Nell'Italia anni Settanta le parole erano proiettili. E uccidevano davvero
La retorica della rivoluzione e dell'odio di classe generò una tremenda scia di sangue. Ma oggi gli slogan, in contesti diversi, tornano ancora
Mario Cervi - il Giornale Mer, 19/11/2014
Indagine sull’origine degli anni di piombo
Dalla
frustrazione per le aspettative deluse al terrorismo Gabriele Donato
ricostruisce le cause che portarono alla violenza politicadi Silvana Mazzocchi Repubblica 30.11.14
DALLA
contestazione radicale alla lotta armata, dalle manifestazioni di
piazza dell’autunno caldo ai morti. Dopo tanti libri, saggi,
autobiografie e testimonianze sugli anni comunemente definiti di piombo,
un giovane storico, Gabriele Donato, ha scelto d’indagare sulla nascita
della violenza e del sangue, e di ricostruire le motivazioni che
spinsero tanti militanti dell’estrema sinistra ad abbandonare le lotte
alla luce del sole per imboccare la strada della clandestinità e delle
armi. Alla domanda del perché venne scelto il terrorismo per «farne
territorio di pratiche collettive», aprendo quel tragico decennio che
avrebbe cambiato per sempre il Paese, Donato tenta di dare una risposta
in La lotta è armata, Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in
Italia 1969-1-972 ( DeriveApprodi), un saggio che centra l’obiettivo e
che, forte di centinaia di testi e documenti consultati (biografie,
testimonianze, opere storiche, inchieste giornalistiche e atti
giudiziari), punta a raccontare come venne proposto, discusso e
assorbito il tema della violenza politica da tutte le componenti di
quella piccola folla che costituiva la sini- stra più estrema.
Non
c’è una tesi univoca nella ricostruzione di Donato, ma un mosaico di
ragioni possibili, di cui una centrale. In quegli anni si era fatta
spazio l’idea che presto il Paese sarebbe insorto grazie alla
radicalizzazione delle lotte e i militanti dei gruppi e gruppetti
extraparlamentari consideravano l’esito rivoluzionario quasi
un’evoluzione naturale dell’aspra conflittualità sociale che avevano
vissuto. Ma il 12 dicembre 1969 la doccia fredda della strage di Piazza
Fontana mostra il volto buio delle istituzioni. Ne seguì una repressione
diffusa e sempre più dura da contrastare fino al 1972 quando
l’uccisione del commissario Luigi Calabresi rese evidente di quanto
l’asse politico della sinistra conflittuale si fosse ormai spostato
verso l’illegalità. Fu però soprattutto la rinascita dei partiti
riformisti a contribuire al disincanto di quanti di quelle “illusioni
insurrezionaliste” si erano nutriti. E la loro egemonia ebbe la meglio
sul movimento operaio e sulle lotte sociali, tanto che la forbice tra le
aspettative rivoluzionarie e la capacità di recupero delle forze
moderate si allargò al punto da risultare incolmabile..
Fu dunque la
frustrazione per le aspettative rivoluzionarie deluse a provocare la
violenza terroristica? Lo scenario ricostruito da Gabriele Donato fa
emergere questa ipotesi. Si parte dai due gruppi di maggiore impatto
dell’epoca , Potere Operaio e Lotta Continua, con i loro dibattiti,
percorsi e prese di posizione, spesso contigue alla violenza politica;
ma è la nascita del Collettivo politico metropolitano a Milano a dare la
spinta maggiore a un dibattito interno che farà prevalere
l’organizzazione, l’illegalità e la clandestinità finalizzate alla lotta
armata. Anticamera delle Brigate rosse.
Oltre la fine dell’innocenza
Anni Settanta. In due libri, a firma di Monica Galfrè e Gabriele Donato, la lotta armata e l’uscita dal terrorismo. Come la guerra allo Stato divenne una «possibilità», dopo l’autunno caldo nelle fabbriche e non a seguito della strage di piazza Fontana
Andrea Colombo, il Manifesto 20.12.2014
Italia, 1969–1972: di armi ne parlano in molti. Minoranze, certo, ma significative e per nulla esigue. La questione tiene banco nel vasto movimento rivoluzionario che, nato nelle università del 1968, si è a sorpresa esteso l’anno successivo nelle fabbriche. È argomento centrale nella discussione e nella elaborazione dei principali gruppi della sinistra extraparlamentare.
