Nel 1989 il Pci avrebbe dovuto ammettere che Craxi aveva ragione e
che l'ideologia comunista non aveva più nulla da dire al secolo nuovo. È
accaduto solo oggi, venticinque anni dopo
Fabrizio Rondolino 8 novembre 2014 Europa
La svolta non riguardava tanto il nome di un partito, ma il
concetto stesso di democrazia e di rapporto del partito con la società.
Per questo continuavamo a ripetere che nessuno poteva sottrarsi
all'obbligo del cambiamento
Claudio Petruccioli 8 novembre 2014 Europa
Pd, seconda cena di finanziamento a Roma Tra gli ospiti c’è anche il presidente Pallotta Il n.1 del club giallorosso all’evento organizzato dal premier per sostenere il partito: 1000 euro a coperto La Stampa 8.11.14 qui Alla cena di Renzi risotto scotto e sbadigli A Milano professionisti e imprenditori. Hanno pagato 1000 euro per sostenere il Pd di Francesco Rigatelli La Stampa 8.11.14 qui
Lo scontro sulla riforma Le nascoste imperfezioni dell’Italicum di Michele Ainis Corriere 8.11.14
qui
Una politica costituzionale
Quando ci si
rivolge agli imprenditori dicendo di averli liberati dell’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori si dice molto di più Come funziona un sistema senza una vera opposizione? Nel modo in cui sta funzionando quello italiano di Stefano Rodotà Repubblica 8.11.14L’ACCELERAZIONE
impressa alla sua azione e, soprattutto, alle sue parole dal presidente
del Consiglio- segretario del Pd richiede qualche riflessione sul modo
in cui si va configurando il sistema politico italiano e sulla cultura
che sostiene i suoi mutamenti. La più evidente riforma è quella
incarnata dallo stesso Renzi, per il modo in cui definisce il suo
rapporto con i cittadini, che assume tratti simili a quelli descritti in
un libro dedicato al capo e alla folla da Gustave Le Bon. Renzi declina
questo rapporto diretto nel linguaggio attinto dal mondo digitale e
parla di “disintermediazione”, ma la sostanza è quella. Si consegna
all’irrilevanza tutto ciò che non è immediatamente riconducibile al
consenso personale e alla sua proiezione sociale, com’è accaduto quando
al milione di persone presenti a piazza San Giovanni si è contrapposto
lo sguardo ostentatamente rivolto solo agli altri milioni di italiani
(lo aveva già fatto Craxi contrapponendo le sue modeste percentuali
parlamentari al consenso di cui diceva di godere nel Paese). Non è certo
un caso se nelle analisi di commentatori tutt’altro che ostili alla
linea del presidente del Consiglio siano cominciati ad apparire
riferimenti ad atteggiamenti definiti plebiscitari. E non dimentichiamo
che nella “democrazia plebiscitaria”, ampiamente studiata, si ritrovano
anche quei tratti autoritari visibili nel modo liquidatorio con il quale
Renzi si rivolge a critici ed avversari. È vero che stiamo vivendo
un tempo in cui le nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione hanno prodotto effetti significativi sull’organizzazione
politica e sociale (ne scrivo da una ventina d’anni). Ma la
disintermediazione non significa che l’unica via politica sia quella
della cancellazione di ogni entità che si manifesta tra i luoghi del
potere e la generalità dei cittadini. Se soggetti collettivi continuano a
manifestarsi nella società, possiamo eliminarli con una parola? E
bisogna riflettere sul fatto che, indeboliti o scomparsi alcuni degli
storici mediatori sociali, altri ne sono comparsi al loro posto, a
cominciare dagli onnipotenti motori di ricerca e dalle reti sociali. Questa
logica si insinua in modo sempre più pervasivo in ogni luogo, e in modo
particolarmente aggressivo nella materia del lavoro. Quando ci si
rivolge agli imprenditori dicendo di averli liberati dell’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori, si dice molto di più, com’è stato evidente
nelle parole pronunciate alla Leopolda. Dal rapporto tra imprenditore e
lavoratori non deve soltanto scomparire l’ingombro del sindacato, ma
l’indebita presenza del giudice. Qui la disintermediazione investe un
elemento fondativo della civiltà giuridica e restituisce una inquietante
attualità ad una vecchia espressione — «la democrazia si ferma ai
cancelli dell’impresa ». Si fa divenire l’ingiustificato licenziamento
un atto legittimo, che non può trovare compensazione nella promessa
pubblica di intervenire a sostegno dei licenziati. Vale pena di
ricordare la storia del mugnaio di Sans-Souci, che alla prepotenza
dell’imperatore Federico contrapponeva l’esistenza di giudici a Berlino.
