martedì 11 novembre 2014
La persistenza del consenso al fascismo durante la Seconda guerra mondiale nelle lettere dei soldati al fronte
Risvolto
Come hanno veramente vissuto la guerra gli italiani che fra il 1940 e il
1943 la combatterono, all'insegna della famigerata parola d'ordine
mussoliniana "Vincere e vinceremo"? I diari e la corrispondenza dei
soldati, i biglietti clandestini, le lettere censurate o sequestrate, le
relazioni delle autorità militari e di polizia, le note delle spie
fasciste che gli autori hanno ritrovato negli archivi, e su cui
costruiscono un resoconto originale, fanno emergere speranze, ideali,
miti, aspettative degli italiani rispetto alla guerra e al fascismo.
Anche se in alcuni non tardò a insinuarsi un senso di delusione,
nell'insieme ci troviamo davanti alla diffusa adesione e anzi
all'entusiasmo con cui la guerra fu accolta e combattuta da tanti
italiani, sedotti dai sogni di gloria dispensati dal fascismo. Un
consenso che solo con gli sviluppi catastrofici del conflitto si
trasformò, ma piuttosto lentamente, in distacco e avversione.
Tanti applausi per la guerra dal 1940 al 1943
Tra i militari italiani durò a lungo la fede nella vittoria
di Paolo Mieli Corriere 11.11.14
«Inutile
andare in giro raccontando che la guerra fu voluta dal solo Mussolini e
non dall’Italia», scriveva il 10 agosto del 1946 Gaetano Salvemini a
Ernesto Rossi e Leo Valiani. «Certo il popolo italiano non volle la
guerra, se si intende tutto il popolo. Ma i generali, gli ammiragli, i
grossi industriali, gli alti burocrati, i senatori, i deputati, i
professori di università, i vescovi, gli arcivescovi, i cardinali, tutto
quel lerciume accettò la guerra e parecchi altri la vollero finché
credettero che l’avrebbero vinta dato lo sfacelo militare che era già
avvenuto in Francia e che si prevedeva imminente in Inghilterra… Anche
se si parla delle classi medie e inferiori del popolo italiano, non
bisogna dimenticare che una larga parte di esse seguì Mussolini, e che
fra esse Mussolini godé di larga popolarità dopo la vittoria nella
guerra di Etiopia ed al tempo dello squartamento cecoslovacco; e se le
cose gli fossero andate bene nella guerra mondiale, Mussolini sarebbe
per molta gente un grand’uomo». «Questa è la verità», concludeva
Salvemini; «bisogna dunque smetterla con questa balla che l’Italia non è
responsabile».
A 68 anni da quella lettera, Mario Avagliano e Marco
Palmieri hanno compiuto un’accurata analisi sulla corrispondenza
epistolare e sui diari dei nostri soldati ai tempi del secondo grande
conflitto e ne è venuto fuori un libro, Vincere e vinceremo! Gli
italiani al fronte, 1940-1943 (di imminente pubblicazione per i tipi del
Mulino), dal quale emerge un quadro ancor più inquietante di quello
prospettato nel 1946 da Salvemini. Nel senso che, tenuto conto anche
delle lettere di dissenso e perciò censurate o parzialmente
autocensurate, «la partecipazione attiva e perfino entusiastica alle
politiche fasciste, comprese quelle militari e guerrafondaie» fu
pressoché totale. Anche quando le cose per l’Italia si misero male.
Persino, in non pochi casi, dopo la destituzione del Duce a fine luglio
1943. Notevole, scrivono Avagliano e Palmieri, «è la persistenza del
mito personale di Mussolini che dura decisamente più a lungo rispetto
alla reputazione del regime fascista e delle sue gerarchie, già
compromesse da tempo».
