sabato 15 novembre 2014

Impedire che la guerra tra bande nel PD assorba il conflitto politico-sociale e sacrifichi le esigenze di ricomposizione di classe



Tutto è sempre intrecciato: non c'è mai una cosa o l'altra. Bisogna capire qual è l'aspetto prevalente e lavorarci sopra [SGA].

ll segretario della Fim-Cisl «È stato un regolamento di conti a sinistra»
di Enrico Marro Corriere 15.11.14

ROMA Che cos’è per il segretario della Fim-Cisl (metalmeccanici) lo sciopero sociale dei sindacati di base e movimenti vari? 
«Ho grande rispetto per chi si mobilita — risponde Marco Bentivogli, 44 anni — ma quando si fa confusione tra obiettivo politico e obiettivo sindacal-sociale, alla fine prevale il primo, il regolamento dei conti a sinistra, e si tradisce il secondo. Per non parlare poi della violenza, che va sempre condannata. E invece vedo troppi apprendisti stregoni che scatenano elementi che non sono in grado di controllare». 
Lei gli incidenti li ha vissuti in prima persona di recente. Era in strada con gli operai dell’Ast quando la polizia ha caricato. 
«Sì, lì c’è stato un errore madornale dei responsabili dell’ordine pubblico. I metalmeccanici non usano violenza. Ma è paradossale che quando non succede nulla i media non se ne occupano. Al contrario quell’unica volta in cui ci sono incidenti, e per di più in piazza c’è anche il leader della Fiom Landini, c’è una spettacolarizzazione del conflitto da parte dei media che è sbagliata, perché rischia di tarare anche i dirigenti sindacali sul livello mediatico». 
Il conflitto c’è nella realtà, non crede? Come vede la situazione sociale dal suo osservatorio? 
«C’è disperazione e disagio. La gente è sempre più sola. E le assicuro che quelli che stanno veramente male non spaccano vetrine e non entrano nell’Arcivescovado di Milano. Il sindacato e il volontariato, in questi anni, hanno fatto da argine alla disperazione. Ma ci sono due tipi di sindacato, quello che tiene insieme l’emergenza e la ricerca delle soluzioni e quello che dice stiamo male e andremo peggio». 
Camusso proclamando lo sciopero generale Cgil ha detto: «Abbiamo la responsabilità di convogliare il disagio sempre più diffuso». 
«A me sembra più uno sciopero politico e di sopravvivenza». 



L’asse Camusso Landini per il sindacato-movimento “La partita non è chiusa”
“Anche noi giochiamo a 360 gradi”

