domenica 16 novembre 2014
La Prima guerra mondiale come "guerra italo-austriaca"
Nicola Labanca, Oswald Überegger (a cura di): La guerra italo-austriaca (1915-18) pubblicato da Il Mulino
Risvolto
Agli italiani del 1915-18 la Grande Guerra fu
presentata soprattutto come una guerra contro l'Austria, intrapresa per
liberare le popolazioni di Trento e Trieste dal dispotico dominio
asburgico. Sull'altro versante, l'attacco italiano fu visto come il
tradimento di un inaffidabile alleato che per Vienna non sarebbe stato
difficile schiacciare in breve tempo. Ma quello scontro era in realtà
parte di un conflitto globale e totale destinato ad avere drammatici
costi umani, politici e culturali. A cent'anni di distanza quella
opposizione - secondo i qualificati storici italiani e austriaci che
intervengono in questo libro - può essere riconsiderata, ripercorrendo
su basi nuove i diversi aspetti dell'evento bellico: dall'azione dei
governi ai combattimenti, alla propaganda, alla memoria del conflitto.
Interventismo , la vittoria di Pirro
I fautori liberali della guerra volevano «fare gli italiani» Ma pur di battere Giolitti delegittimarono il Parlamento
Simona Colarizi La Lettura 15 11 2014
Domenica 16 Novembre, 2014 LA LETTURA © RIPRODUZIONE RISERVATA
«L’Italia s’è desta». Questo è il titolo dell’editoriale sul «Corriere della Sera» che il 22 maggio 1915 preannunciava la dichiarazione di guerra all’Austria consegnata nelle mani degli ambasciatori il giorno successivo. Le parole dell’inno di Mameli riassumevano la lunga battaglia di Luigi Albertini per l’intervento dell’Italia nel primo conflitto mondiale, che per una parte della classe dirigente liberale doveva portare alla rigenerazione morale, civile e politica dell’Italia. Quella guerra, culmine del Risorgimento, che avrebbe riunificato all’Italia le terre rimaste «irredente» e avrebbe portato a compimento l’altra missione storica lasciata in eredità dai padri risorgimentali: quel «fare gli italiani» che D’Azeglio aveva indicato come la meta finale del processo unitario iniziato nel lontano 1848.
Nessuno dei due lasciti risorgimentali era stato onorato dagli eredi dei padri fondatori, svuotati di ogni slancio ideale, devitalizzati, corrotti e privi di ogni memoria dei compiti a loro assegnati. Lo dimostrava l’imbelle schieramento neutralista giolittiano, insensibile alle ragioni di questo appuntamento storico che l’Italia non poteva disertare.
Lo sferzante giudizio del direttore del «Corriere» pur nella sua partigianeria — Albertini era da sempre un fiero oppositore di Giolitti — coglieva la crisi di identità già emersa evidente nel 1913, quando, con le prime elezioni a suffragio universale maschile, i liberali erano stati costretti ad allearsi con i cattolici contro il pericolo di una crescita irresistibile dei socialisti. Il patto Gentiloni aveva arginato la frana, ma l’alto numero dei deputati cattolici «gentiloniani» entrati in Parlamento testimoniava lo sbandamento dei liberali. Gli antigiolittiani si illudevano che le dimissioni del presidente del Consiglio nel 1914, pochi mesi prima dello scoppio del conflitto in Europa, avrebbero arrestato il declino, riunificato e rigenerato le file del liberalismo, che invece non avrebbe retto alla prova della guerra. Li accecava una visione tutta elitaria della politica che impediva alla maggioranza dei liberali di capire quanto erano cambiati i modi e gli strumenti della politica con l’avvento delle società di massa. E il governo di questa nuova società passava dai partiti di rappresentanza individuale — i liberali appunto — ai grandi partiti di integrazione.
Alla difesa, all’assistenza, ma anche all’educazione politica, sociale e civile del proletariato provvedevano i socialisti e i cattolici.