Dobbiamo rinunciare alla garanzia dei diritti, travolta da una logica
economica che riconosce come regola solo quella che essa stessa pone? Questo
non sembra un buon viatico per la costruzione di un “partito della
nazione”. E tuttavia, poiché questo sta accadendo, diventa più urgente
tornare alla configurazione complessiva che così assume il sistema
politico. Se il Pd dimagrisce, liberandosi dalle clientele, è cosa
buona. Altro è il suo trasformarsi in una struttura che si dirama nei
più diversi centri del potere, in presenza mediatica nella quale possa
riconoscersi il maggior numero possibile di persone più che in vero
soggetto collettivo (un altro caso di disintermediazione?). Ma la vera
forza del Pd, riassunto nella persona del suo leader, sta nell’insistita
affermazione secondo la quale ad esso e al suo governo «non v’è
alternativa». Qui è la sostanza del problema: le dimissioni della
politica che è, in primo luogo, costruzione continua di alternative.
Questa non è colpa di Renzi, che persegue i suoi obiettivi e cerca di
sfruttare al massimo la condizione presente. È la registrazione dello
sfascio di una destra mai costituita come tale, fondata com’era sulla
figura di Berlusconi; di un Movimento 5Stelle che ha appena mostrato
capacità di cogliere occasioni parlamentari, e però deve mostrare di
saperla trasformare in incidenza costante sulle dinamiche politiche;
dell’impossibilità di pensare il Pd di Renzi come partito “di lotta e di
governo”. Come funziona un sistema politico senza vera opposizione?
Nel modo in cui sta funzionando quello italiano. Poiché si possono
sterilizzare con astuzie varie le opposizioni interne e esterne, ma non
cancellare il conflitto, l’opposizione si fa tutta sociale. Ecco la
ragione del nuovo protagonismo del sindacato, soggetto sociale per
definizione, che trae nuova forza dal dato materiale della
disoccupazione e delle diseguaglianze crescenti e da quello politico
dall’attacco esplicito ai diritti del lavoro. Ecco il motivo
dell’insofferenza aggressiva di Renzi che costruisce nemici per azzerare
confronto e dialogo. Arriviamo così al punto essenziale. A destra
l’opposizione è sopraffatta da una sostanziale convergenza con l’azione
di governo. E il resto, quello che possiamo ancora chiamare sinistra?