di Roberto Mania Repubblica 15.11.14

ROMA . «Renzi non può pensare che solo lui gioca a 360 gradi. Lo facciamo e lo faremo anche noi». In questa frase di Maurizio Landini c’è tutta la strategia del sindacato- movimento che il leader della Fiom persegue da tempo. La stessa che interpretò più di dieci anni fa Sergio Cofferati, segretario della Cgil, nell’opposizione, allora, al governo Berlusconi e poi, poco dopo, anche alla guerra in Iran.
L’asse Camusso-Landini, con il significativo abbraccio ieri a Milano nel corteo dei metalmeccanici, la ripropone con una variante però decisiva: l’attuale governo è guidato dal segretario del Pd, al quale è ancora iscritta una larga parte del gruppo dirigente della Cgil, Camusso compresa. Renzi — ha scritto su questo giornale Ilvo Diamanti — “si è definito di Sinistra e ha aderito al Partito del Socialismo Europeo. Ma si è orientato al centro. Volgendo lo sguardo più in là. A Centro-destra”. Lasciando uno spazio a sinistra, dunque, che la Cgil-movimento si trova a colmare. Si è visto ieri a con la contaminazione tra i metalmeccanici e le aree del disagio sociale giovanile e della precarietà, e con la partecipazione di esponenti di Sel (Nichi Vendola e Giorgio Airaudo) e della minoranza Pd (Stefano Fassina e Giuseppe Civati). Si è visto alla manifestazione di Roma del 25 ottobre scorso. E appare anche evidente che questa Cgil sia oggi a forte trazione “landiniana”.
Ora la confederazione è tutta proiettata verso lo sciopero generale di otto ore di venerdì 5 dicembre. Prima, il 21 novembre, ci sarà l’altro sciopero generale dei metalmeccanici del centrosud con una manifestazione a Napoli. «La partita non è assolutamente chiusa», diceva ieri Susanna Camusso. E Landini, dal palco: «Non ci fermeremo, andremo avanti fino a quando non cambieremo le loro posizioni. Abbiamo la forza e l’intelligenza per farlo. Noi non stiamo scherzando ». Poi di ritorno da Milano spiegava: «C’è un attacco alla contrattazione senza precedenti. Che è poi un attacco al sindacato confederale e al mondo del lavoro. Ecco perché dobbiamo mettere in campo un movimento sociale che abbia il suo perno sul lavoro».
Aggiunge Giorgio Airaudo che per anni ha lavorato fianco a fianco con Landini: «Nelle piazze della Cgil c’è una domanda di politica diversa da quella offerta da Renzi e che non può essere intercettata dalle correnti del Pd. Insomma non è più sufficiente la strategia della riduzione del danno». E d’altra parte la mediazione sull’articolo 18 all’interno dei democratici — ha detto la Camusso — «non ci pare sia una risposta per mantenere la difesa dei diritti che noi facciamo. E non sarà un voto di fiducia che cambierà il nostro orientamento e la nostra iniziativa». La mediazione? «Una presa in giro», l’ha bollata Landini.
La Cgil è compatta, fino adesso. Eppure quando alla riunione dell’ultimo Direttivo, quello che ha proclamato lo sciopero generale, la relazione della Camusso è stata applaudita anche da Gianni Rinaldini, predecessore di Landini alla guida della Fiom e leader di quella che è stata la minoranza al congresso confederale, in molti hanno capito che il nuovo asse al vertice della Cgil sta mutando profondamente la strategia del sindacato. Con il rischio di imboccare una strada senza ritorno, mentre la Camusso aveva investito molto sulla ritrovata unità d’azione con la Cisl e la Uil.
I malumori, dunque, serpeggiano, ma fino allo sciopero generale del 5 dicembre non emergeranno pubblicamente. C’è tutta l’area riformista schierata apertamente contro Landini al congresso di luglio, che teme, appunto, la deriva del sindacatomovimento. «Cosa si fa dopo il 5?», è la domanda più ricorrente nel palazzo di Corso d’Italia e in tante strutture territoriale e di categoria. In segreteria confederale avrebbe espresso i suoi dubbi Fabrizio Solari; qualche distinguo anche da Franco Martini. E pare che la stessa leader dei pensionati Carla Cantone non sia del tutto allineata. «Perché — si dice a mezza bocca e finora dietro un rigoroso anonimato — la Cgil non può limitarsi a raccogliere il dissenso. Servono i risultati. Altrimenti si rischia di cambiare mestiere». E se fosse proprio questo l’obiettivo di Renzi?



Protesta e caos. Ma cosa resterà?

