Adda venì Carlo quinto!
domenica 30 novembre 2014
Il sistema politico nella penisola italiana ai tempi di Carlo V
Elena Bonora: Aspettando l'imperatore. Principi italiani tra il papa e Carlo V, Torino, Einaudi, pagg. VII-286, € 32,00
Risvolto
Questo libro ricostruisce in modo nuovo un momento cruciale della storia
italiana tracciando il quadro delle aspettative e delle speranze con le quali
principi ed esponenti dei ceti dirigenti della penisola guardarono all'imperatore.
Elena Bonora prende in considerazione i disegni elaborati dagli
uomini di Carlo V in Italia e da gruppi di potere filoimperiali seguendo da
vicino corrispondenze inedite e preziose di cardinali e principi. L'obbiettivo
è portare in primo piano un' "Italia dell'imperatore" - tenacemente
e assolutamente opposta all' "Italia del papa" - sinora poco studiata nella
sua fisionomia complessiva e nel peso politico che rivestí durante gli anni
trenta e quaranta del Cinquecento, in un quadro reso sempre piú instabile
e incerto dall'aggravarsi del conflitto tra Carlo V e il papa Paolo III.
La notte del 18 settembre 1549 il cardinale
di Ravenna Benedetto Accolti muore
di un colpo apoplettico a Palazzo Medici.
Poco dopo, messi e staffette si incrociano,
portando non solo la notizia
della scomparsa del porporato, ma anche
allarmate missive che riguardano
il destino delle sue carte. Due cardinali,
Ercole Gonzaga e Giovanni Salviati,
e due principi, Cosimo de' Medici ed Ercole
II d'Este, sono terrorizzati all'idea
che la corrispondenza dell'Accolti finisca
nelle mani sbagliate. Le informazioni, le
iniziative e i progetti che trovano espressione
in questo carteggio avvolto dal segreto
possono contare su risorse finanziarie
ingenti, su protezioni di altissimo
livello, su vaste reti di fedeltà cortigiane,
su alleanze dinastiche e matrimoniali.
Parlano del papa e dell'imperatore e
della lotta tra i due giganti: contengono
un intero mondo.
A partire da questa corrispondenza sinora
ignota agli studiosi della crisi religiosa
e politica cinquecentesca italiana, Elena
Bonora ricostruisce magistralmente l'Italia
di Carlo V, riportando alla luce l'intricata
rete filoimperiale che collegava
tra loro le corti piú influenti della penisola
e il suo fallimento finale. L'opzione
tra papa e imperatore si traduce nel disegno
di un'Italia legata da vincoli di fedeltà
all'imperatore lontano, di un papato
vicino confinato alla dimensione spirituale,
di un assetto geopolitico italiano
condiviso e controllato dai principi secolari
della penisola, ma saldamente inserito
nell'impero universale di Carlo V.
Adda venì Carlo quinto!
Adda venì Carlo quinto!
Lo studio
di Elena Bonora descrive il clima d'attesa antipapale dei prìncipi
italici per la discesa nella Penisola dell'imperatore
di Massimo Firpo Il Sole Domenica 30.11.14
Quando
fu eletto imperatore del Sacro Romano Impero, il 28 giugno 1519, Carlo
di Gand, il figlio primogenito di Filippo il Bello d'Asburgo (morto nel
1506) e di Giovanna la Pazza, non aveva ancora compiuto vent'anni. Mai
più fino a Napoleone la storia europea avrebbe visto un potere così
esteso in ogni angolo del continente, da Gibilterra a Lipsia, da Anversa
a Tunisi. Fu il più spettacolare successo della sagace politica
matrimoniale degli Asburgo, poiché una serie di morti premature e di
casi fortuiti lo portò a ereditare i domini di tutti i suoi quattro
nonni: da Massimiliano I le terre ereditarie di casa d'Austria e la
corona imperiale; da Maria di Borgogna le ricche Fiandre e la Franca
Contea; da Ferdinando il Cattolico l'Aragona e le corone di Napoli,
Sicilia e Sardegna; da Isabella di Castiglia i regni di una Spagna ormai
liberata dai mori e protesa sugli oceani verso gli sterminati dominii
d'oltremare recentemente scoperti.