E perché queste cose vengono approfondite e
documentate solo ora? Qui da noi una «guerra della memoria», quella che
per Avagliano e Palmieri è una «guerra civile del ricordo, delle
celebrazioni e degli studi», ha fatto sì che «l’attenzione riservata
alla guerra di liberazione mettesse spesso in ombra la precedente
partecipazione alle guerre fasciste, con le quali si è omesso di fare i
conti, preferendo soprassedere come se non facessero parte della storia
nazionale». Del resto «la stessa definizione di guerre fasciste, a cui
spesso si fa ricorso, già di per sé suona come una presa di distanza e
un’autoassoluzione che non tiene conto del fatto che esse in realtà
furono combattute e pagate da tutti gli italiani». Con un alto grado di
consapevolezza.
Avagliano e Palmieri sfatano il mito «di un’Italia
fin dall’inizio contraria alla guerra e che già alla fine del 1940
prende le distanze dal fascismo». Dimostrano come, quantomeno tra i
soldati, «il consenso alla decisione del regime di entrare in guerra fu
quasi plebiscitario e il momento di rottura (rispetto alla
partecipazione ideologica e all’adesione entusiastica alle parole
d’ordine del regime) fu invece assai tardivo». Viene alla luce un «forte
ritardo con il quale gli italiani in divisa approdarono alla scelta del
distacco da Mussolini e del ripudio della guerra». «Forte ritardo» che,
secondo Avagliano e Palmieri, peserà anche sul rovesciamento del regime
fascista, partorito in ambito militare (con il concorso della Corona e
dei gerarchi fascisti dissidenti), ma «condotto in modo continuista e
passatista, senza un chiaro segno antifascista e senza un’intelligente
strategia d’uscita dal conflitto». Con «riflessi evidenti non solo sulle
vicende del tragico biennio successivo (estate 1943-25 aprile 1945), ma
anche sulla futura storia dell’Italia repubblicana».
Fa davvero
impressione leggere le missive degli italiani partiti per la guerra nel
giugno del 1940. Trasudano la certezza di una vittoria a portata di
mano, un odio per gli inglesi e un’assenza di dubbi che lasciano
esterrefatti. «Per gli inglesi», scrive un alpino nel settembre del
1940, «è finita la cuccagna, ora anche noi dobbiamo fare un po’ di bella
vita, che anche noi abbiamo il diritto di star bene. Lo vogliamo vedere
come debbono stare dopo la guerra questi sfruttatori inglesi. Noi
potremo fare quello che vogliamo e far venire in Africa anche le nostre
famiglie». Qualcuno come Lamberto Prete, dal fronte francese, ha già
dato per finito il conflitto. «La sera», scrive il 30 giugno, «è un
incanto con questi tramonti d’oro, con le cime baciate dagli ultimi
raggi di sole, con le valli invase dalla penombra, con le strade
affollate di gente contenta. La guerra è finita con una facile vittoria e
tutti cantano le canzonette del momento». E, invece, altro che
canzonette. In quell’estate del 1940 l’Inghilterra resiste, non crolla. E
la guerra a questo punto deve andare avanti. Per quel che ci riguarda,
in Grecia e nell’Africa settentrionale. In entrambi i casi l’esercito
italiano farà un buco nell’acqua e dovranno intervenire i tedeschi a
soccorrerlo.
I nostri connazionali in divisa fanno finta di non
capire. Il barbiere genovese Fulvio Valentinelli («che fa ai greci barba
e capelli» scrive in una lettera del 14 gennaio 1941) si autoinveste
del titolo di «Terrore delle Acropoli» e si dice sicuro che verrà presto
«il momento propizio di dare la suonata definitiva ai greci» (14
febbraio). In Africa un marinaio sentenzia: «Ormai abbiamo visto che la
guerra non è per gli inglesi!». Se ne parla come dei «maledetti figli di
Albione», «vigliacchi e farabutti». L’artigliere Gino Lanfranchi bolla i
britannici come «audaci fresconi che l’illusione ha voluto per un po’
vittoriosi». E, dopo i primi colpi subiti, un aviere sostiene con
sicurezza: «Le passeggere iniziative angloamericane ci lasciano più che
scettici increduli … Non sono alcune sporadiche vittorie di Pirro che
possono demoralizzarci».
