Ha ancora un certo credito la leggenda secondo la quale l'incontro di Berlinguer con Moro, di Peppone con Don Camillo, avrebbe comportato il compimento della democrazia in Italia nel solco della Costituzione e un progresso politico netto, con una definitiva legittimazione dei comunisti. Per questo, si dice, fu fatto in qualche modo saltare, tirando fuori dal cilindro le BR o usando i brigatisti come utili idioti.
Sull'idiozia delle Br non ci sono dubbi, cosi come sul fatto che siano state utilizzate nel contesto di un intreccio di trame e contro-trame. Ma questo utilizzo, sebbene chiaramente rivolto a dare una torsione ancor piu regressiva a quella crisi, non ha certamente arrestato nessun processo progressivo. In realtà erano anni nei quali il ciclo storico-politico si era già invertito: la strategia dell'attenzione e la politica delle alleanze avevano perciò un significato molto diverso da quello dei primi anni della Repubblica e di Togliatti, quando le classi subalterne e il loro partito erano in una fase d'ascesa. Quando invece la direzione strategica della parabola è ormai discendente, la distanza tra il compromesso e la perdita dell'autonomia è breve. E questo è quanto è accaduto: facendosi forte delle circostanze oggettive, il ragno ha avvolto la sua preda nel bozzolo mentre nel seno del vecchio Pci maturava la tendenza alla riduzione del danno. A quel punto la catastrofe era già avvenuta e a poco sarebbe servito il colpo di coda dell'ultimo Berlinguer [SGA].
Sull'idiozia delle Br non ci sono dubbi, cosi come sul fatto che siano state utilizzate nel contesto di un intreccio di trame e contro-trame. Ma questo utilizzo, sebbene chiaramente rivolto a dare una torsione ancor piu regressiva a quella crisi, non ha certamente arrestato nessun processo progressivo. In realtà erano anni nei quali il ciclo storico-politico si era già invertito: la strategia dell'attenzione e la politica delle alleanze avevano perciò un significato molto diverso da quello dei primi anni della Repubblica e di Togliatti, quando le classi subalterne e il loro partito erano in una fase d'ascesa. Quando invece la direzione strategica della parabola è ormai discendente, la distanza tra il compromesso e la perdita dell'autonomia è breve. E questo è quanto è accaduto: facendosi forte delle circostanze oggettive, il ragno ha avvolto la sua preda nel bozzolo mentre nel seno del vecchio Pci maturava la tendenza alla riduzione del danno. A quel punto la catastrofe era già avvenuta e a poco sarebbe servito il colpo di coda dell'ultimo Berlinguer [SGA].
Risvolto
Apertura ai comunisti? Possibile ingresso del Partito comunista italiano nella maggioranza di governo? Instaurazione di una Repubblica conciliare? Sul finire degli anni Sessanta del Novecento questi interrogativi animarono e in alcuni momenti dominarono il dibattito politico nel nostro paese. Della discussione che si sviluppò intorno alla possibilità di un nuovo corso nei rapporti con i comunisti i protagonisti principali furono indubbiamente Aldo Moro e la Democrazia cristiana. Sulla base di una vasta documentazione, italiana e statunitense, il volume ricostruisce la politica di Moro e della dc verso il pci tra il 1967 e il 1969, fornendo un quadro analitico anche delle reazioni degli altri partiti, dei commenti della stampa e dell’atteggiamento degli Stati Uniti di fronte alle posizioni espresse dai democristiani e, più in generale, alla “questione comunista”.
Aldo Moro, il timido interprete di un’epoca
Alessandro Santagata, il manifesto 12.11.2014
Dopo la fine della «repubblica dei partiti», studiare la storia politica del secondo dopoguerra significa confrontarsi con una bibliografia ormai molto ricca e impone di riflettere sulle base delle nuove acquisizioni documentarie. Da entrambi i punti di vista, l’ultimo libro di Giovanni Mario Ceci (Moro e il Pci, Carocci, pp. 192, euro 20) si può considerare una ricerca felicemente riuscita. Al centro della ricostruzione, forte di una solida inchiesta su fonti internazionali, è la seconda metà degli anni Sessanta nel pieno della crisi del centro-sinistra. A lungo ci si è concentrati su questo delicato passaggio storico mettendo in luce come l’inizio della crisi dei partiti si leghi all’incapacità dei gruppi dirigenti di interpretare la trasformazione economica, sociale e culturale del periodo.
