domenica 9 novembre 2014
La civiltà e il Bene contro i barbari sanguinari: lo schema di costruzione del nemico e dell'indignazione morale è sempre lo stesso
Isis è una creatura occidentale e questo finto "dibattito" serve prevalentemente a distogliere l'attenzione dalla realtà, lo sappiamo. Tuttavia rimane interessante, perché ci si ostina a trovare una logica morale che fonda la superiorità di chi sgozza davanti a una telecamera e di chi sempre davanti a questa telecamera bombarda con i droni [SGA].
La voce del carnefice e quella della vittima Così la messinscena umilia la tragedia
Domenica 9 Novembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Viviamo nell’«età dell’estremismo», come ha argomentato Marco Belpoliti nel saggio omonimo (Guanda, 2014). Un’età iniziata nel 1989, ma i cui prodromi si situano una decina d’anni prima, quando avvengono due fatti le cui conseguenze finiscono oggi per coincidere drammaticamente.
Il 1 febbraio 1979 l’ayatollah Khomeini torna a Teheran dall’esilio. Si tratta del momento in cui riappare sulla scena uno degli antichi motori della Storia: la religione, che presto diventa fondamentalismo. Da noi in quegli anni, invece, opera un altro fondamentalismo, quello rivoluzionario marxista. Il 10 giugno 1981 un commando delle Br rapisce Roberto Peci, ex militante e fratello di Patrizio, un brigatista «pentito». Quello di Roberto Peci è il primo «processo popolare» a essere documentato in video, a puntate, con una telecamera Vhs.
Le Br inaugurano uno stile di ripresa che avrà fortuna. L’elemento chiave è la frontalità: l’inquadratura è fissa, centrale, claustrofobica. Un processo è un rito e come tutti i riti, dalla messa al teatro, lo si guarda frontalmente. Il palcoscenico è però anonimo: l’inquadratura è sempre stretta sul volto del prigioniero, il fondale è il classico drappo rosso reso famoso dalle polaroid di Moro.
Gli unici movimenti di macchina sono zoom in asse su Peci, e rare panoramiche a destra dove è seduto il giudice/accusatore con indosso un passamontagna nero. Il volto coperto, oltre a garantire l’irriconoscibilità, suggerisce che l’uomo mascherato sia lo strumento di un volere superiore: qui è la Rivoluzione, presto sarà Dio stesso.
Peci «interpreta» la vittima in modo ambiguo. Non è un avversario, è un «traditore». Condivide con i suoi carcerieri idee e linguaggio, e in tutti i modi loro cercano di fargli dire che anche lui è d’accordo con quella messa in scena. Peci non si dispera mai, scuote solo il capo dissentendo. Quando arriva la sentenza non protesta, ma gli si vela lo sguardo di una malinconia infinita.
Le Br vogliono essere didattiche, e si fidano troppo dei loro discorsi e delle loro azioni. Quando ricorrono al pathos sono, registicamente, ridicole: ogni tanto nella colonna sonora viene montata Bandiera rossa in una versione tronfia, e per di più smiagolante. Il tutto dovrebbe istruire le masse ma il video ha l’effetto opposto: sono le immagini del volto di Peci che restano. Dopo 54 giorni di prigionia, Peci verrà ammazzato a colpi di mitraglietta. Non sarà un video a documentarne l’uccisione, ma una polaroid.
Il 20 settembre 2004, Al Jazeera riceve un video del gruppo di al-Zarqawi, vice di Bin Laden. I lunghi interrogatori delle Br si sono ridotti qui a 8 minuti e 46 secondi. Cinque sono dedicati alla lettura della sentenza di morte, il resto all’esecuzione. La ripresa è probabilmente effettuata con una Handycam Pal, ed è di scarsa qualità. La solita immagine frontale mostra cinque miliziani incappucciati in un interno indistinto. Sotto di loro, in ginocchio, con indosso la divisa arancione che ricorda Guantanamo, c’è Olin Armstrong, un ostaggio americano, con le mani legate. Finito di leggere, il capo estrae un lungo coltello, spinge a terra Armstrong e comincia a segargli prima la gola, poi tutta la testa. La macchina da presa zoomma sul dettaglio della decapitazione. Il sonoro è costituito solo dalle orribili grida del morente. Ci saranno altri video, tutti simili.
Vent’anni dopo il «processo popolare» a Peci, il rito si è ridotto all’essenziale. Allah non ha bisogno di contraddittorio, la vittima deve solo essere sacrificata. Ad Armstrong e a quelli che seguiranno è negato anche lo sguardo: muore bendato. Quello che le Br evocavano solo con un fermo immagine, è bestialmente mostrato in tutti i suoi dettagli. Qui non c’è più messaggio politico, se non la pura mistica della sottomissione degli sconfitti, celebrata dall’ultima macabra immagine (uno stilema di successo, purtroppo): la testa decapitata messa in bella mostra sul cadavere.