Non si tratta di un generico dibattito sulla legittimità o meno dell’uso della violenza. Quella, almeno sulla carta, è riconosciuta da tutti: costituisce il vero e principale discrimine con la sinistra istituzionale. Si tratta invece di un ben più concreto questionare sulla necessità di un immediato ricorso alle armi. Subito, non in un indistinto futuro rivoluzionario.
Italia, 1980–1987: quelle armi, a partire dai primi ’70, qualcuno le ha impugnate davvero. Una minoranza anche questa, ancor più che nel decennio precedente, ma non trascurabile. Neppure in termini numerici: una decina di migliaia di persone armate o fiancheggianti, un’area contigua doppia o tripla, un bacino di simpatizzanti che Sabino Acquaviva stimava sulle 300mila persone. Se il movimento rivoluzionario dei primi ’70 aveva dato vita al conflitto sociale più aspro e prolungato in un paese avanzato nel dopoguerra, quello armato (che ne costituisce la coda) ha segnato nella stessa area la principale esperienza di lotta armata dopo l’Irlanda del nord, caso molto specifico e non comparabile.
I conti con una generazione
Alla fine del 1980 e poi per tutto l’anno successivo i ferimenti, le uccisioni si ripetono ancora a scadenza quotidiana, ma è già chiaro che si tratta di una fase terminale. La partita è chiusa. Si affaccia così, pur in mesi traversati da violenze d’ogni sorta da parte sia delle organizzazioni armate che dello Stato, un quesito fino a pochi mesi prima inimmaginabile: come uscire dall’emergenza. Come chiudere il conto con una intera generazione politica e con un ciclo che ha visto violare su tutti i fronti le regole fondanti dello Stato democratico. Il tema si impone sempre più via via che la sconfitta dei gruppi armati si profila come totale e irreversibile. La discussione, sentita da tutti come drammatica e determinante, segnerà l’intero decennio ’80.
All’inizio e alla fine di quella storia, oggetto ormai di una bibliografia mastodontica, sono dedicati due libri arrivati insieme nelle librerie. La lotta è armata. Sinistra rivoluzionaria e violenza politica in Italia (1969–1972), di Gabriele Donato (DeriveApprodi, pp. 380, euro 23) e La guerra è finita. L’Italia e l’uscita dal terrorismo 1980–1987, di Monica Galfré (Laterza, pp. 252, euro 22). Entrambi ottimi. entrambi utili non solo per comprendere la genesi e l’epilogo del fenomeno armato ma anche, forse soprattutto, per il quadro della storia italiana recente che restituiscono.
Donato riporta e analizza il dibattito di allora sull’uso immediato della armi lavorando sui documenti e sui testi invece che su una memorialistica giocoforza infedele. Dimostra così, tra l’altro, l’inconsistenza della tesi, spesso elaborata a posteriori, secondo cui la scelta armata sarebbe dipesa dalla strage di piazza Fontana, con annessa «fine dell’innocenza». Il lavoro di Donato dimostra invece che quella possibilità inizia, sì, a essere considerata realisticamente alla fine dell’autunno del ’69, ma molto più in conseguenza dell’esito dell’autunno caldo che non della strage del 12 dicembre.
Nella primavera di quello stesso anno, nelle grandi fabbriche e soprattutto alla Fiat, le lotte operaie autonome avevano messo fuori gioco i sindacati, tagliati fuori da un ciclo conflittuale che non avevano previsto, voluto e tanto meno gestito. Nel corso dell’autunno, contrariamente alle attese della sinistra rivoluzionaria, i sindacati avevano saputo rinnovarsi profondamente sino a recuperare e anzi aumentare il controllo sulla mobilitazione operaia. E’ questo recupero da parte del sindacato, a fronte di un livello altissimo di forza operaia nelle fabbriche, che convince i gruppi più radicali (il Collettivo politico metropolitano di Milano da cui nasceranno le Br, Potere operaio, il Gap di Feltrinelli e Lotta continua) della necessità di spostare lo scontro sul piano politico, quello della guerra contro lo Stato, grazie all’azione fortemente soggettiva dell’avanguardia armata. e dunque affidandosi alle armi, pena una sconfitta operaia di portata storica. Le bombe del 12 dicembre completano l’opera, convincendo molti, nella sinistra rivoluzionaria ma anche in quella istituzionale, della possibilità imminente di una drastica svolta autoritaria.