di Dario Di Vico Corriere 15.11.14

Chi sa creare lessico è già a metà dell’opera. E indubbiamente la formula dello «sciopero sociale», lanciata dai Cobas per la giornata di ieri, è mediaticamente accattivante. 
In più il perno della protesta di ieri erano le otto ore di stop delle fabbriche del Nord indette dalla Fiom, un sindacato fortemente strutturato e dotato di un leader che alle tv e ai giornali piace tanto, al punto che gli amici e concorrenti della Fim-Cisl sono ormai arrivati agli sfottò. 
Ma messe da parte le tecniche di comunicazione vale la pena chiedersi cosa veramente ci sia dietro la formula del cosiddetto sciopero sociale. E la risposta è semplice: chi da anni frequenta le piazze, come l’irrottamabile portavoce dei Cobas Piero Bernocchi, ha capito che per creare l’effetto protesta&caos basta sommare un corteo e un blocco dei trasporti pubblici e il risultato è garantito. Le città moderne sono un reticolo di micro spostamenti ed è sufficiente interromperli per generare confusione, scandalo politico e qualche ferito. Ma non c’è niente di sociale in questa ricetta. Anzi, si finisce per accentuare la distanza tra chi è protagonista del blocco, del corteo, persino dello scontro con la polizia e il popolo minuto, gli utenti dei servizi pubblici. 
Sia chiaro non c’è cinismo in queste considerazioni. Tutt’altro. È evidente che una società, sottoposta a uno stress di sei anni di crisi e bombardata da continue revisioni al ribasso delle stime del Pil, andrebbe rassicurata. Ci vorrebbe la capacità di parlare ai vari segmenti che la compongono. Agli abitanti delle città dell’acciaio che rischiano il degrado, alle ragazze che per un posto da Calzedonia fanno il colloquio di prova in vetrina, alle parrucchiere italiane che devono contrastare la concorrenza cinese a 6 euro al taglio e non sanno che pesci pigliare, alle partite Iva che si aspettano un regime fiscale che le aiuti a metter su un’attività e vedono solo confusione, agli artigiani che in questi anni hanno fatto da ammortizzatori sociali e ora si vedono costretti a tagliare il personale. 
Ci vorrebbero soggetti capaci di interloquire con questo disagio, capaci di raccoglierlo. Ci sarebbe bisogno di una sorta di «pronto soccorso» della crisi, un indirizzo a cui rivolgersi. Garanzia Giovani, il programma finanziato dai soldi della Ue, poteva essere una — solo una — di queste forme di ristoro sociale. Doveva servire a rendere i ragazzi occupabili, a spiegar loro che l’economia è cambiata, che lavoro dipendente e lavoro autonomo stanno quasi per toccarsi e assomigliarsi. Doveva servire a metterli in grado di conquistare un’occasione di lavoro. E invece purtroppo questo test di saldatura tra alto e basso, tra istituzioni e popolo, è rimasto molto al di sotto delle speranze. Non è casuale che nelle sue numerose esternazioni il presidente del Consiglio eviti di parlarne. La lingua, in questo caso, non batte dove il dente duole. 
Nelle prossime settimane andremo incontro a nuovi scioperi e va portato rispetto a chi vi aderisce, a chi sacrifica una porzione di salario per segnalare il suo malessere. Ma siamo sicuri che le associazioni di rappresentanza chiamando così ripetutamente al blocco facciano la cosa giusta? Non si comportano così prima di tutto per soddisfare le esigenze politico-identitarie delle loro sigle e dei loro leader? 
Il dubbio è quantomeno legittimo e del resto non è un caso che le innovazioni sociali di questi anni (il welfare aziendale e la sharing economy) non siano scaturite dalle piattaforme dei sindacati.



Renzi è solo al comando Le minoranze si menano

OGGI BERSANI A MILANO INVITA TUTTI GLI OPPOSITORI DEL SEGRETARIO DEMOCRAT ALLA BATTAGLIA COMUNE, MA CUPERLO HA GIÀ FATTO SAPERE CHE NON CI ANDRÀ