I recenti video dell’Isis soltanto apparentemente assomigliano a quelli di Al Qaeda. Sono filmati dell’era digitale matura, video dell’estetica iconica globalizzata. Tecnicamente, sono impeccabili: le riprese sono in alta definizione, la vittima e il boia portano un microfono a spilla. I cupi interni sono sostituiti dalla luce del deserto. La frontalità è mantenuta nella sua forza retorica, ma è alternata con piani diagonali, filmati con un obiettivo più largo. Soprattutto, propongono un’idea totalmente diversa di storytelling . La vittima non è una semplice comparsa muta, un corpo da annientare. Alla vittima è ridata parola: ma quale? Quella dei suoi aguzzini.
La cosa più sorprendente (e, per me, la più inquietante) è la convinzione con cui gli uomini inginocchiati recitano la loro parte prima di essere uccisi. Hanno certamente un «gobbo» davanti a loro: leggono quello che sono costretti a leggere. Ma lo fanno con la tempistica di un attore professionista. Il che rende ancora più straziante la loro condizione, perché sono privati anche della paura. Poi tocca al boia parlare, il famigerato «Jihadi John». Chissà se è davvero un ex-rapper londinese, di sicuro agita il coltello come i rapper usano il microfono. La durata del suo discorso è standard, quanto l’intervento della vittima: due minuti circa ciascuno. Più che alla ritualità delle esecuzioni capitali (dove la durata della cerimonia è parte essenziale della condanna), i «registi» dell’Isis badano al ritmo cinematografico, di cui fanno anche parte la serialità delle uccisioni, l’uso della musica e degli effetti.
Però manca il climax. Quando il coltello raggiunge la gola del condannato, il video va in dissolvenza, per mostrare poco dopo la testa mozzata. Il che ha fatto sospettare che i video siano in qualche modo falsi. Io credo invece che l’intenzione dell’Isis sia quella di mostrare il completo asservimento del condannato. Quello che probabilmente succede nella realtà è che occorre più di una persona per compiere l’orrendo atto: anche gli agnelli si ribellano quando sentono la lama del coltello (guardando bene, è quello che è celato anche in due tagli quasi «invisibili» nel video di al-Zarqawi). E questo, nella logica così «pulita» di questa auto-narrazione dei killer, è un boomerang. Mostra una sopraffazione, non la sconfitta del nemico. Non è un caso che, mentre non si peritano di mostrare uccisioni in massa di civili siriani, quelli dell’Isis centellinino le morti occidentali per tutto quello che valgono in termini di comunicazione.
Da documentarista, mi è capitato di riprendere scene di violenza vera, di sangue versato. Mi sono chiesto se, in quelle occasioni, chi filma non dovrebbe intervenire, piuttosto che riprendere. Mi sono risposto che il ruolo del cineasta è ambiguo e discutibile, ma implica comunque un’assunzione di responsabilità. C’ero, ho testimoniato — come fanno i reporter di guerra.
Quello che rende immorali questi filmati non è solo il loro contenuto: è che la mano che tiene la cinepresa è la stessa che impugna il coltello o la mitraglietta. Non si può essere allo stesso tempo testimoni, giudici e boia.
L’ostensione dei volti Così gli integralisti si sono impadroniti delle nostre coscienze
Domenica 9 Novembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Il 26 ottobre compare in rete un nuovo video-messaggio dell’Isis, questa volta si tratta di John Cantlie, il giornalista inglese catturato due anni fa e tuttora ostaggio dei terroristi. La solita tuta arancione, lo sguardo dritto in camera, deviato di pochissimo per leggere il gobbo, la voce che cerca di farsi promotrice autentica di tutto ciò a cui la mente non crede, l’incongruo testimonial di un movimento politico pronto a tagliargli la gola. Nella magistrale strategia di comunicazione dell’Isis questa è l’arma più efficace. Non il filmato di propaganda su un aereo abbattuto, non la carrellata dei bambini feriti all’ospedale, soprattutto non la ripresa dei bombardamenti subiti, dei cumuli di cadaveri tra le macerie. No, l’Isis ha trovato un modo infinitamente più incisivo per scuotere le nostre coscienze, metterci di fronte a un volto, il che è quanto meno suggestivo, considerato che stiamo parlando dei più fanatici sostenitori di una religione iconoclasta. Mentre guardo John Cantlie, so di avere a che fare con un individuo, una persona identica a me la cui vicenda umana è una storia unica e inconfondibile, come quella di ognuno di noi preso singolarmente.