Secondo alcuni, come Gap e Cpm, la controffensiva si svilupperà col golpe, secondo Po, invece, imboccherà una via opposta, inglobando «i riformisti» nelle maggioranze di governo. Ma il punto di partenza, l’obbligo di portare il conflitto armato fuori dalle fabbriche è comune. Le ipotesi strategiche che si sviluppano di qui sono diverse, spesso opposte. Vanno dal partito clandestino e del tutto svincolato dalle lotte di massa delle Br a una sorta di doppio livello teorizzata da Po fino a una sorta di «internità armata» ai conflitto sociali su cui punta in alcune fasi Lc.
Fuori dall’emergenza
Donato non fa sconti ai teorizzatori del conflitto armato. Ne evidenzia i limiti, i madornali errori, le presunzioni, a volte i vaneggiamenti. Però non riduce mai quel dibattito all’immagine caricaturale e demente che viene da decenni dipinta. Quei temi erano del tutto interni alla logica del movimento comunista del secolo e si misuravano, senza riuscire a risolverlo, con un dilemma reale. La temuta sconfitta operaia, in effetti, si è poi puntualmente verificata. In forme più schiaccianti di quanto nessuno potesse allora prevedere.
Il libro di Monica Galfré, altrettanto denso anche se necessariamente meno specifico, tira invece le somme di una fase di grandissime speranze e potenzialità. Parte dalla singolarità di una situazione nella quale, all’inizio degli ’80, il massimo di repressione (con tanto di torture e violazioni gravi dei diritti costituzionali) si accompagna ai primi sprazzi di «desistenza», alla presa di coscienza di dover presto uscire dall’emergenza.
Prosegue dettagliando una discussione a tutto campo quale oggi sarebbe letteralmente inimmaginabile sulla funzione della pena, la riforma carceraria, la necessità di coniugare le necessità della sicurezza con quelle dell’umanità, l’urgenza di riportare la magistratura nei confini del proprio ruolo, ampiamente varcati nel corso dell’emergenza.
È un dibattito a cui partecipano tutti, partiti, giornali, Chiesa, magistratura, e in cui le posizioni mutano nel tempo, come nel caso del Pci, inizialmente contrario poi favorevole alla legge sulla dissociazione. Il percorso della legge in questione sino alla sofferta approvazione (in versione però molto diversa da quella originale) e in generale il percorso delle aree omogenee sono la colonna vertebrale della narrazione, ma non la esauriscono affatto. Intorno a quella legge si articolava una quantità di temi molto più ampi generali e profondi.
Non è vero che quella stagione è passata senza lasciare traccia: il rapporto con la pena detentiva è cambiato allora, la parola «risocializzazione» ha smesso di essere un balbettìo privo di senso e, sia pur per vie traverse e ipocrite. lo Stato ha cercato nel decennio seguente una via per chiudere l’emergenza ma senza doverla rinnegare o anche solo ripensare.
Ripercorrendo oggi quelle discussioni è difficile evitare un paragone sconfortante con la miseria delle riflessioni del presente. Ma forse proprio quel dibattito, se ci fosse stato il coraggio di portarlo fino sino in fondo invece di affidarsi all’eterna ipocrisia del potere italiano, rappresentò l’ultima occasione per evitare la degenerazione in cui, subito dopo, l’Italia post-emergenziale è precipitata.
L’illusione dell’assalto al cielo
La questione è molto semplice: come altre che l’hanno preceduta
e che la seguiranno, anche quella stagione di lotte e di grande
innovazione sociale e culturale è stata innervata nel suo insieme
dalla violenza politica, e non c’è gruppo comitato o singolo
militante che non si sia misurato con pratiche militari ad ogni
livello – partecipandovi, condividendole o anche solo
ammettendole, oppure prendendo da esse delle distanze sempre
relative-, da quella del servizio d’ordine a protezione di una
manifestazione a quella dell’attentato a sezioni di partito o a sedi
di multinazionali, per arrivare alle rapine per
autofinanziarsi, ai sequestri, ai ferimenti e infine, nella fase
disperata e terroristica, agli omicidi.