Era una miriade di regni,
principati, ducati, città, feudi sui quali Carlo esercitava poteri molto
diversi, talora quasi nominali, che trovavano unità solo nella sua
persona e che lo costringevano a passare la sua vita in continui viaggi,
per mostrarsi ai suoi sudditi, accettarne l'obbedienza, chiederne il
contributo finanziario. Questa frammentata disarticolazione costituì una
delle più gravi debolezze dell'impero sul quale non tramontava mai il
sole, come si disse, dal quale lo stesso Carlo V avrebbe infine abdicato
nella consapevolezza di non poter reggere la sfida alla sua egemonia
europea da parte della poderosa Francia di Francesco I e di un altro
impero in grande espansione, quello ottomano di Solimano il Magnifico,
che dopo aver conquistato l'Ungheria giunse a porre l'assedio a Vienna
nel 1529 e per mare sconfisse ripetutamente la flotta spagnola. Proprio
alla vigilia dell'elezione imperiale, infine, la protesta di Lutero
aveva dato vita alla frana del cattolicesimo a nord delle Alpi, della
quale i principi tedeschi approfittavano per emanciparsi dall'autorità
imperiale, mentre la stessa fine della respublica christiana ne
delegittimava la sacralità di suprema tutrice della fede e della Chiesa.
Queste
tempestose vicende investirono in pieno anche la penisola italiana, la
cui debolezza politica era stata messa in evidenza dalla calata di Carlo
VIII nel 1492 per rivendicare la sovranità francese sul regno di
Napoli. Una nuova stagione di «guerre horrende» (così le definì
Francesco Guicciardini) devastò per un quarantennio la penisola, con il
loro inseparabile seguito di carestie, pestilenze, saccheggi, violenze
d'ogni genere: il sacco di Roma del 1527, perpetrato dalle truppe
imperiali, ne fu l'episodio più noto. Al centro dello scontro c'era
Milano, il bastione dal quale si controllava la ricca e colta Italia del
suo rigoglioso autunno rinascimentale, l'Italia di Machiavelli e
Raffaello, di Bembo e Michelangelo, dove una fitta trama di principati
feudali, di signorotti e tirannelli, di repubbliche cittadine, di
piccole corti cercava di navigare tra i perigliosi flutti di quei
decenni, di muoversi tra Francia e Spagna nel solco di antichi lealismi
dinastici o alla ricerca di nuove alleanze per districarsi e
sopravvivere tra quegli «atrocissimi accidenti», sono sempre parole di
Guicciardini. E l'Italia fu allora al centro della politica di Carlo V,
«il più saggio imperatore e giusto / che sia stato e sarà mai dopo
Augusto», cantava Ludovico Ariosto.
A complicare la situazione c'era
poi il millenario insediamento a Roma del papato, coinvolto fino in
fondo nelle convulse vicende politiche della penisola, alla ricerca di
un'autonomia e di un predominio che induceva a usare le grandi risorse
della cosiddetta fiscalità spirituale della Chiesa per arruolare
eserciti e liberare l'Italia dai barbari, come soleva dire Giulio II, o
per tutelare il proprio potere secolare, come accadde ai papi medicei
Leone X e Clemente VII, che solo grazie alla tiara riuscirono a
controllare Firenze, o ancora per costruire qualche staterello destinato
a perpetuare il potere della famiglia, come non riuscì a fare
Alessandro VI Borgia, mentre ci riuscì Paolo III Farnese, utilizzando
feudi della Chiesa per creare il ducato di Parma e Piacenza e insignirne
suo figlio Pier Luigi, un brutale soldataccio. «Il buon vecchiarello si
sguazza il mondo felicissimo», commentò furioso il cardinale Ercole
Gonzaga, cui parve «una strana cosa il veder fare un duca di due simili
città in una notte, come nasce un fungo». A ciò si aggiunga infine che
l'esigenza di convocare un concilio ecumenico per definire l'ortodossia
cattolica e varare la riforma della Chiesa contrapponeva papato e
impero, proteso l'uno a condannare le eresie protestanti, e l'altro
invece a cercare una possibile mediazione con i luterani, sperando che
un incisivo rinnovamento dell'istituzione ecclesiastica ne avrebbe
frenato i successi in terra tedesca. Il concilio si riunì finalmente a
Trento alla fine del 1545, e lo scontro esplose nel '47 quando, dopo
aver incassato l'approvazione di alcuni importanti decreti teologici,
con il pretesto di un'epidemia Paolo III lo trasferì a Bologna, in terra
della Chiesa, con furibonda collera dell'imperatore, che non tardò a
vendicarsi facendo assassinare Pier Luigi Farnese. «Io so la via di Roma
– tuonava Carlo V – guardisi papa Paulo di non far ch'io vada a
trovarlo!».