Qui dev’essere sciolto il nodo di una politica di sinistra capace di
essere in sintonia con una società certamente cambiata, ma la cui novità
non può consistere, come si cerca di fare, nel respingere sullo sfondo
dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, perché sono ancora questi i
principi che meglio colgono le difficoltà e i conflitti di oggi. Le
diverse sinistre, interne e esterne ai partiti, hanno finora inseguito
formule e costruito aggregazioni casuali. Non sono state capaci di
presentarsi con una identità definita, che può essere costruita solo
attraverso una cultura politica rinnovata. Che non è impresa
impossibile, se si riflette sul molto lavoro fatto in sedi diverse e da
soggetti diversi: una nuova visione complessiva dei diritti
fondamentali, dove quella del lavoro è inscindibile dal rispetto pieno
di una persona riconosciuta nella sua libertà, nell’accesso alla
cultura, nella garanzia della salute; le critiche dell’austerità di
molti economisti, che coglie la necessità di una politica dominata
dall’economia; la ristrutturazione degli ammortizzatori sociali nella
prospettiva di un reddito garantito; le elaborazioni su beni comuni e
servizi pubblici, che rischiano d’essere travolti dalla logica del fai
da te, ben rappresentata dagli 80 euro alle neomamme al posto di asili;
le proposte sui nuovi rapporti tra democrazia rappresentativa e
partecipativa; la solidarietà tra persone e generazioni; l’attenzione
concretamente rivolta a povertà e illegalità. Perché a sinistra non è
stata finora fatta una riflessione complessiva su ciò che essa ha
sparsamente prodotto? E vi è l’Europa. Renzi dice che questa è la
vera partita. Ma la sua presidenza dell’Unione non è stata segnata da
una vera iniziativa sul tema della riforma delle istituzioni. Oggi si
riscopre l’Europa attraverso la Carta dei diritti fondamentali, invano
invocata in questi anni (anche su questo giornale). Si ricorda il suo
articolo 30 sui licenziamenti ingiustificati, ma si deve andare oltre,
agli articoli 31 e 34, che parlano di condizioni di lavoro giuste e
eque, di garanzia dell’esistenza dignitosa, con una eloquente sintonia
con l’articolo 36 della nostra Costituzione, che vuole garantita
«l’esistenza libera e dignitosa», tutte norme che rendono ineludibile il
tema del reddito garantito. In questi anni l’Europa ha cancellato la
Carta, che pure ha lo stesso valore giuridico dei trattati, ed ha
costruito una “controcostituzione” economica che annulla tutto il resto.
L’Italia ha seguito questo cattivo esempio, abbandonando
progressivamente la parte della Costituzione dedicata a principi e
diritti. Ricostruire una rinnovata politica costituzionale non è solo il
compito di una opposizione di sinistra, ma il fondamento essenziale
d’un governo democratico.
La via stretta di Renzi tra crescita e debito di Guido Gentili Il Sole 8.11.14Non
varcare la soglia del 3% di deficit in rapporto al Pil, ma
sottolineando che quel limite è anacronistico e andrebbe rivisto.
Convincere l'Europa (a partire inevitabilmente dai «tecnocrati») che il
rinvio al 2017 del pareggio di bilancio «strutturale» (cioè corretto per
il ciclo) è fisiologico, guadagnandosi - nell'ambito delle regole date,
ma contestando i metodi di calcolo del prodotto «potenziale»- la
maggiore flessibilità possibile. Evitare l'apertura di una procedura
d'infrazione e scommettere che la tregua fin qui accordata dai mercati
tenga e che i piani espansivi di Mario Draghi alla BCE non vengano
stoppati. Tutto si può dire, meno che la sfida del Governo Renzi, un
mix di temerarietà innovativa e di sottile prudenza negoziale
impersonate, rispettivamente, dal premier stesso e dal ministro
dell'Economia Pier Carlo Padoan, non sia difficile e impegnativa. Una
sorta di «terza via» tra strappi e continuità per forza di cose sotto
continuo esame, come si conviene del resto per un grande Paese, terza
economia e seconda potenza manifatturiera alla spalle della Germania
nell'Eurozona, ma anche terzo Paese - questa volta nel mondo dietro
Stati Uniti e Giappone- per volume di debito pubblico accumulato. L'Italia
ha un disperato bisogno di crescere. Non lo fa praticamente da
vent'anni e porta sulla sua devastata economia reale, dopo la crisi
scoppiata nel 2008, i segni di una stagione di guerra. Senza crescita
non può ridurre nemmeno il suo debito, che infatti ha continuato a
lievitare nonostante gli straordinari risultati (ma anche a prezzo di