Restava invece un profondo vuoto di rappresentanza per la moltitudine dei ceti medi, piccoli e piccolissimi borghesi al primo gradino della scolarizzazione, che avevano altrettanto bisogno di trovare chi si facesse carico delle loro rivendicazioni, dei loro interessi materiali, li istruisse sui loro diritti, doveri, libertà; insomma li organizzasse, fornisse i luoghi e gli strumenti per acquistare quell’identità politica collettiva che avrebbe loro garantito forza e spazio nella vita dello Stato. La frammentazione di questi settori sociali rendeva l’aggregazione più difficile rispetto alla compattezza strutturale del proletariato; ciò nonostante un moderno partito della borghesia ispirato agli ideali del liberalismo aveva potenzialmente un ampio terreno di reclutamento, sempre che si dotasse dei mezzi necessari a svolgere questo compito.
I liberali non sarebbero stati capaci di arrivare a questa meta e nel vuoto si sarebbe incuneato il Partito nazionale fascista, che convertiva gli ideali del liberalismo in un populismo aggressivo destinato a spianargli la strada per la conquista del potere e la distruzione dello stesso Stato liberale. Proprio la guerra e lo scontro tra interventisti e neutralisti avevano dato alimento alle forze eversive che sulle divisioni del mondo liberale costruirono la dittatura. Nel conflitto aperto nell’agosto 1914 sulla partecipazione dell’Italia alla guerra esplosa in Europa, si possono individuare le origini di questo processo che proprio gli antigiolittiani mettevano in moto. Perché la loro battaglia contro la maggioranza liberale neutralista delegittimava il ruolo del Parlamento, cuore istituzionale della dottrina liberale. Quel Parlamento nell’agosto 1914 rappresentava pienamente la volontà del Paese, dove socialisti, cattolici e gran parte dei liberali condividevano la posizione prudente del governo rispetto a un conflitto tra gli interessi delle grandi potenze che solo marginalmente coinvolgevano l’Italia. Tanto più l’Austria sembrava disposta a negoziare la cessione al Regno sabaudo di una parte delle terre «irredente». Un patteggiamento che invece di stemperare, attizzava gli umori bellici della minoranza interventista, ai cui occhi il famoso «parecchio», che si sarebbe potuto ottenere da Vienna secondo Giolitti, confermava l’assenza di ogni slancio ideale, la passività codarda e l’ignavia della classe dirigente, incapace appunto di costruire la «Grande Italia».
Certo, il mito della potenza non era condiviso dall’intero schieramento a favore dell’intervento, dove fianco a fianco si ritrovavano nazionalisti, liberali, democratici, riformisti, transfughi socialisti — Mussolini — e una coorte di intellettuali affascinati dall’idea della guerra in sé — da d’Annunzio ai futuristi. Faceva però da comune denominatore il lascito risorgimentale di Trento e Trieste da «redimere»; soprattutto il collante tra componenti così diverse e addirittura opposte stava nella battaglia contro il «nemico», il Parlamento appunto, che doveva essere espugnato. Perdenti a Montecitorio, gli interventisti si preparavano a vincere sulla piazza con una campagna che faceva leva in larga misura sul ceto medio imbevuto di miti risorgimentali e alla ricerca di un’identità politica, incantato non dagli editoriali dotti degli Albertini, ma dalla retorica bellicista delle odi dannunziane.
Eppure proprio il quotidiano liberale più diffuso, il «Corriere», sceglieva d’Annunzio come «educatore politico della nazione»; a lui affidava il compito di risvegliare la memoria storica della «Grande Italia» dalle glorie della Roma imperiale all’epopea risorgimentale. Un patrimonio storico al servizio della «guerra giusta», non certo in contraddizione con la formazione culturale e spirituale dei liberali interventisti che sembravano indifferenti all’altra faccia della predicazione dannunziana, la più pericolosa e delegittimante del potere costituito.
Quelle invettive del poeta, che definiva il Parlamento una «cloaca», occupata da «un pugno di ruffiani e di frodatori», capeggiato dal «vecchio boia labbrone» (Giolitti), «ansimante leccatore di sudici piedi prussiani». Propaganda e comunicazione erano ancora all’anno zero e ben pochi si rendevano conto di quanto sovversivo fosse un linguaggio finalizzato a eccitare la ribellione popolare contro i depositari dell’ordine. L’attacco contro la classe dirigente neutralista era funzionale al vecchio sogno di rinnovare la politica italiana, sommato adesso al genuino desiderio della guerra capace di sanare questo male cronico dell’Italia. Gli interventisti liberali riuscirono a trascinare l’Italia nella guerra, ma non sopravvissero al dopoguerra. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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