Ed è appunto negli anni cruciali del pontificato di Paolo
III (1534-1549) che si immerge il denso e affascinante studio di Elena
Bonora che, sulla base di una ricchissima documentazione d'archivio,
ricostruisce la fitta trama del partito filoimperiale in Italia, tra
principi e feudatari, cardinali e ambasciatori, spie e agenti d'ogni
tipo, ricostruendone attraverso straordinarie corrispondenze private le
istanze, i progetti, le speranze, le delusioni. Ne emerge tutta
un'Italia fieramente antipapale e antifarnesiana, desiderosa di farla
pagare cara a quel pontefice che aveva «oltraggiato tutti i principi
d'Italia», di ficcare «un stecco perpetuo nelli occhi di Sua Santità»,
di togliersi «questo sterco dai piedi», di «empoderarse de Roma», anche
in vista di una riforma della Chiesa tale da assumere in alcuni casi
connotati eterodossi, nella convinzione che spettasse a Carlo V e non a
Paolo III il compito di «aconchiar el mundo i reformar la Iglesia». A
popolare la scena sono personaggi spesso di alto rango e vivida
personalità, come il cinico cardinal di Ravenna Benedetto Accolti, a
dire il vero poco disposto a credere nella fede cristiana,
l'ambasciatore spagnolo don Diego Hurtado de Mendoza, la cui vastità di
esperienze politiche e il cui acuminato giudizio si nutrivano di
straordinaria cultura e spirito di libertà, don Ferrante Gonzaga,
plenipotenziario di Carlo in Italia, e suo fratello Ercole, cardinal di
Mantova, principe della Chiesa e di fatto principe dello Stato
gonzaghesco, l'abilissimo duca di Firenze Cosimo de' Medici, il potente e
imprudente Ascanio Colonna. E con essi si intrecciano le passioni e la
smagata lucidità politica di una generazione che, se riusciva a
sopravvivere in quei terribili frangenti, lo doveva solo alla propria
capacità di capire uomini e cose, di cogliere il senso degli eventi, di
prevedere il futuro.
Di grande interesse, nella forma e nella
sostanza, è il linguaggio affidato ai fitti scambi epistolari imposti
dalla lentezza delle comunicazioni, dal bisogno di ricevere e
trasmettere informazioni, di far conoscere le proprie opinioni sugli
eventi e di sentire quelle degli altri. Un linguaggio talora ironico, ma
più spesso carico di indignazione e talora rabbioso, che il timore
delle spie rende talora criptico, cifrato («il nostro gramuffo», lo
definiva il cardinal Gonzaga), basato su parole in codice e pseudonimi
nella cui labirintica trama l'autrice guida il lettore. Per esempio,
Carlo V è Sansone, Paolo III Cerbero, Cacco o Polifemo, l'alleanza
antifarnesiana l'imperio anticacchico, i cardinali sono i ciclopi mentre
Roma è il ciclopico antro o la spelonca (o meglio la speloncaccia di
Cacco) e andare a Roma è speloncare, cosa che i cardinali antifarnesiani
devono guardarsi bene dal fare (mai, mai, mai, mai, dico mai speloncar
mentre che vi è l'Orco!). E poi gli aspri libelli polemici contro papa
Farnese, «razza sgualdrina», «ingiustissimo et iniquissimo patre et
indebitamente detto pastore universale», «questo Antichristo, questo
mostro horrendo», «pontefice malvagio et ignorante», «inimicissimo di
Dio». La durezza dello scontro e i sentimenti di rabbia e di
indignazione che si manifestano in questi scritti risaltano con crudezza
dalle parole con cui nel 1544 il cardinal Gonzaga si rallegrava di
poter dire che il papa «non solo sia fritto, ma mangiato et caccato
senza reverenza et ridotto già in polvere». Nelle illusorie speranze e
negli inestinguibili odi che vi traspaiono, essi consentono di capire in
presa diretta l'incalzare di uno scontro politico denso di valenze
religiose e di passioni ideali. Uno scontro destinato a esaurirsi dopo
il conclave del 1549-50, con il fallimento delle candidature imperiali
alla tiara a causa delle divisioni interne del partito filosburgico e
con il rapido delinearsi negli anni seguenti del primo tracollo
finanziario della corona spagnola, che avrebbe indotto Carlo V a
rinunciare a una politica duramente antipapale, a dividere i suoi
domini, a inserire l'Italia tutta nell'orbita spagnola e infine ad
abdicare. È anche negli esiti di queste vicende che affondano le radici
del lungo predominio cattolico e papale nella penisola italiana, dove
l'imperatore a lungo invocato e atteso, come ai tempi di Dante
Alighieri, alla fin fine non sarebbe mai arrivato.
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