domenica 30 novembre 2014
Sulla fruizione postmoderna della storia in stile History Channel
Sergio Luzzatto: Storia comune. Nuovi interventi, manifestolibri, Roma, pagg. 228, € 22,00
Risvolto
Mentre strizza l'occhio alla grande narrativa
dell'Ottocento ("Una storia comune" fu il romanzo d'esordio di
Goncarov), il titolo di questo libro rimanda a qualcosa di urgentemente
contemporaneo: i dibattito sui "common goods". Perché anche la storia -
intesa sia quale scienza di un passato condiviso, sia quale tecnica di
una memoria collettiva - deve essere oggi ripensata e tutelata quale
"bene comune". Ma per valere da bene comune, deve essere sottratta a chi
vuole farne un bene indifferenziato: una "narrazione" spendibile sul
mercato della creatività letteraria come su quello della propaganda
politica. La storia è un bene troppo prezioso per essere lasciato in
pasto a praticoni più o meno abili nella contaminazione dei generi e a
liquidatori più o meno seduttivi di ogni cultura dei "professoroni". Che
cosa resta, oggi, dell'illuminismo retrospettivo perseguito dai grandi
maestri della storiografia novecentesca? Quanta parte delle nostre
radici va ritrovata, piuttosto che nel "secolo breve", in certe lunghe
durate della storia medievale o moderna? Come giustificare la
persistente centralità, nell'uso pubblico della storia, della catastrofe
ebraica? Una guida ragionata su alcune domande di fondo della nostra
contemporaneità.
La storia è una maionese impazzita Ogni testimonianza oggi è verità rivelata
Il passato è ridotto a un serial televisivo o a un trekking in alta montagna
di Sergio Luzzatto Il Sole Domenica 30.11.14
Le
cose sono andate in fretta. O comunque più in fretta di come io avrei
mai immaginato. Nel volgere di una generazione – quella che separa me
dai miei figli – la maionese della storia è impazzita. E non perché la
mia fosse una generazione chissà quanto presa dal passato, mentre la
generazione dei miei figli sarebbe chissà quanto ignorante o
indifferente. Non si tratta di questo. Nelle scuole e nelle università,
oggi come allora si incontrano ragazzi appassionati di storia. Ragazzi
che vincono la tentazione, così naturale per la loro età, di vivere in
un eterno presente o in un futuro anteriore, e che scelgono di guardare
anche indietro: ragazzi che per aggiustare la loro visuale sull'oggi
cercano una profondità di campo estesa allo ieri o all'altroieri. Sono
una piccola minoranza, ovviamente. Ma erano una piccola minoranza anche
quelli di trent'anni fa.
La maionese della storia non è impazzita a
livello di domanda, è impazzita a livello di offerta. E la
responsabilità di questo non può ricadere, evidentemente, sulla
generazione dei quindicenni o dei ventenni di oggi. A esserne
responsabile, semmai, è la generazione dei loro padri. Cioè la mia.
Quella del famoso «riflusso» seguito al famoso «impegno» degli anni
Settanta. Quella di adolescenti che dopo avere perso (senza troppi
rimpianti) l'ultimo autobus della rivoluzione, scoprivano
l'insostenibile leggerezza del compiere vent'anni durante gli anni
Ottanta. Nell'Italia spensierata della Milano da bere, ma anche
nell'Europa acuminata della Lady di Ferro. E nell'Occidente che si
disponeva a prendere per buona, dopo la caduta del muro di Berlino, la
bufala all'americana sulla «fine della storia». È stata la mia
generazione, quella di chi ha adesso cinquant'anni o giù di lì, la prima
del secondo Novecento ad avere sorriso della grave massima di Cicerone,
historia magistra vitae. Salvo trovarsi a dover misurare, ora, le
estreme ricadute di quel sorriso di condiscendenza.
Per carità,
evitiamo di farci incantare dalla retorica ciceroniana del De Oratore,
che nella citazione completa del passo suona così: «historia vero testis
temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia
vetustatis» (e nella traduzione di Wikipedia: «La storia è veramente
testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di
vita, messaggera dell'antichità»). Lasciamo stare Cicerone. Ma teniamo
aperta la citazione dal De Oratore, sulla schermata di Google,
abbastanza per notare come la maionese della storia sia impazzita, da
una ventina d'anni a questa parte, proprio nella misura in cui i diversi
elementi della definizione ciceroniana sono stati mischiati e
rimischiati senza criterio, come in un cocktail dell'assurdo. Niente
Bellini o Rossini, niente Margarita o Bloody Mary: al cinema come in
libreria, sui media come sul web, nell'attuale offerta pubblica di
historia gli ingredienti e i valori della ricetta di Cicerone –
testimonianza e verità, vita e memoria, magistero e messaggio – sembrano
usciti dallo shaker di un barista ubriaco.
Che si tratti di un
kolossal hollywoodiano o di un documentario di History Channel, di un
romanzo storico francese o del saggio di un divulgatore italiano, delle
pagine culturali di un quotidiano o del sito di un museo civico, non c'è
oggi testimonianza che non venga contrabbandata come verità; non c'è
messaggio che non venga spacciato per magistero; non c'è memoria che non
venga confusa con la storia. Il passato bussa spesso alla porta del
nostro mercato culturale, che sia sotto la forma di un film sui
gladiatori o sotto quella di un serial sui Borgia, che sia come proposta
di un trekking lungo le trincee della Prima guerra mondiale o come
organizzazione di una gita scolastica ai forni crematori di Auschwitz.