L’anglofobia, notano i due autori, «non è
un sentimento concentrato nella fase iniziale della guerra, sull’onda
dell’entusiasmo e delle ambizioni di una rapida vittoria, proprio ai
danni degli inglesi ritenuti deboli e militarmente inferiori… lascia
scorie diffuse anche dopo le sconfitte e dopo tanti mesi passati al
fronte».
Il consenso alla guerra, sottolineano Avagliano e Palmieri,
«è vasto e diffuso e, nonostante fin dal principio le cose non vadano
nel modo sperato e immaginato, rimane a lungo radicato nella coscienza
di molti militari, relegando le forme di disapprovazione e malcontento
ad una dimensione marginale e comunque riconducibile ai disagi materiali
della vita militare e alla delusione per le sconfitte, ma non ad una
messa in discussione del fascismo». I primi segnali di svolta li si
possono rinvenire già in un rapporto dell’Ovra del febbraio 1941: «Un
senso di ribellione serpeggia fra le masse al pensiero che il fiore
della gioventù italiana sia stato e continui a sacrificarsi per la
vanità o l’incapacità di alcuni capi e questo stato d’animo di sorda
protesta si esaspera alle notizie frequenti e concordi sulla deficienza
dell’equipaggiamento e dell’armamento dei nostri soldati, alcuni dei
quali scrivono dal fronte greco-albanese alle loro famiglie chiedendo
insistentemente indumenti di lana, mentre altri, ricoverati feriti o
congelati negli ospedali, diffondono un pauroso senso di sgomento».
Per
fortuna, però, c’è l’alleato germanico. I tedeschi in Russia vengono
accolti dai nostri con ammirazione e con gioia. «Dai loro volti
stranamente anneriti dalla polvere traspare quella particolare
espressione fatta d’orgoglio e d’allegrezza che è propria di coloro che
vengono dalla linea del fuoco», scrive Urbano Rattazzi. «Sono gli Dei
della guerra. Sono simboli». I russi, invece «sono petulanti, antipatici
e oltretutto poco cortesi», prosegue Rattazzi; «il nostro corpo di
spedizione — un magnifico fascio di energie fisiche e morali — passa
sopra le loro orde come un rullo compressore, facendo brillare dinnanzi
agli occhi stupiti del mondo intero le virtù eroiche della razza,
esaltate da vent’anni di Fascismo». Però «il cameratismo e l’ammirazione
verso gli alleati tedeschi sono tutt’altro che unanimi tra i militari
italiani», scrivono Avagliano e Palmieri, «e laddove esistono e
resistono devono confrontarsi con la dura realtà di una guerra condotta
in posizione subalterna e di un rapporto al fronte caratterizzato anche
da scontri, frizioni, gelosie, invidie».
Un motivo di fastidio è
riconducibile «alla scarsa considerazione che i tedeschi mostrano di
avere per il valore militare degli italiani» che si riflette nella
redazione dei bollettini di guerra «nei quali spesso non si fa cenno
alcuno all’operato dei nostri soldati né vengono loro riconosciuti i
giusti meriti». «Oggettivamente è giusto ammettere che i tedeschi non
parlano male degli alpini», scrive nel marzo 1942 Vito Mantia dal
Montenegro. «Bontà loro ci danno atto del nostro comportamento, salvo
però dure critiche per la nostra… sensibilità dimostrata in tante
occasioni, dopo le radicali e totali distruzioni inflitte alle
popolazioni inermi. La loro determinazione e il loro comportamento
razzista di superiorità sprezzante non li porterà lontano».