una caduta verticale della spesa per gli investimenti) ottenuti negli
anni sul fronte del disavanzo primario, al netto cioè degli interessi
pagati (95 miliardi nel solo 2013) dallo Stato per finanziare il debito. D'altra
parte, se non corregge la traiettoria del debito, l'Italia non rischia
solo a Bruxelles (che al momento plaude all'Irlanda e alla Grecia e
bolla come «creativa» e inaccettabile anche l'ipotesi avanzata da Renzi
di scorporare dal Patto di stabilità le spese per l'innovazione) ma sui
mercati. Sulla sostenibilità del debito non c'è un numero-soglia
esatto (140% in rapporto al Pil? 150%?) ma una valutazione di
credibilità del sistema-paese che si misura, appunto, sui mercati. E
l'Italia resta sotto questo profilo vulnerabile e molto sensibile
all'evoluzione, incerta, dei tassi d'interesse. Quando l'Ocse prevede
che la crescita sarà dello 0,2% nel 2015 e segnala il nostro Paese –
con un debito al 133,8% secondo la Commissione europea in ascesa anche
l'anno prossimo, in recessione e insieme, di fatto, in deflazione – alla
penultima posizione nella classifica del G20, accende un faro su una
prospettiva non tranquillizzante. La stessa lettura si ricava
dall'ultimo sondaggio-Eurobarometro della Ue tra i 18 paesi della moneta
unica: l'Italia, per la prima volta nella sua storia, con il 47% degli
italiani che ritengono l'euro una "cosa cattiva" è oggi il paese più
euroscettico. A ben vedere, anche questo un risultato della persistente
mancata crescita che peggiora il rapporto debito/Pil e, riattivandosi
pressoché in automatico la richiesta europea di un più vigoroso
consolidamento fiscale, stronca ogni possibilità di ripresa e la fiducia
in un futuro prossimo migliore. Facendo ripartire la spirale infernale:
non è possibile per il governo alzare l'orizzonte della politica
economica espansiva ma quanto fatto e messo in cantiere può non bastare,
la ripresa continuerebbe a latitare e il debito a salire. Naturalmente
sarebbe facile addossare ogni responsabilità all'Europa e all'euro,
tralasciando il particolare che l'Italia non cresce da vent'anni e che
il terzo debito pubblico del mondo non l'ha creato la moneta unica ma ce
lo siamo costruiti (e accumulato) in casa nel corso di decenni. La
"terza via" in Europa del Governo Renzi, tra strappi e continuità, è
molto stretta e vedremo quali risultati porterà, fermo restando che
quest'Europa incompiuta e prigioniera di regole auto-soffocanti
necessiterebbe di una revisione radicale. Invece, è più larga in Italia
l'unica strada percorribile, quella dell'attuazione delle riforme: qui,
dietro e davanti la Legge di stabilità su cui a fine mese si pronuncerà
Bruxelles, ci sono per il governo grandi spazi da riempire, a cominciare
dal Jobs Act, dal cantiere fiscale, dalla riduzione della spesa e dalla
creazione di un ambiente favorevole all'attività d'impresa e
all'attrazione di investimenti esteri. Il tempo è poco, sui mercati la sostenibilità dell'Italia e del suo debito si gioca su questi terreni e misurando i fatti. Tra riforma elettorale e patti in bilico sui mercati tornano i timori di voto di Isabella Bufecchi Il Sole 8.11.14«Quanto
dura questo governo? Le elezioni, sono dietro l'angolo?». Se c'è una
domanda ricorrente sull'Italia che arrovella traders, strategists e fund
managers esteri (e non solo), un interrogativo che mi viene posto
ripetutamente, in qualsiasi circostanza, con ossessività, ebbene è
proprio questo. L'incertezza sulla tenuta dei governi italiani è in
cima alle preoccupazioni internazionali. La stabilità politica di un
Paese come l'Italia, che entra ed esce dalle recessioni con il suo
enorme debito pubblico in spalla e con una crescita potenziale
asfittica, è imprescindibile dalla sua affidabilità, dallo standing
creditizio, dal rating sovrano. Come è possibile fare i compiti a casa,
se la casa (che è anche il governo) non c'è? Per chi investe in
Italia, sotto tutte le forme e strumenti, che si tratti di bond, di
equity, di infrastrutture, di M&A, la durata dell'esecutivo è un
fattore chiave ma è una variabile incontrollata, una "x" che non quadra
mai. «Sono bravo a prevedere il Pil di un Paese, mi destreggio tra tutti
gli indicatori macroeconomici, ma non posso pronosticare la caduta di
un governo o l'esito di un appuntamento elettorale: il rischio politico è
imponderabile e per questo pesa molto nelle mie scelte di