Il passato bussa, attira, e perfino fa cassa. Ma è un passato –
paradossalmente – dimentico di storia, se per storia si intende qualcosa
di più che le quinte di una coreografia o le sorprese di una
sceneggiatura, che il brivido di un'emozione o la vertigine di uno
spaesamento.
Intellettuali avvertiti avevano segnalato per tempo il
rischio di un corto circuito "post-ideologico" fra ricerca e
immaginazione, interpretazione e scrittura, non fiction e faction. Fin
dal 1979 uno dei maggiori storici inglesi si era interrogato sui
possibili effetti distorsivi di un «ritorno alla narrazione», dopo che
per decenni la storiografia internazionale si era soprattutto affidata
alla modellistica delle scienze sociali. Nel 1998, una studiosa francese
della Shoah ragionava dell'avvento di un'«èra del testimone» in cui
l'assunzione del punto di vista di un singolo personaggio della storia –
la testimonianza, per l'appunto – aveva ormai assunto il carattere,
prima ancora che di una necessità interiore, di un imperativo sociale.
Oggi, la contaminazione dei generi intorno all'uso pubblico della storia
è talmente diffusa che quasi nessuno, là fuori, sembra più intenzionato
a porsi il problema.
Raro, per non dire eccezionale, è il caso del
collettivo italiano di scrittura Wu Ming, che ha accompagnato e
accompagna la propria attività letteraria – quasi tutti romanzi o
racconti storici – con una riflessione insistita quanto acuta sulle
forme e sulle implicazioni di una «New Italian Epic». Nella stragrande
maggioranza dei casi, in Italia come all'estero, la maionese della
storia impazza senza fare notizia. E senza che i critici letterari
provino davvero a distinguere, se non l'olio dall'uovo, il grano dal
loglio: l'impressionante cultura storica (oltreché l'invidiabile qualità
stilistica) di un Javier Cercas o di un Emmanuel Carrère o di un
Jonathan Littell, dalla finta confidenza con la materia dell'uno o
dell'altro narratore travestito nei panni di un buono o di un cattivo
del passato, partigiano polacco o gerarca nazista, alchimista del
Rinascimento o terrorista delle Brigate rosse.
Gli storici di
mestiere, per parte loro, esitano fra due strade. I più reagiscono
all'invasione di campo di cuochi maldestri e baristi ubriachi
trincerandosi nel ridotto dell'accademia. Scrivono libri illeggibili per
chiunque non sia un loro collega d'università o un loro studente
coatto. E li pubblicano con quanto resta loro a disposizione di fondi
pubblici, il libero mercato editoriale non essendo più in grado di
assorbire monografie destinate a poche decine di lettori. Ma così
facendo, gli storici di mestiere allargano il fossato tra il sapere e il
trasmettere, oltreché il fossato tra lo scrivere e il farsi leggere.
Sempre più vengono percepiti dalla nuova generazione – quella dei loro
studenti, che può coincidere con quella dei loro figli – come i patetici
ufficiali di una Fortezza Bastiani (se soltanto i ragazzi di oggi
leggessero Buzzati) arroccati a difendere il deserto dalla minaccia di
un nemico inesistente. Un piccolo numero di storici professionisti,
invece, reagiscono all'invasione di campo invadendo a loro volta il
campo altrui, le cucine dei cuochi come i banchi dei baristi. Quasi
fossero sospinti da un rigurgito marxiano di ostilità verso la divisione
sociale del lavoro, abbandonano i luoghi e accantonano i ferri del loro
mestiere – sale manoscritti delle biblioteche, buste degli archivi –
per impugnare mixer e brandire shaker: si improvvisano artefici di
intingoli e cocktails basati sulla contaminazione tra storia e
letteratura. Senza rendersi conto che il talento narrativo è come il
coraggio di don Abbondio, chi non ce l'ha mica se lo può dare. E senza
sospettare che le loro divagazioni extra-storiografiche possono finire
per gettare un'ombra, al limite, sul profilo stesso della loro
produzione di storici.
È di altro che oggi si avverte il bisogno. Di
un sapere storico saldamente ancorato alle regole del mestiere, eppure
impaziente di uscire dalle secche di una comunicazione del passato tutta
interna alla disciplina, riservata agli addetti. C'è bisogno oggi, da
parte degli storici, di una rinnovata assunzione di responsabilità
civile. Perché la domanda di historia che variamente emerge dal mondo
della scuola, dal mercato dell'intrattenimento, dagli intrecci del web,
non merita né di essere stroncata come imperdonabilmente superficiale né
di essere vellicata con imperdonabile superficialità. A quella domanda
di storia – quand'anche ristretta per vocazioni studentesche, confusa
nei criteri culturali, caotica dentro l'orizzontalità della rete –
merita di rispondere con un sovrappiù di investimento sulla qualità
dell'offerta.
In effetti, l'intero problema dell'uso pubblico della
storia rimanda a qualcosa di urgentemente contemporaneo, e di
intrinsecamente politico: la grande questione dei common goods. Perché
anche la storia – intesa sia quale scienza di un passato condiviso, sia
quale tecnica di una memoria collettiva – deve essere oggi ripensata e
tutelata quale «bene comune». Ma per valere da bene comune, la storia
deve essere sottratta a chi vuole farne un bene indifferenziato: uno
story-telling altrettanto spendibile alla fiera della creatività
letteraria quanto nell'arena della propaganda politica. La storia è un
bene troppo prezioso per essere lasciato in pasto a praticoni più o meno
abili nella contaminazione dei generi e a liquidatori più o meno
seduttivi di ogni cultura dei «professoroni».
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