In una strage vedrei corpi ammassati e, magari, tra essi il suo. Nel video invece vedo proprio lui, l’uomo che alla nascita si è trovato quel volto e quel nome. Si tratta dello stesso trucco usato, ovviamente con finalità opposte, da Goffredo Parise nei racconti dal Vietnam, quando, seguendo i marines in rastrellamento, si soffermava sui dettagli delle loro vittime: «Sollevo un casco. Vedo scritto con la matita copiativa e una calligrafia svolazzante: Nguien Van Khan, 9-12-1966. (…) Come certi scolari di campagna, ha disegnato sul polso con l’inchiostro un orologio con le ore, le lancette e il cinturino». John Cantlie e Nguien Van Khan raggiungono il bersaglio. I loro nomi, i loro volti sfondano la nostra indifferenza. L’esatto contrario di ciò che succede quando vediamo cadere corpi anonimi o siamo noi stessi a colpire serenamente nel mucchio.
È il caso di Esecuzione a distanza , il reportage in cui William Langewiesche racconta la giornata impiegatizia di alcuni piloti che, comodamente seduti davanti a un computer in un hangar di Las Vegas, guidano i droni sulle montagne afghane, sganciano bombe per tutto il giorno, poi salgono in macchina e affrontano il traffico verso casa. Lì la distanza dal volto è massima e paradossale: ci sono corpi che cadono in uno schermo, coaguli di pixel dalle sembianze umane come in qualsiasi videogioco di combattimento.
Se il volto è il segno delle facoltà superiori — la nostra identità —, il corpo appartiene invece al flusso indistinto della vita naturale. Bìos contro zoé , cittadinanza contro nuda vita. Sì, nuda vita: è questa l’espressione che usa Giorgio Agamben per descrivere l’ homo sacer nel saggio omonimo. Nella Roma antica l’ homo sacer era colui che, macchiatosi di un atto blasfemo o di spergiuro, veniva espulso dalla collettività perdendo ogni diritto, compreso quello di cittadinanza. Una volta sottrattagli la condizione di soggetto politico, diventava nuda vita nelle mani dei suoi simili, benché spettasse solo agli dei giudicarlo: una vittima uccidibile eppure mai sacrificabile.
Nuda vita era, ad esempio, quella dei cosiddetti «musulmani», come ricorda Primo Levi in Se questo è un uomo , prigionieri che, quasi storditi dalla ferocia del lager, rinunciavano a lottare per la sopravvivenza rassegnandosi presto al loro destino di «sommersi». Nei brevi mesi che li separavano dalla morte i prigionieri musulmanner si limitavano ad attenersi alla disciplina del campo, lavoravano sopraffatti e ignorati dai loro stessi compagni. Ancora dotati di un aspetto vagamente umano, ossia di un esile corpo-macchina, smettevano di essere persone, perdevano il nome, il volto, la storia, l’origine.
Ma, se sono un essere unico, espressione di una storia unica, allora di quale finalità sono ignaro portatore? Il volto ci inchioda inevitabilmente alla domanda sul senso, come nella performance teatrale di Romeo Castellucci, Sul concetto di volto nel Figlio di Dio , dove a dominare la scena a mo’ di fondale è un ritratto ingrandito di Gesù, opera di Antonello da Messina, posto ad assistere alle pietose vicende di due attori nei panni di un vecchio padre e del figlio che lo accudisce. Gesù si offre allo sguardo dello spettatore, ai suoi interrogativi, mentre è in atto il mistero della commedia umana, un giovane uomo intento a pulire gli escrementi del padre malato. Ecce homo. «Sono qui per dirti che vivrai così e morirai così, il resto non so», sembra dirci il primo dio la cui parola si è fatta carne. Gesù è presente in effigie, un volto umano — «Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza» dice il Genesi — ma la sua divinità è assente, il senso della vita a cui assiste, la nostra vita, resta un enigma.
Di questo enigma sembrano essersi impossessati i terroristi. A differenza del Gesù arreso e precario di Castellucci, loro sanno, sono convinti di sapere. Ecco i nuovi pretendenti del senso. Ci ha provato la religione, poi la letteratura, ora tocca alla violenza, questo almeno è quanto sosteneva Don DeLillo già più di vent’anni fa nel suo Mao II (1992): «In Occidente noi diventiamo effigi famose mentre i nostri libri perdono il potere di formare e di influenzare. (…) Anni fa credevo ancora che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Adesso si sono impadroniti di quel territorio i fabbricanti di bombe e i terroristi. Ormai fanno vere e proprie incursioni nella coscienza umana. Era quanto solevano fare gli scrittori prima di essere mercificati».
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