di Luca De Carolis il Fatto 15.11.14

Un uomo solo al comando, tre minoranze che vanno in ordine sparso. Spesso l’una contro l’altra. La geometria del Pd dell’era renziana è la celebrazione del divide et impera. Chiedere conferma a Pier Luigi Bersani, che oggi a Milano riunirà la sua Area riformista per lanciare “un appello all’unità” a tutti i non allineati al verbo rottamatore. Divisi, come non mai. Basta leggere il Gianni Cuperlo di ieri su Repubblica: “La riunione a Milano? Non vado, non mi hanno chiamato”. Il leader di Sinistra dem non sarà tra i bersaniani doc: da Roberto Speranza a Guglielmo Epifani fino a Cesare Damiano e Maurizio Martina, tutti fautori della mediazione sul Jobs act con Renzi. Non ci sarà Nicola Zingaretti (invitato). E mancherà Stefano Fassina, pure formalmente bersaniano, ieri a Milano proprio per la manifestazione della Fiom contro il ddl sul lavoro. “Peresprimermisulnuovo testo aspetto di vederlo” spiega. Ma la frattura resta evidente. In meno di un anno, l’area che nelle primarie appoggiava Cuperlo contro Renzi è deflagrata in almeno tre fazioni. L’ex candidato alla segretaria è (quasi) sull’Aventino, Bersani e i suoi sono ostili al premier ma vogliono trattare, Matteo Orfini e i Giovani Turchi sono l’ala sinistra del renzismo. Sulle barricate ovviamente anche Massimo D’Alema, che vorrebbe una contro-opa sul partito. Ma che oggi assomiglia a un generale a corto di truppe. Infine, Pippo Civati, che lavora a un’alleanza con Sel, Cgil e movimenti. È la mappa di quelcherestaallasinistradiRenzi. Divisione dopo divisione.
UN TURCO COME PRESIDENTE
A Europee appena stravinte, Renzi ridisegna la gerarchia del Pd. Il 14 giugno l’assemblea dem elegge come presidente Matteo Orfini a grande maggioranza (690 sì, 32 astenuti). Teoricamente sarebbe una carica per la minoranza, di fatto è una cannonata agli oppositori. Orfini, archiviate le primarie, è presto entrato nell’orbita renziana. Non a caso Cuperlo avrebbe voluto alla presidenzaNicolaZingaretti, ma Renzi ha risposto picche. I civatiani si astengono in blocco. Non votano anche diversi bersaniani, come il deputato Alfredo D’Attorre: “Scegliendo Orfini si è andati nella direzione di un accordo con le correnti per premiare chi è entrato nella maggioranza”. Il segretario ha ufficialmente reciso un pezzo di sinistra.
CAOS IN TRINCEA
Il 29 settembre l’opposizione e Renzi se le danno in diretta tv, nella direzione del Pd sul Jobs act. Tema caldissimo, le modifiche all’articolo 18. Il segretario alterna bastone e carota: “Le mediazioni vanno bene, ma i compromessi non si fanno a tutti i costi”. Da sinistra monta la bufera. Bersani sorprende: “Noi andiamo sull’orlo del baratro non per l’articolo 18 ma per il metodo Boffo”. D’Alema morde: “È un impianto di governo destinato a produrre scarsissimi effetti, meno slogan e meno spot”. Ma sull’ordine del giorno l’opposizione si spacca. Votano contro Civati, il lettiano Francesco Boccia, Cuperlo, Fassina, Bersani. Undici gli astenuti, tra cui Roberto Speranza, prima fila di Area riformista. I bersaniani “governativi” tolgono la gamba. E l’ordine del giorno passa con 130 voti (l’80 per cento). Renzi se la ride con i suoi: “Li abbiamo spianati”.
ASTENUTI E MAZZIATI
A inizio ottobre il Jobs act approda in Senato. Il premier non si fida e blinda il testo con la fiducia. Le minoranze interne digrignano i denti ma alla fine votano compatte per il sì. Fanno eccezione tre civatiani, Felice Casson, Lucrezia Ricchiuti e Corradino Mineo, che escono dall’aula prima del voto. Il compagno di cordata Walter Tocci invece dice sì, ma annuncia le dimissioni. I renziani Guerini e Giachetti minacciano sanzioni (senza sviluppi), ma quel che conta è che nel Pd si è consumato un altro strappo definitivo. I civatiani sono in guerra, bersaniani e cuperliani hanno abbassato le armi.
PIAZZA CONTRO LEOPOLDA
Il 25 ottobre è sfida incrociata di numeri e slogan. La Cgil riempie piazza San Giovanni a Roma, Renzi celebra la sua quinta Leopolda a Firenze. E le minoranze tornano a dividersi. Bersani se ne resta a casa, come Speranza e sodali vari. D’Alema è fuori Roma. Cuperlo, Civati e Fassina invece corrono nella piazza rossa, assieme a Rosy Bindi e bersaniani inquieti (D’Attorre). Poi sono altre polemiche. Renzi nomina sottosegretario Paola De Micheli, fiaccando il gruppetto lettiano. Si trova una mediazione tra bersaniani e il renziano Taddei sul Jobs act (reintegro per licenziamenti discriminatori e per quelli ingiustificati di natura disciplinare). Ma Civati la ripudia, Cuperlo pare contrario, la Bindi avverte: “Non mi piace molto”. Tante voci, tante minoranze.

