Nei giorni scorsi, nel ricevere ad Agrigento un premio intitolato ad Empedocle, il cardinale Gianfranco Ravasi ha incentrato il suo discorso su due scrittori, entrambi agrigentini come l’antico filosofo: Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia. Pirandello, per aver saputo interpretare la crisi del mondo borghese sul finire dell’Ottocento e nel vivo del Novecento; Sciascia, per aver saputo, attraverso la Sicilia, investigare e raccontare l’Italia dei suoi e dei nostri anni, ancorando la letteratura al valore civile di cui una nazione moderna ha assoluto bisogno.
giovedì 20 novembre 2014
Il secondo volume dell'edizione adelphi delle Opere di Leonardo Sciascia
Leonardo Sciascia: Opere. Volume II: Inquisizioni - Memorie - Saggi, Tomo I: Inquisizioni e Memorie, a cura di Paolo Squillacioti, Adelphi, pp. 1431, € 75
Risvolto
Di fronte a
uno scrittore consapevolmente «saggista nel racconto e narratore nel
saggio» come Sciascia ogni tentativo di classificazione sembra
improponibile. Ma il curatore di queste Opere ha accettato una
sfida ricca di implicazioni critiche: e dopo aver esplorato narrativa,
teatro e poesia, ci invita ora a ripercorrere la linea ‘impura’ della
produzione saggistica, quella dei racconti-inchiesta, delle
‘inquisizioni’ (nell’accezione borgesiana), delle cronachette. Linea che
ha nelle Parrocchie di Regalpetra il suo capostipite, ed è qui affiancata dal ‘diario in pubblico’ di Nero su nero e dalle voci linguistiche ed etnografiche di Occhio di capra – valenze diverse ma complementari del termine memoria.
IL MONITO DI SCIASCIA 25 ANNI DOPO
Giovedì 20 Novembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Nei giorni scorsi, nel ricevere ad Agrigento un premio intitolato ad Empedocle, il cardinale Gianfranco Ravasi ha incentrato il suo discorso su due scrittori, entrambi agrigentini come l’antico filosofo: Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia. Pirandello, per aver saputo interpretare la crisi del mondo borghese sul finire dell’Ottocento e nel vivo del Novecento; Sciascia, per aver saputo, attraverso la Sicilia, investigare e raccontare l’Italia dei suoi e dei nostri anni, ancorando la letteratura al valore civile di cui una nazione moderna ha assoluto bisogno.
Nei giorni scorsi, nel ricevere ad Agrigento un premio intitolato ad Empedocle, il cardinale Gianfranco Ravasi ha incentrato il suo discorso su due scrittori, entrambi agrigentini come l’antico filosofo: Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia. Pirandello, per aver saputo interpretare la crisi del mondo borghese sul finire dell’Ottocento e nel vivo del Novecento; Sciascia, per aver saputo, attraverso la Sicilia, investigare e raccontare l’Italia dei suoi e dei nostri anni, ancorando la letteratura al valore civile di cui una nazione moderna ha assoluto bisogno.
Questo autorevole richiamo a Leonardo Sciascia da parte del cardinale Ravasi, che certamente avrà letto anche Todo modo e ne avrà presente il contenuto, ci suggerisce una chiave non banale per ricordare lo scrittore a venticinque anni dalla scomparsa. Perché egli — e i suoi libri e la sua attività pubblicistica sono lì a dimostrarlo — ebbe un’idea manzoniana, e dunque cristiana (nel senso più radicale del termine), della letteratura, dello scrivere, dell’atto stesso che permette di farlo.
Ma è sull’accostamento a Pirandello che va fatta un’ulteriore riflessione nel ricordare Sciascia. E precisamente riprendendo in mano I vecchi e i giovani, romanzo scritto da Pirandello nel periodo più infelice della sua vita e che potrebbe spiegare perché egli — nemico dichiarato della politica — scelse di aderire al partito fascista. Pirandello era un uomo dell’Ottocento, il secolo degli ideali e, ai suoi occhi, la causa del Risorgimento, per la quale avevano combattuto suo padre, suo zio, gli uomini che più aveva ammirato, sul finire di quello stesso secolo era finita affogata nella mefitica tangentopoli in cui l’Italia, appena unificata, era naufragata. Fu lo scandalo della Banca Romana, esploso nel 1892, a portare Pirandello a scrivere quel suo risentito romanzo tra lo storico e il politico («Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su sui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia… Era la bancarotta del patriottismo, perdio!»). Pirandello diede sfogo ai suoi incubi di idealista tradito nelle legittime aspettative che la rivoluzione del 1860 aveva inculcato. In un certo senso, Sciascia, venuto al mondo 54 anni dopo di lui (vale a dire secoli dopo, perché tra i due c’è di mezzo l’Ottocento), prende il testimone e colloca la propria opera nel solco delle speranze tradite, dei risentimenti storici e sociali, cui aveva dato voce un altro grande scrittore siciliano, Federico De Roberto.
Si è figli del proprio tempo, e questo, il più delle volte, segna il destino di ognuno. Prima Pirandello e De Roberto, nati in pieno Ottocento, poi Vitaliano Brancati, venuto al mondo quattordici anni prima di Sciascia, ne furono i maestri. Fu proprio Brancati, cui il gioco del caso assegnò di nascere nel 1907, a dare ai giovani come Sciascia la medicina giusta per vaccinarsi contro un male (il fascismo) che lui aveva preso in pieno. Ed è per questo che, oggi, possiamo dire che quelli che per Brancati furono «anni perduti», per Sciascia furono «anni guadagnati»; anni che gli permisero di diventare scrittore così come egli è stato, «sensibile — sono parole sue — all’eternamente possibile fascismo italiano».