Violenza politica quindi, non violenza criminale. Violenza che
nasce come categoria, come oggetto di studio e analisi a partire
dalle esperienze del movimento operaio e che successivamente trae
alimento dal modo in cui le lotte si manifestano, dure e senza
mediazione, e poi si espande e moltiplica per reazione alla
repressione giudiziaria e militare dello stato e alla condanna al
«purgatorio della lotta di classe» emessa dalla politica delle
riforme. Coerentemente, Gabriele Donato non è interessato ai fatti,
che compaiono qua e là nelle pagine a puro titolo
esemplificativo, quanto alle idee, alla convulsa e tormentata
elaborazione delle teorie che accompagna la pratica delle lotte
nei quattro anni cruciali 1969, 1970, 1971 e 1972. Al termine di un
poderoso lavoro di ricerca, citazioni essenziali provenienti dalle
tante officine delle idee, ovvero articoli, documenti
e trascrizioni di interventi di quell’intenso e frenetico periodo,
vengono riportate e analizzate nel loro continuo fronteggiarsi
e incrociarsi, nel loro affannoso ricercare la linea e la strategia
spesso in competizione tra loro, mentre il movimento rallenta la
sua corsa eppure non indietreggia e mentre «si manifestano i primi
segni di frustrazione innescata dalle aspettative
rivoluzionarie suscitate dall’autunno caldo e dal movimento degli
studenti a confronto con il progressivo ridimensionamento dei
livelli di antagonismo favorito dall’imprevista capacità di
recupero delle organizzazioni riformiste».
A distanza di oltre quarant’anni quei testi che oggi Gabriele Donato
torna, implacabile e anche impietoso, a leggere e interpretare
sono irrimediabilmente datati. Per il Collettivo Politico
Metropolitano la «violenza non è un fatto soggettivo, è un’istanza
morale; essa è imposta da una situazione che è ormai
strutturalmente e sovrastrutturalmente violenta». Di lì a poco
Sinistra Proletaria e le Brigate Rosse sceglieranno la
prospettiva della guerra di lunga durata, e la clandestinità
militante come condizione per meglio condurla.
Potere Operaio è la formazione che più a fondo e più apertamente
indaga e approfondisce il tema dell’organizzazione politica per la
conquista del potere in quello che già all’epoca da qualcuno dei
militanti viene percepito come un «parossistico dibattito sul
partito»; la rottura della tregua sociale è la priorità assoluta,
così come la programmazione della violenza aperta come scelta
soggettiva contro lo stato per rompere la stagnazione, bandendo
la discontinuità e la rottura come un’arma per «non essere sconfitti
dalle riforme». Si scrive in Potere Operaio settimanale: «Il
problema che si pone non è violenza o non violenza. Ma quale
violenza: la loro o la nostra». In Lotta Continua a lungo si ritiene
che l’area rivoluzionaria non abbia bisogno di porsi obiettivi
organizzativi che non siano quelli posti dall’urgenza dello scontro
all’interno delle fabbriche; nell’estate del 1971 tuttavia anche
Lotta Continua, pur prendendo le distanze dagli «slogan
estetizzanti» (il riferimento è a Potere Operaio), progetta
livelli organizzativi stabili e permanenti che la avvicinano
a Potere Operaio a prescindere dai toni aspri con cui all’epoca
veniva esorcizzata qualsiasi analogia. Rimane ben differente
l’approccio, offensivo ed espansivo in Potere Operaio e difensivo in
Lotta Continua, dove sono la repressione, la «fascistizzazione»
dello stato e il potenziale stato d’assedio a giustificare
l’organizzazione della violenza proletaria.
Pagine estremamente interessanti e documentate sono dedicate
da Donato alla preparazione, da parte dei gruppi e in particolare
di Po, di Lc e del Manifesto, della giornata del 12 dicembre 1971
a Milano (secondo anniversario della strage di stato) e alla linea di
demarcazione con il passato che essa rappresenta, così come, per
quanto riguarda Lc, alla gestione politica dell’uccisione del
commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972, e alle fratture
con il proprio passato che questa comporta. Dopo il 1972 la
tendenza alla militarizzazione è comune alle due formazioni, al
di là delle scelte proclamate di politica generale, e lascia
intendere le evoluzioni degli anni successivi, quando i livelli
organizzativi dei gruppi si scompongono e si consolidano nel
tentativo di sfuggire alla manovra a tenaglia del sistema dei
partiti. Centinaia di militanti virtualmente confinati in
riserve o ghetti politici faranno di lì a qualche anno la scelta
estrema, esercitando una violenza sul proprio corpo per
costringersi a ferire e a uccidere.
La ricerca di Gabriele Donato si ferma qui, prima del nuovo
movimento del 1977, della sua folgorante vittoria e del suo
repentino declino, e prima dell’avvento della specializzazione
terroristica che produrrà l’illusione mediatica e giudiziaria
della guerra civile.