Jobs act, minoranza pd verso l’intesa La rabbia di Landini: «Presa in giro»
Appello di Bersani all’unità: bene la mediazione Accordo vicino anche con Ncddi Alessandro Trocino Corriere 15.11.14
ROMA L’accordo sul Jobs act, la riforma del mercato del lavoro, è più vicino. Dopo la mediazione dentro il Pd e la levata di scudi del Nuovo centrodestra, ulteriori trattative vanno nella direzione giusta. Lo ha sottolineato Matteo Renzi e lo ha detto ieri anche Angelino Alfano: «Con il Pd si rischiano marce indietro, ma l’accordo è in via di conclusione». Anche la minoranza del Pd, salvo poche eccezioni, sembra sul punto di accettare il compromesso. Anche per questo ieri il leader della Fiom, Maurizio Landini, si è scagliato con forza contro la mediazione. Definita «una presa in giro, che serve solo ai parlamentari per conservare il loro posto, non ai lavoratori e alla difesa dei loro diritti». A differenza del segretario della Cisl, Annamaria Furlan: «Le modifiche al Jobs act vanno incontro alle nostre richieste».
L’attacco di Landini è diretto alla minoranza del Pd, che sembra convergere con il segretario Matteo Renzi, pur tra i distinguo. Ne sarà una dimostrazione plastica la sfilata dei nomi di peso che si presenteranno oggi all’iniziativa di Milano organizzata da Area riformista. Componente che vede schierati Pier Luigi Bersani, Roberto Speranza, Maurizio Martina, Guglielmo Epifani e Cesare Damiano. Tutti esponenti critici, fino all’altro ieri, e che ora hanno smussato molto i loro attacchi. Bersani, ai suoi, ieri spiegava: «La mediazione è un bel passo avanti, anche se ci sono altre cose da correggere». Riferimento alle risorse per gli ammortizzatori sociali e alle tipologie contrattuali. L’ex segretario del Pd resta scettico: «Fosse stato per me, non avrei riaperto la questione dell’articolo 18». Ma così è stato e la mediazione che accetta le decisioni della maggioranza della Direzione è «un fatto positivo». Anche per questo Bersani oggi farà un appello all’unità, perché «si resti con due piedi dentro il partito». Posizione che si estende anche alla questione della legge elettorale: «Alla fine le cose sono cambiate, evidentemente le nostre richieste non erano così campate in aria». Come la parità di genere, la soglia d’ingresso e le preferenze. Anche se resta da correggere il meccanismo che prevede «ancora troppi nominati».
Posizioni non dissimili da quelle di Guglielmo Epifani: «Io non avrei toccato l’articolo 18, ma la mediazione ha ottenuto di non far mettere la fiducia. Tutto quello che si modifica per recuperare un diritto è un fatto positivo». Più cauto Alfredo D’Attorre: «C’è stata una sterzata molto forte sul metodo. Ma il punto cruciale è quante risorse mettiamo sugli ammortizzatori». Restano le diffidenze di Stefano Fassina (che però ha parlato di «passo avanti»), di Gianni Cuperlo e di Pippo Civati. Quest’ultimo rimane della sua opinione: «Renzi ha fatto un passo indietro, ma il testo da molto brutto è passato a brutto. Non mi aspettavo certo la rivoluzione culturale cinese e così è stato. Non mi va giù che Renzi possa dire di avere abolito l’articolo 18: voterò contro».
Non tutto è chiarito. E lo dimostra la disputa sui licenziamenti disciplinari con Ncd e minoranza Pd ancora critici su alcuni punti delle modifiche. Restano contrari al Jobs act Lega e M5s. Compreso l’ex grillino Luis Orellana, che al Senato non ha mai votato la fiducia al governo Renzi né al Jobs act, ma ha dato il via libera, insieme alla maggioranza, alla nota di variazione del Def.