Di questa «sensibilità» si ha conferma nel secondo volume delle opere di Leonardo Sciascia, appena pubblicato da Adelphi, per la cura di Paolo Squillacioti (pp. 1431, € 75). Nel volume, il testo d’esordio dello scrittore, Le parrocchie di Regalpetra ; e la sua opera che forse egli più amò, Morte dell’inquisitore ; e poi, il libro che racconta di un’emblematica tragedia del potere, L’affaire Moro , e tra tanto altro, l’illuminante e illuministico Nero su nero .
E Napolitano disse a Sciascia: devi leggere più riviste dell’Urss
A venticinque anni dalla morte del grande scrittore, Racalmuto espone la sua corrispondenza Lettere da Calvino e Pasolini. E dall’attuale presidente, per fargli apprezzare le idee sovietiche
21 nov 2014 Libero GIANLUCA VENEZIANI
Venticinque anni dopo la morte di Leonardo Sciascia, il suo paese natìo Racalmuto, parola che in arabo significa «Villaggio Morto», è più vivo che mai. Da ieri fino al 20 novembre del 2015, la Fondazione Sciascia organizza infatti nel Comune siciliano la mostra Lettere al centro del mondo, una raccolta di 80 epistole, quasi tutte inedite, scritte tra l’inizio degli anni ’50 e il 1989 all’autore de Il Giorno della civetta da parte di intellettuali italiani e stranieri: un tesoro facente capo alle oltre 6.000 lettere custodite dalla Fondazione, e ora tirato fuori grazie all’iniziativa dell’assessore alla Cultura di Racalmuto Salvatore Picone e al lavoro della bibliotecaria Linda Salvatrice Graci.
Guardando il contenuto delle lettere, colpisce soprattutto il tono supplice o dimesso degli altri scrittori nei confronti del maestro Sciascia. Pier Paolo Pasolini, a esempio, nel 1968 scrive all’intellettuale siciliano per chiedergli voti utili a concorrere al Premio Strega con Teorema. «Ho bisogno di voti», ammette PPP, «non tanto per vincere, quanto per non venire a sapere che sono completamente isolato e abbandonato, a parte pochi amici stretti. Spero che tu sia uno di questi e che ti decida a votare per me». La richiesta di aiuto all’amico non basterà, visto che poi Pasolini si ritirerà dalla cinquina dei finalisti, in quanto ormai «l’industria tende a fare del libro un prodotto di puro consumo e non ha bisogno di buoni scrittori».
Umile, anche se più distaccato, verso Sciascia appare Italo Calvino che il 22 maggio 1953, mentre è già dipendente della Einaudi, chiede allo scrittore di Racalmuto di poter collaborare con la rivista Galleria, diretta dallo stesso Sciascia. «Vi collaborerei volentieri», nota Calvino. «Purtroppo la mia produzione non è molto abbondante», ma «appena avrò un pezzo disponibile, ve lo manderò volentieri». Problemi di scarso tempo da dedicare alla scrittura per via del lavoro in casa editrice riguardano anche Elio Vittorini. Il 21 dicembre 1954 l’allora direttore della collana Einaudi “I Gettoni”, in occasione dell’uscita di un libro di Sciascia, si scusa con l’autore per non aver provveduto in tempo a fornirgli la «cartellina di presentazione» del romanzo, in quanto è già difficile «per me recuperare un po’ di tempo per via del lavoro massacrante, per “I Gettoni”, per Mondadori e per altri»: lavorando per diverse case editrici, Vittorini fatica a svolgere bene il suo compito di editor e ufficio stampa. Nondimeno è prodigo di rimbrotti verso Sciascia, come quando - in una lettera del 1955 - lo redarguisce per aver concesso un’anticipazione del romanzo Le parrocchie di Regalpetra alla rivista Nuovi Argomenti, privandolo così del «piacere di leggere il suo libro per intero e di sorpresa».
Di natura più personale sono le lettere di Anna Maria Ortese, la quale ringrazia Sciascia per averle permesso di ottenere il vitalizio concesso dalla legge Bacchelli a scrittori in difficoltà economiche. «Nel 1978», scrive la Ortese, «lei mi fu molto amico e mi aiutò in un’emergenza straordinaria». Di respiro culturale e geopolitico è invece l’epistola che il 5 gennaio 1975, in piena Guerra Fredda, l’allora onorevole Giorgio Napolitano indirizza a Sciascia, interrogandosi sui problemi relativi alla minaccia atomica e al ruolo della scienza usata a fini politici. L’attuale presidente della Repubblica, complimentandosi con lo scrittore siciliano per il libro La scomparsa di Majorana, mostra «i rischi di repressione che la rivoluzione tecnico-scientifica comporta in assenza di un “controllo sociale”» e avanza la necessità di una sua «regolazione consapevole nell’interesse della collettività». La chicca però è nella conclusione. Onde affrontare meglio la questione, Napolitano invita Sciascia a leggersi il «resoconto della tavola rotonda su “etica, scienza e umanesimo” pubblicato in italiano su Rassegna sovietica nel gennaio 1974» e inserito l’anno precedente all’interno della «rivista sovietica Problemi di filosofia ». Da compagno a compagno (all’epoca erano entrambi esponenti del Pci), il nostro capo di Stato suggeriva a un intellettuale, notoriamente libero nonostante la sua appartenenza partitica, di schiarirsi le idee sfogliando l’organo di divulgazione scientifica di una dittatura. Alla faccia della libertà.
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