Dopo la fine della «repubblica dei partiti», studiare la storia politica del secondo dopoguerra significa confrontarsi con una bibliografia ormai molto ricca e impone di riflettere sulle base delle nuove acquisizioni documentarie. Da entrambi i punti di vista, l’ultimo libro di Giovanni Mario Ceci (Moro e il Pci, Carocci, pp. 192, euro 20) si può considerare una ricerca felicemente riuscita. Al centro della ricostruzione, forte di una solida inchiesta su fonti internazionali, è la seconda metà degli anni Sessanta nel pieno della crisi del centro-sinistra. A lungo ci si è concentrati su questo delicato passaggio storico mettendo in luce come l’inizio della crisi dei partiti si leghi all’incapacità dei gruppi dirigenti di interpretare la trasformazione economica, sociale e culturale del periodo.
Aldo Moro – spiega Ceci – non faceva parte di questa schiera. In quest’ottica si deve leggere anche la sua relazione con il Pci : accantonando la mitologia del «compromesso storico» e individuando i passaggi di un percorso tutt’altro che lineare. Ancora nel giugno 1967 Moro era presentato in un memorandum del Dipartimento di Stato statunitense come un «dichiarato anticomunista». Circa due anni dopo, Henry Kissinger comunica al presidente Nixon il pericolo di un ingresso del Pci nell’area di governo. Cosa era successo in quel breve lasso di tempo? Le risposte ovviamente sono tante e non tutte vengono investigate in questo lavoro: si pensi, per esempio, agli effetti del Concilio Vaticano II, tali da spingere Kissinger a parlare, sebbene «con prudenza», di una caduta del fronte anti-comunista sostenuto dalla Chiesa. Certamente, un ruolo decisivo lo aveva avuto la decisione di Moro di lanciare la sua «strategia dell’attenzione» verso il Pci. Di questa iniziativa il volume segue gli sviluppi fin dall’origine (il «discorso-bomba» del novembre 1968) e con lo sguardo attento agli eventi che avevano spinto in questa direzione: la crisi riformistica del centro-sinistra e lo scoppio della contestazione studentesca. La disamina della posizione assunta da Moro nei confronti del ’68 rappresenta uno dei punti di maggiore interesse.
In un contesto politico in cui i grandi partiti sarebbero stati presto travolti dall’urto delle piazze la sua figura si distingue per la capacità di «cogliere la rilevanza (e la novità) della protesta e di interrogarsi su di essa». A differenza di chi nella Dc denuncia violenza del movimento, Moro preferisce enfatizzare i nuovi valori della generazione del baby boom avvertendo la profonda insufficienza della politica democristiana in una società che sembra spostarsi a sinistra.
Sono queste le premesse di quella strana formula dell’attenzione ai comunisti che non deve essere confusa con l’apertura della «stanza dei bottoni», ma che punta ad allargare le basi popolari del consenso allo Stato e ad ottenere una collaborazione organica con l’opposizione. Centrale è per Moro anche il valore della «pregiudiziale antifascista» che impone di tenere unito il fronte delle forze democratiche contro il rischio di un’uscita a destra dalla crisi del sistema. Dopo lo scoppio della polemica attorno al «Piano Solo», i fatti del 12 dicembre 1969 confermeranno la decisione di convogliare le energie nella difesa della fragile democrazia italiana. Che poi dietro alla bomba di Piazza Fontana ci fossero anche gli sviluppi della politica dell’attenzione, Ceci lo lascia intuire quando analizza gli esiti del XII Congresso del Pci con l’emergere delle prime affinità tra Moro e Berlinguer: una convergenza di fronte alla quale – confessa l’ambasciatore statunitense Ackley – «le leve politiche nelle nostre mani non sono né lunghe né abbondanti». Di fatto, l’avvio della «strategia della tensione» comporterà l’inceppamento del confronto programmatico con il Pci: «un ripiegamento tattico» (e condiviso da entrambe le parti) «di fronte al rischio di una situazione potenzialmente incontrollabile», spiega Berlinguer in Direzione. Bisognerà attendere le elezioni del 1975 per un rilancio del dialogo, ma questa volta in un quadro politico lacerato dalla crisi economica e dal terrorismo. Il percorso verso la «terza fase», quella del coinvolgimento effettivo del Pci nel governo, risulta quindi tutt’altro che teleologico e molto più lungo e accidentato di quanto si tende a pensare, talvolta, anche tra gli storici, cercando una scorciatoia in categorie come «consociativismo» e «trasformismo».
In una ricostruzione che avrebbe meritato forse un maggiore allargamento della prospettiva alle dinamiche del periodo (la secolarizzazione, la disgregazione delle reti politiche, ecc), Ceci ci restituisce la complessità della politica Moro, interprete del proprio tempo e, nello stesso tempo, tattico e stratega. Dallo studio dell’interlocuzione con il Pci, è possibile seguire la genesi e lo sviluppo di una proposta politica che nel suo fallimento ha segnato la storia d’Italia.