Gianni Cuperlo “Il premier sta attraendo una maggioranza di elettori sulla base di un impianto moderato.
Rassicura gli imprenditori, strapazza i sindacati vuole un Partito della nazione unica àncora” “Non bastano ancora le modifiche al Jobs act Via dal Pd? Io voglio una nuova sinistra” Attacco a Renzi e alla sua politica economica “Anche la legge di Stabilità non è espansiva”intervista di Alessandra Longo Repubblica 15.11.14
“Il lavoro per la sinistra non è merce monetizzabile. È dignità e cittadinanza. A questo non rinuncio
Una nuova sinistra è davanti a una scelta di vita: organizzare un campo di forze, idee, e parlare al Paese”
ROMA Gianni Cuperlo mi lasci iniziare con la battuta di Landini sulla mediazione in materia di Jobs Act dentro il Pd. Dice che chi ha scelto la linea trattativista l’ha fatto per conservare la poltrona.
«Landini parla di donne e uomini che meritano rispetto. Io penso che la riforma vada cambiata ancora ma proprio lui che parla giustamente di unità deve evitare toni sbagliati».
Quelli che vedono il bicchiere mezzo pieno dicono che Renzi ha fatto un passo indietro.
«Una retromarcia l’ha fatta.
Riconosce che il Parlamento non è un passacarte. In questo anche le piazze hanno avuto un peso e lì non c’era gente col problema del ponte ma della spesa».
Ma lei voterà il Job’s Act?
«Quando in gioco è il destino delle persone non c’è maggioranza o minoranza. Conta il merito e su quello giudicherò ».
Mi faccia capire. Con gli emendamenti di giovedì sera il Job’s Act le sembra una buona o una cattiva riforma?
«È positivo lo sfoltimento dei contratti e le risorse in più per gli ammortizzatori. Ma prevedere diritti differenti per lavoratori con lo stesso contratto porterebbe a una nuova discriminazione di dubbia costituzionalità. Aggiungo che liberalizzare i licenziamenti economici individuali quando manifestamente infondati apre il fianco a possibili frodi e violazione di diritti. Io dico: lavoriamo per altri passi avanti, anche sulla estensione delle tutele. Il punto è che il lavoro, almeno per la sinistra, non è una merce monetizzabile. È dignità, cittadinanza. E a questo principio non rinuncio».
Cuperlo lei evoca la parola “sinistra”. Ma francamente non si capisce quanti Pd ci sono.
C’è chi dice tre o quattro. Di sicuro c’è il partito di Renzi, il partito della Nazione...
«Renzi sta attraendo una maggioranza degli elettori sulla base di un impianto moderato. Lui rassicura gli imprenditori, strapazza i sindacati, rimuove i conflitti sociali. Tutto sommato gli va bene che a destra Salvini faccia Le Pen e sull’altro fronte qualcuno strilli contro i “padroni”. In un quadro dove il cosiddetto “partito della Nazione” resterebbe la sola ancora».
Non è forse così alle condizioni date?
«Temo che questo disegno in realtà sia un “pastrocio”».
Pastrocio?
«Sì, come spalmare la nutella sul wurstel. Occulta una rappresentanza sociale della politica che invece esiste e vorrebbe ridurre la sinistra a conservazione o a fare l’usciere nei palazzi del Potere». Il profumo della pietanza
sembra attirare masse trasversali.
«Beh siamo in Italia e il progetto, anche per le capacità indubbie del premier, induce qualche trasformismo».
Peccato non fare nomi, Cuperlo.
«Ma no, i peccati sono altri».
A tempo debito, quando Renzi scadrà naturalmente da segretario, darete battaglia per riconquistare la leadership?
«Conta come ci si arriva. Parliamo del 2017».
A questo vostro travaglio si aggiunge la crisi che morde e una legge di stabilità dai contorni ancora fumosi.
«Il Pil cala da 13 trimestri, è la recessione più grave della storia repubblicana. Il governo ha reagito con sussidi alle famiglie e sgravi alle imprese, ma sono misure insufficienti. È lo schema di Bruxelles che non va. L’ideologia per cui tagliando la spesa e svalutando il lavoro si riaggiusta l’economia. All’Europa andrebbe detto che una flessibilità di qualche miliardo è come stroncare la polmonite con l’aspirina. Una spinta più forte alla ripresa significa alcune decine di miliardi per investimenti fuori da vincoli pensati in un tempo storico completamente diverso».
E la legge di stabilità?
«A mio parere non è abbastanza espansiva. Per uscire da una recessione così profonda servono una politica redistributiva radicale, un nuovo patto fiscale e una iniezione decisa di investimenti pubblici. Ne va della nostra sopravvivenza e se guardiamo a Genova o Carrara della nostra sicurezza».
Cuperlo queste battaglie si fanno dentro il Pd o avete la tentazione di andarvene?
«Una nuova sinistra è davanti a una scelta di vita. Può organizzare un campo di forze, idee, e parlare al Paese, oppure contentarsi di chiosare le scelte degli altri. Io vorrei la prima cosa e la vorrei in un PD più aperto, lasciandoci alle spalle divisioni e personalismi. Allora dico: costruiamo assieme, al più presto, un grande appuntamento. Mettiamo migliaia di persone diverse a ragionare sulla democrazia, su un’altra economia, sul mondo dopo la crisi. Il tempo è ora. Dopo potremmo voltare la testa e scoprire di averne lasciato troppi da soli, senza una bussola e spesso senza una tessera. Non servono nostalgia e rimpianti. Servono fantasia, umiltà e quella dose di indignazione che ti fa sempre alzare lo sguardo. Come direbbe la moderna Sibilla, hoc opus, hic labor».

