In un libro di qualche anno fa Zygmunt Bauman ha sostenuto che la
crescita tende a creare, come una sorta di effetto collaterale, «scarti
umani». Uomini e donne, dice Bauman, che, per una ragione o per l’altra,
diventano inadatti a vivere in una società avanzata. «Vite di scarto»
che le democrazie tendono a rimuovere, concentrandole ai margini delle
proprie città. Dove si pensa non diano fastidio. Almeno alle vite
«normali». Salvo poi accorgersi che questa rimozione è un’operazione
impossibile: non fosse altro perché c’è sempre qualcuno che è costretto a
vivere vicino a questi luoghi della sofferenza contemporanea. Anche se è
sgradevole osservarlo, accade cioè qualcosa di simile a quanto succede a
proposito delle discariche dei rifiuti. Di cui tutti riconosciamo la
necessità, salvo poi volerle sempre altrove e comunque mai nelle
vicinanze della propria abitazione.
È attorno a questi luoghi dove concentriamo quelli che sono «scarti» —
un campo di rom, un centro per l’accoglienza di immigrati — che è
scoppiata anche in questi giorni la violenza. Perché?
È incredibile come le società umane sembrino non imparare mai. Le
periferie delle grandi città di tutto il mondo sono contesti
fragilissimi, che vivono di equilibri molto precari e instabili. Al loro
interno, spesso sono solo le inesauribili risorse di socialità e di
umanità presenti nella stragrande maggioranza degli esseri umani a
tenere le maglie di un tessuto sociale che manca persino degli elementi
più basilari. Ma provate a cambiare, senza nessuna azione di
accompagnamento, gli equilibri etnici di questi quartieri (ad esempio
attraverso una massiccia immigrazione); aggiungete qualche campo rom o
un centro per immigrati illegali, «brillantemente» collocato in un
contesto già fragile; fate seguire anni di recessione economica che —
come non è difficile immaginare — produce disoccupazione particolarmente
elevata, soprattutto tra gli abitanti di questi quartieri. Non è questa
la ricetta per il disastro?
Anche se non ce ne rendiamo conto, attorno alle grandi città ci sono
quartieri in cui si vive in una condizione di extraterritorialità. Dove i
cittadini si sentono letteralmente abbandonati da istituzioni che
sembrano non esistere (salvo la scuola che eroicamente continua a essere
un presidio in tutta italia) eccetto che per saltuari se non
estemporanei interventi repressivi.
In questi quartieri regna un profondo senso di insicurezza che alimenta
il risentimento, un misto di rabbia e desiderio di rivalsa, protratto
nel tempo, che si prova come conseguenza di un torto o frustrazione
subita, sia essa reale o immaginaria.
In queste condizioni, basta una scintilla per far scoppiare l’incendio. E
basta davvero poco per organizzare una speculazione politica. Che ha
gioco facile nello sfruttare il disagio diffuso e volgerlo contro il
capro espiatorio di turno — il migrante, il rom — che può facilmente
fare da parafulmine per tutte le fatiche di chi vive in questi
quartieri. Così che il risentimento — che non saprebbe con chi
prendersela per una vita grama privata persino della speranza — riesce
così a trovare uno sfogo. È stato questo il caso di Matteo Salvini, a
sua volta bersaglio di aggressioni. Il leader della Lega, in cerca di un
riposizionamento politico che fa del modello di Le Pen il proprio punto
di riferimento, ha il fegato di andarci in questi quartieri. E di dare
così la sensazione di essere vicino a chi non si sente ascoltato.
Nei prossimi mesi vedremo gli esiti di una tale campagna. Certo deve
preoccupare lo stato di una democrazia dove i soggetti politici
percorrono queste vie per ottenere un consenso che non riescono più a
costruire con un discorso capace di guardare al futuro. Il risentimento è
un’arma pericolosa. Maneggiarla può portare anche là dove non si voleva
finire.
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