Repubblica 12 11 2014
Moro, l'accusa al consulente Usa
Commissione d'inchiesta. I nuovi elementi scaturiti da un'intervista di Minoli trasmessa l'anno scorso da Radio24 Il Pg Ciampoli: «Per Piecznik gravi indizi di concorso morale in omicidio»di Ivan Cimmarusti, Marco Ludovico Il Sole 13.11.14
«Concorso morale nell'omicidio» dello statista democristiano Aldo Moro. Un'accusa che adesso pende su Steve Piecznik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa ed ex consulente del Governo italiano in materia di terrorismo dal 1978. Molto vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, legato a doppio filo con l'intelligence italiana ma non così ben visto in altri ambienti Dc, come quelli andreottiani, che l'avevano soprannominato «il piccolo Eisenhower», Piecznik sarebbe dunque coinvolto in prima persona nell'omicidio dello statista: ne è convinto il procuratore generale della Corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli.
I risultati dei suoi accertamenti, finiti in una relazione di un centinaio di pagine, sono stati illustrati ieri in una lunga audizione alla commissione parlamentare d'inchiesta. Il documento viene trasmesso all'attenzione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a cui il pg chiede di aprire un'inchiesta su Piecznik. Lo stesso documento è stato inviato anche all'ufficio del giudice per le indagini preliminari cui è stata proposta l'archiviazione della vicenda delle rivelazioni dell'ex ispettore di polizia, Enrico Rossi, secondo cui c'erano due agenti dei servizi segreti a bordo di una moto Honda in via Fani a Roma la mattina del sequestro.
Ma è il ruolo di Piecznik a essere al centro delle polemiche. «Abbiamo trovato del materiale interessante – ha detto Ciampoli – nell'analisi dell'intervista all'esperto americano, Piecznik, realizzata da Gianni Minoli anni fa» e trasmessa l'anno scorso da Radio24. L'obiettivo del consulente americano di Cossiga sarebbe stato quello di attuare una «manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia». «Abbiamo registrato una autoreferenzialità quasi schizofrenica da parte di questo soggetto – ha chiarito Ciampoli – che rivendica in maniera diretta di aver determinato l'uccisione di Aldo Moro. La strategia era quella di mettere alle strette le Br che avrebbero ucciso il Presidente quando si erano ormai piegate alla esigenza di liberarlo. Un omicidio indotto». La Procura di Roma, tuttavia, ha già avuto modo di interrogare Piecznik di recente. Nell'intervista, trasmessa il 30 settembre 2013 nel corso nel programma radiofonico Mix24 su Radio24, l'ex funzionario Usa aveva sostenuto di aver collaborato con le autorità italiane durante il sequestro Moro. Dichiarazioni che, tuttavia, non ha confermato nel corso del suo interrogatorio per rogatoria internazionale al sostituto procuratore Luca Palamara e agli investigatori dei carabinieri del Ros Lazio, al comando del colonnello Stefano Russo.
C'è dunque una divaricazione obiettiva tra i risultati delle indagini della procura e le conclusioni del procuratore generale della Corte d'appello. Se, da una parte, Ciampoli parla apertamente di un coinvolgimento nell'affaire Moro anche dell'ex servizio segreto militare, il Sismi - con il colonnello Camillo Guglielmi, ormai deceduto - nel rapimento dello statista democristiano, dall'altra parte l'inchiesta penale condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo sta svelando un intricato giro di "bufale" finite anche su noti libri d'inchiesta sulla vicenda. C'è, infatti, un'ipotesi precisa di reato in questa indagine della procura capitolina: la calunnia verso esponenti dello Stato. Perché gli accertamenti del Ros avrebbero dimostrato come sul sequestro e omicidio Moro siano state diffuse informazioni fasulle per fomentare l'ipotesi del "complotto". Uno dei soggetti coinvolti è il brigadiere in congedo della Guardia di finanza, Giovanni Ladu, autoaccusatosi di aver fatto parte dell'organizzazione para-militare Gladio. L'ipotesi dei magistrati inquirenti è che in due diverse occasioni - una delle quali sotto il falso nome di Oscar Puddu - Ladu avrebbe fornito false informazioni all'ex giudice Ferdinando Imposimato, utilizzate dall'ex magistrato per due diversi libri sul caso Moro: «Doveva morire» e il recente «I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia» che ha spinto il Parlamento a nominare la nuova commissione d'inchiesta. Resta comunque aperto un enorme interrogativo su come sono andati realmente i fatti. Come dice il Democratico Gero Grassi, uno dei deputati che ha voluto la commissione d'inchiesta, «le dichiarazioni del procuratore generale danno all'intera vicenda una patina che fino a oggi non c'era. Assumono così una rilevanza peculiare e fanno riflettere».