investimento», mi confessò il gestore di un grosso fondo americano dopo
la caduta del Governo Monti. Decise poi di alleggerire le sue posizioni
in BTP. Inevitabilmente oggi i mercati sono tornati a chiedersi: «Ma
quanto dura il Governo Renzi?». Lo fanno perché le headlines sul "Patto
del Nazareno che scricchiola" hanno riacceso i riflettori sulla riforma
della legge elettorale. Nelle scorse settimane l'accelerazione sulla
riforma del lavoro di Renzi era stata musica per le orecchie dei
mercati, anche se il diavolo sta nei dettagli. Poi è stata la volta
della Legge di Stabilità a tenere banco, con i soliti battibecchi tra
Roma e Bruxelles, ma un impianto nel complesso che ha convinto. La
riforma della legge elettorale era sparita dai monitor dei traders, ma
si è riproposta in queste ore con Renzi che apre a Grillo, con
Berlusconi che frena. Ai mercati, in verità, dei dettagli della riforma
elettorale importa poco o nulla: l'importante è che la riforma scongiuri
il rischio dell'hung parliament, garantisca la vittoria solida di un
partito, una maggioranza forte in parlamento che possa governare quasi
indisturbata per una legislatura. È il presupposto indispensabile per
mantenere alto il ritmo delle riforme strutturali. Non è facile per
quei traders tornare ad occuparsi in questi giorni della riforma della
legge elettorale e quindi della tenuta del Patto del Nazareno. Con
l'attuale legge elettorale l'Italia non può tornare alle urne,
tranquillizzano i commentatori politici, ma i mercati non sono
tranquilli, non la bevono fino in fondo, non credono che senza riforma
le elezioni non saranno indette. Sono abituati ai colpi di scena: e sono
terrorizzati dal pericolo che la marcia delle riforme si interrompa
all'improvviso per la chiamata alle urne, un evento che congela
qualsiasi iniziativa governativa e parlamentare di rilievo per mesi. Mi
è sempre rimasta impressa la tabellina di un rapporto sull'Italia di
Morgan Stanley di qualche tempo fa: conteneva la lista di tutti i
governi che si sono succeduti dagli inizi degli anni 70, da Giulio
Andreotti a Mario Monti, in tutto 34. Con Letta e Renzi siamo a 36.
Mentre l'Italia si diverte a ritirare in ballo la storia "dei due
forni", quella battuta di Andreotti che comprava il pane ora dai
socialisti ora dai comunisti per non rendere nessuno indispensabile e
necessario (come farebbe ora Renzi con Grillo e Berlusconi) i mercati
hanno un'unica preoccupazione: che nel forno finisca questa fragile
stabilità politica italiana e con essa i primi barlumi delle riforme.
Perché Napolitano lascerà il Quirinale alla fine dell’anno
di Stefano Folli Repubblica 8.11.14CON
gli amici che vanno a trovarlo o gli parlano al telefono Giorgio
Napolitano lascia trasparire in questi giorni un duplice sentimento. Da
un lato è soddisfatto per l’energia e la determinazione messe in mostra
dal presidente del Consiglio, Renzi. Gli sembra che il dinamismo e la
volontà di affrontare i problemi siano i fattori politici di cui il
Paese ha bisogno in questa fase drammatica. La legislatura ha bisogno di
un motore e Renzi dimostra di possedere il temperamento adatto a
incarnare lo spirito dei tempi. Dall’altro lato il presidente della
Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi
brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben
definita: la fine dell’anno, allo spirare del semestre italiano di
presidenza dell’Unione europea. Le ragioni sono legate alla fatica del
compito, sempre più estenuante per un uomo che nel prossimo mese di
giugno festeggerà i novant’anni. NAPOLITANO è stanco e ritiene di
aver diritto di esserlo. Rispetta gli impegni con puntualità, quelli
interni e quelli internazionali, ma sta diradando l’agenda, se si tratta
di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà
all’Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni Spadolini a
vent’anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti europei, di cui uno a
Torino, utili a ricordare che il destino italiano si compie in Europa e
non altrove. Infine il messaggio di Capodanno agli italiani, l’ultimo
dei nove pronunciati a partire dal 31 dicembre 2006. È un percorso di
cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c’è
anche la certezza che la decisione del presidente è presa. Nel 2015
Napolitano seguirà le vicende italiane dallo studio di Palazzo
Giustiniani che è già pronto ad accoglierlo quale presidente emerito.