Ma la minoranza si spacca in tre
L’opposizione interna al segretario-premier divisa tra scissionisti, pontieri e filo-Cgil Fassina e Civati in piazza per contestare il governo “Dare voce a chi protesta” Oggi i bersaniani a Milano. Damiano nel mirino degli intransigentidi Giovanna Casadio Repubblica 15.11.14
ROMA «Più che in trincea il vostro affezionatissimo va semplicemente in piazza...». Sul suo blog Pippo Civati fotografa la distanza che divide le tre sinistre dem: irriducibili come Civati, pontieri come Speranza e De Micheli, filo Cgil come Cuperlo e Fassina. Passa attraverso la Cgil e la piazza. Lo “sciopero sociale” di ieri è stata l’ennesima prova del nove tra chi manifesta con la Cgil e chi tratta sul Jobs Act. Stefano Fassina ad esempio, era anche lui in piazza a Milano. Di quella che fu la minoranza del Pd, un anno dopo le primarie che hanno consegnato il partito a Renzi, restano spezzoni, ruscelli, frantumi. Non è un caso che oggi a Milano la corrente “Area riformista” affiderà al ministro Maurizio Martina, al capogruppo dem alla Camera Roberto Speranza e all’ex segretario Pierluigi Bersani l’ultima chiamata: non dividiamoci. E martedì prossimo si farà una prova di unità con emendamenti comuni alla legge di Stabilità di tutte le minoranze dem, dai dalemiani a Bindi, dai bersaniani a Civati. Le differenze però sono andate sedimentandosi e il segretariopremier ha avuto buon gioco a coinvolgere nel partito, e al tempo stesso disperdendo, gli oppositori interni.
I “giovani turchi”, che sono stati i supporter di Gianni Cuperlo alle primarie in cui sfidò Renzi, sono perfettamente renziani. Uno dei loro leader, Matteo Orfini, è diventato il presidente del partito. Ma anche nella sinistra bersaniana tutto è cambiato. Cesare Damiano, ex sindacalista Fiom, ora presidente della commissione Lavoro è stato una delle teste di ponte della trattativa con il governo sul Jobs Act. A un certo punto è finito nel mirino degli “intransigenti” che gli hanno rimproverato di non impuntarsi almeno per evitare di anticipare il Jobs Act rispetto alla legge di Stabilità. Qui l’ha vinta Renzi. Però Damiano rivendica: «Abbiamo fatto un buon accordo e va difeso». E al segretario Fiom, Maurizio Landini dice che di tante frasi inappropriate pronunciate, una è però giusta: «È vero che il sindacato e le sue battaglie non si fanno interpretare da un partito o dalla sua minoranza... ». Come Paola De Micheli, lettiana della prima ora, appena nominata sottosegretario all’Economia. Ha chiarito subito che avrebbe fatto da “pontiere” tra minoranza e governo, però ovvio che il suo è un punto di vista governista. La sinistra riformista e di governo - quella che si riunirà stamani - punta a essere sì marcata a sinistra, sì indipendente da Renzi «ma lealista », come ha spiegato Speranza. Bersani farà un richiamo all’unione, pur mantenendo le sue perplessità su Jobs act e insistendo per una legge elettorale non di nominati: sul punto l’Italicum va cambiato. Ma il «vero problema» della sinistra dem è quello di «essere orfani di leader». È l’analisi di Laura Puppato, supporter di Civati alle primarie, senatrice ora outsider. Civati e i suoi appaiono gli “irriducibili”, quelli veramente tentati dalla scissione e verso un abbraccio con Vendola. «Basta la piazza per rendersi conto che quei lavoratori non si sentono più rappresentati»: è la riflessione di Civati che ieri era a manifestare a Milano. Il rapporto con il sindacato tiene banco nella sinistra dem. La posizione di Cuperlo, Fassina, De Maria è quella di non mollare il Pd però dare rappresentanza piena ai lavoratori che protestano in piazza, che vanno tutelati. «No a derive neocentriste del Pd, no a un partito della Nazione che dimentica di dare soprattutto risposte ai lavoratori ».
La sinistra dem sa che nelle divisioni perde, assottiglia il suo peso, confonde. Solo un nuovo leader potrebbe riunirla.

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