Moro, l'accusa al consulente Usa
Commissione d'inchiesta. I nuovi elementi scaturiti da un'intervista di Minoli trasmessa l'anno scorso da Radio24 Il Pg Ciampoli: «Per Piecznik gravi indizi di concorso morale in omicidio»di Ivan Cimmarusti, Marco Ludovico Il Sole 13.11.14
«Concorso morale nell'omicidio» dello statista democristiano Aldo Moro. Un'accusa che adesso pende su Steve Piecznik, ex funzionario del Dipartimento di Stato Usa ed ex consulente del Governo italiano in materia di terrorismo dal 1978. Molto vicino all'allora ministro dell'Interno, Francesco Cossiga, legato a doppio filo con l'intelligence italiana ma non così ben visto in altri ambienti Dc, come quelli andreottiani, che l'avevano soprannominato «il piccolo Eisenhower», Piecznik sarebbe dunque coinvolto in prima persona nell'omicidio dello statista: ne è convinto il procuratore generale della Corte d'appello di Roma, Luigi Ciampoli.
I risultati dei suoi accertamenti, finiti in una relazione di un centinaio di pagine, sono stati illustrati ieri in una lunga audizione alla commissione parlamentare d'inchiesta. Il documento viene trasmesso all'attenzione del procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a cui il pg chiede di aprire un'inchiesta su Piecznik. Lo stesso documento è stato inviato anche all'ufficio del giudice per le indagini preliminari cui è stata proposta l'archiviazione della vicenda delle rivelazioni dell'ex ispettore di polizia, Enrico Rossi, secondo cui c'erano due agenti dei servizi segreti a bordo di una moto Honda in via Fani a Roma la mattina del sequestro.
Ma è il ruolo di Piecznik a essere al centro delle polemiche. «Abbiamo trovato del materiale interessante – ha detto Ciampoli – nell'analisi dell'intervista all'esperto americano, Piecznik, realizzata da Gianni Minoli anni fa» e trasmessa l'anno scorso da Radio24. L'obiettivo del consulente americano di Cossiga sarebbe stato quello di attuare una «manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione dell'Italia». «Abbiamo registrato una autoreferenzialità quasi schizofrenica da parte di questo soggetto – ha chiarito Ciampoli – che rivendica in maniera diretta di aver determinato l'uccisione di Aldo Moro. La strategia era quella di mettere alle strette le Br che avrebbero ucciso il Presidente quando si erano ormai piegate alla esigenza di liberarlo. Un omicidio indotto». La Procura di Roma, tuttavia, ha già avuto modo di interrogare Piecznik di recente. Nell'intervista, trasmessa il 30 settembre 2013 nel corso nel programma radiofonico Mix24 su Radio24, l'ex funzionario Usa aveva sostenuto di aver collaborato con le autorità italiane durante il sequestro Moro. Dichiarazioni che, tuttavia, non ha confermato nel corso del suo interrogatorio per rogatoria internazionale al sostituto procuratore Luca Palamara e agli investigatori dei carabinieri del Ros Lazio, al comando del colonnello Stefano Russo.
C'è dunque una divaricazione obiettiva tra i risultati delle indagini della procura e le conclusioni del procuratore generale della Corte d'appello. Se, da una parte, Ciampoli parla apertamente di un coinvolgimento nell'affaire Moro anche dell'ex servizio segreto militare, il Sismi - con il colonnello Camillo Guglielmi, ormai deceduto - nel rapimento dello statista democristiano, dall'altra parte l'inchiesta penale condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo sta svelando un intricato giro di "bufale" finite anche su noti libri d'inchiesta sulla vicenda. C'è, infatti, un'ipotesi precisa di reato in questa indagine della procura capitolina: la calunnia verso esponenti dello Stato. Perché gli accertamenti del Ros avrebbero dimostrato come sul sequestro e omicidio Moro siano state diffuse informazioni fasulle per fomentare l'ipotesi del "complotto". Uno dei soggetti coinvolti è il brigadiere in congedo della Guardia di finanza, Giovanni Ladu, autoaccusatosi di aver fatto parte dell'organizzazione para-militare Gladio. L'ipotesi dei magistrati inquirenti è che in due diverse occasioni - una delle quali sotto il falso nome di Oscar Puddu - Ladu avrebbe fornito false informazioni all'ex giudice Ferdinando Imposimato, utilizzate dall'ex magistrato per due diversi libri sul caso Moro: «Doveva morire» e il recente «I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia» che ha spinto il Parlamento a nominare la nuova commissione d'inchiesta. Resta comunque aperto un enorme interrogativo su come sono andati realmente i fatti. Come dice il Democratico Gero Grassi, uno dei deputati che ha voluto la commissione d'inchiesta, «le dichiarazioni del procuratore generale danno all'intera vicenda una patina che fino a oggi non c'era. Assumono così una rilevanza peculiare e fanno riflettere».
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