Oggi occuparsi della violenza politica che attraversò quella
lontana stagione (senza pregiudizi e senza volerne in alcun modo
risollevare le bandiere o cantarne le gesta) è necessario non solo
per colmare una voragine dal punto di vista storico. C’è anche una
necessità culturale o prepolitica cui por mano. In Italia la
sterilizzazione della violenza politica –associata
ossessivamente agli anni di piombo, come se questa fosse un male
assoluto anche se si tratta del sabotaggio di un compressore– ha
esorcizzato il cambiamento e ha permesso l’insediamento di un
regime a dominazione assoluta. Il confronto sociale è stato
espiantato con un’operazione in anestesia totale; e stupisce anche
questa volta dover ammettere che alcune di quelle scelte radicali ed
estreme contenevano almeno un punto di vista in anticipo sui tempi.
La lotta armata Il fascino della violenza platealedi David Bidussa Il Sole Domenica 26.4.15
Alla fine degli anni ’70, scrive Gabriele Donato nella parte finale del
suo libro, «si diffuse la drammatica illusione che le perdite inflitte
agli avversari in termini di vite umane, fossero l’unico fattore
realmente decisivo nell’equazione che avrebbe dovuto produrre il
risultato della rivoluzione».
Il confronto politico sulla lotta armata, giustamente secondo Donato, ha
altro significato se letto non nella parabola cupa dell’ultima stagione
delle Br, ma prima, negli anni dei movimenti, nei primi anni ’70,
piuttosto che alla fine di quel decennio.
La discussione che l’autore ricostruisce attentamente, testimonia,
infatti, che la scelta della lotta armata non discende, se non
marginalmente, dalla convinzione che in Italia stesse maturando un
possibile “golpe”. È conseguente, invece, alla convinzione in alcune
aree della sinistra estrema, successiva alle lotte dell’“autunno caldo”
del 1969, che occorresse «alzare la posta dello scontro» e che fosse
possibile «l’assalto al cielo».
Ciò che segna questa convinzione non è la strage di Piazza Fontana (12
dicembre 1969), ma le lotte operaie dell’estate di quello stesso anno
che in gran parte mettono fuori gioco i sindacati. Nel corso
dell’autunno i sindacati in parte recuperano il loro ruolo. Questo
recupero, a fronte di un livello altissimo di forza operaia nelle
fabbriche, è ciò che convince a spostare lo scontro sul piano politico,
quello della guerra contro lo Stato, affidandosi alle armi.
Che la lotta armata fosse una scelta politica fondata sull’idea di
vivere un momento decisivo del confronto sociale è provato anche da un
secondo fatto su cui insiste opportunamente Donato: quella discussione
avviene “in pubblico”.
I documenti che corrono in quegli anni – tra 1969 e 1972, infatti, si
trovano sui fogli dei movimenti (Lotta Continua, Potere operaio) il cui
interlocutore è soprattutto il Collettivo politico metropolitano (Cpm),
la formazione che costituisce l’anticamera delle Brigate Rosse. E sono
documenti pubblici.
Che caratteristiche ha quella discussione? Dell’ampia e dettagliata
lettura che ne dà Donato, fino alla primavera 1972 l’espressione “lotta
armata” allude a significati diversi: azione esemplare, stimolo a un
innalzamento dello scontro, raramente sostituzione rispetto alle lotte
sociali.
Il sequestro del dirigente della Sit - Siemens Idalgo Macchiarini (3
marzo 1972) cambia il quadro. Un rapimento che dura pochi minuti.
Macchiarini viene rinchiuso in un furgone e gli viene scattata una foto:
una pistola alla guancia, in primo piano un cartello con la scritta
«Mordi e fuggi! Niente resterà impunito. Colpiscine 1 per educarne 100»,
sovrastato dalla scritta “Brigate Rosse”. La lotta da quel momento è
armata.
Quel che poi segue, tuttavia, non è la crescita del conflitto sociale
così come Potere operaio, una parte di Lotta Continua e il Cpm
ritengono. Il sindacato riuscirà a reggere il confronto contrattuale
nell’autunno 1972, la campagna politica contro la Democrazia Cristiana,
volta ad accreditare il partito come una forma aggiornata di fascismo,
fallisce. La scelta che dal 1973 matura verso la lotta armata che spacca
Potere operaio trasforma il Cpm nelle Brigate Rosse, allontana da Lotta
continua una parte di quei militanti attratti verso la scelta
estremista delle armi: si forma la consapevolezza che un ciclo di lotte
si è chiuso.
Si apre una nuova stagione segnata da una violenza che comunica:
svalorizzazione del corpo del nemico; fascino per la “bella morte”;
estetica dell’atto plateale. Il fine non è creare una nuova condizione
rivoluzionaria, bensì dare testimonianza della propria irriducibilità. È
una stagione che durerà un decennio e che segna definitivamente un
prima e un dopo.
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