, è stata proprio in questi giorni avvalorata da una nuova ricerca?
«Non riesco a credere agli universi paralleli così come non credo in dio. Sono un individuo razionale e scettico. Nel libro uso la scienza come uno strumento per rappresentare le grandi domande dell’uomo. In questo senso riprendo la lezione di Borges o di Calvino. Mentre per quanto riguarda il gatto, credo di essere stato molto ispirato dal gatto dell’Alice di Lewis Carroll, che a prima vista è veramente lontano dalla nostra idea classica di scienza».
C’è una parte bellissima del libro in cui il vuoto lasciato dalla morte di sua figlia espone lei e la madre alla bellezza della natura. Il gatto di Schrödinger è molto diverso, le immagini del mondo sono ridotte al minimo, trionfano invece le immagini mentali… «Ma perché è un libro notturno, che cerca di rappresentare l’invisibile ». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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