L’Africa,
rispetto alla Grecia, «pone nell’animo degli italiani maggiori
questioni di amor proprio», scrivono Avagliano e Palmieri, «e lo scotto
per aver dovuto accettare il compromesso di un intervento tedesco è
maggiore». Ne è prova quel che si legge in una relazione del Comando
generale dei carabinieri del maggio 1941: «Negli ambienti militari la
soddisfazione per i nostri successi viene sensibilmente temperata dalla
considerazione che molto si deve all’apporto dato dalla potente azione
delle forze tedesche». Anche se in più di un caso i militari italiani
non danno voce a questo genere di risentimento. Anzi. «Quelli che ci
comprendono sono i tedeschi», scrive dalla Libia il caporalmaggiore
Bruno Palmisa, «essi ci stimano e sono molto gentili con noi, ci portano
da mangiare, ci incoraggiano e ci promettono che molte incresciose
questioni verranno al nodo». «I rapporti con i militari germanici»,
conferma un rapporto della censura, «sono sempre intonati alla stima
reciproca e al più perfetto cameratismo». Qualcosa cambia dopo El
Alamein: «Pensa solo ai paracadutisti della divisione Folgore», scrive
un carrista nel dicembre 1942, «di dodicimila ne sono rimasti tremila e
non cedevano ancora se i tedeschi non scappavano i primi». Un caporale
aggiunge: «Formiamo l’estremo baluardo difensivo, Rommel ha tagliato la
corda».
Poi qualcosa cambia. Scrive sul suo diario, il 23 agosto
1943 (trenta giorni dopo la caduta del fascismo e sedici prima che sia
annunciato l’armistizio), Lamberto Prete, di stanza in Grecia: «Fino a
qualche settimana fa noi vedevamo soltanto da lontano i militari
germanici ed avevamo occasione di avere contatto coi loro ufficiali
esclusivamente quando partecipando alla nostra mensa si comportavano da
veri porci… I tedeschi ci hanno ignorato fino ad oggi ma ora pretendono
che ci poniamo ai loro ordini».
Cresce l’ostilità nei confronti
della censura. E «nella sfida al censore si può leggere una prima forma
di ribellione al regime stesso». Tuttavia il malumore «non sfocia ancora
in dissenso e non assume un connotato politico antifascista…
L’atteggiamento di molti è al contrario di radicata fiducia nella buona
fede, se non del fascismo e delle sue gerarchie, certamente del Duce».
L’esaltazione
della figura di Mussolini, scrivono i due autori, «resiste anche ai
rovesci militari e si riaccende immancabilmente quando le cose vanno per
il meglio e le operazioni militari concedono qualche momentaneo
successo». E anche dopo la caduta di Mussolini (25 luglio 1943) quando
affiorano nelle lettere insulti al dittatore travolto, i sentimenti
generali non cambiano. Il generale Tamassia osserva: «Fa impressione
questo abbandono improvviso di tutti i più accesi sostenitori del
fascismo». Un ufficiale in Albania racconta così il momento della
comunicazione alla truppa delle «dimissioni» di Mussolini: «Tutti
avevano le lacrime agli occhi ed abbiamo inneggiato al Duce che è e
rimarrà il nostro capo». Un tenente colonnello scrive alla moglie: «Sono
persuaso che se il Duce si affacciasse allo stesso balcone di Palazzo
Venezia ad arringare la folla, tutta l’Italia cadrebbe ai suoi piedi».
Tutti nostalgici, in ritardo sui tempi? No, anche Nuto Revelli, reduce
dalla campagna di Russia e in procinto di diventare un esponente di
primo piano della Resistenza, ricorda, a ridosso della destituzione del
Duce, i soldati «morti per nulla, proprio come se la patria non
esistesse più». Ha poi un moto di sdegno e annota sul diario: «Vedo i
cortei, sento i discorsi, riconosco troppi fascisti di ieri, più
fascisti erano ieri, più oggi sono antifascisti e si agitano, spaccano,
urlano… Volevo scendere stanotte; forse mi sarei fatto picchiare».
Anche
per questo tipo di sentimenti in molti continuarono a sostenere il
regime, persino dopo la sua caduta. Effetti di quella che Avagliano e
Palmieri definiscono «la lunga durata del consenso» al fascismo.
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