Tuttavia lo stato d’animo del presidente non è quello con cui, fino a
qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva
sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme
istituzionali e della legge elettorale. Soprattutto quest’ultima, che
non richiede, come è noto, una revisione della Costituzione, gli è
sempre parsa la più adatta a chiudere un’epoca e ad aprirne un’altra:
proprio perché, nella condizione del Paese, si tratta di una legge di
sistema, destinata a garantire l’assetto generale delle istituzioni. Dunque
una legge sfrondata dagli elementi di incostituzionalità che avevano
provocato il naufragio della precedente norma a opera della Consulta. E
al tempo stesso un modello in grado di rassicurare l’opinione pubblica
circa il fatto che il confronto politico si sviluppa entro argini ben
definiti e se possibile tra forze che tendono a riconoscersi l’un
l’altra come pienamente legittimate, in grado cioè di scambiarsi i ruoli
di governo e opposizione in un quadro di stabilità. In fondo era solo
su questa base che Napolitano aveva accettato il secondo mandato. E chi
ricorda il discorso d’insediamento davanti alle Camere riunite, il 22
aprile 2013, rammenta anche il tono aspro, quasi sferzante con cui il
capo dello Stato appena rieletto aveva richiamato i parlamentari alle
loro responsabilità. Era in gioco allora come oggi la corretta
funzionalità delle istituzioni e una prospettiva politica capace di
rendere salde le radici europee della dialettica interna. Nel mosaico
immaginato da Napolitano c’era molto di più: il riassetto del sistema
bicamerale, la riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e
altro. Ma la nuova legge elettorale appariva quasi un pegno urgente da
offrire agli italiani per convincerli che la stagione dell’eterna
transizione era davvero alle spalle. Come chiunque può notare, oggi
lo scenario non è quello sperato e Napolitano non nasconde la sua
delusione. È chiaro che alla fine dell’anno non avremo la riforma del
voto, ma è altrettanto certo che il presidente della Repubblica non
aspetterà i tempi dei partiti. Non intende farsi condizionare dai
ritardi e della solita pratica del rinvio. Su tale passaggio si mostra
molto deciso con i suoi interlocutori. Quindi viene meno il nesso tra
riforme e dimissioni. E non ci sarà l’inaugurazione di Expo 2015, come
vorrebbe il premier Renzi. L’uscita dal Quirinale sarà il compimento di
una missione personale, il cui bilancio sarà dato dalla gran mole di
atti compiuti in oltre otto anni e mezzo. Ma se le forze politiche non
sono state in grado di dare forma conclusa a un nuovo capitolo della
storia repubblicana, il presidente le lascia alle loro responsabilità.
Non le asseconderà al solo scopo di coprire lacune e debolezze di un
sistema rinnovato solo in piccola parte. Ora prevalgono le ragioni di
salute, per cui ogni giorno trascorso nel palazzo costa un sacrificio
di cui non tutti sono consapevoli. Napolitano è sicuro di aver superato
in modo brillante la prova più dura sul piano psicologico, la
testimonianza davanti ai magistrati e agli avvocati del processo di
Palermo. Ma l’intera vicenda, come è noto, lo ha ferito. Ripete spesso
due punti che gli stanno a cuore. Primo, non intende trovarsi a gestire
una nuova crisi politica e di governo, non se la sente più di reggere
gli sforzi fisici e mentali già sopportati nel recente passato. A
maggior ragione — ed è il secondo aspetto sottolineato — egli non
porterebbe mai il paese a nuove elezioni anticipate. Non ci sarà più uno
scioglimento delle Camere da lui firmato. Toccherà eventualmente al
successore decidere in merito. E il presidente ritiene che in democrazia
il Parlamento deve essere pronto e capace in ogni momento di eleggere
un’altra figura al vertice istituzionale. Questo è il sentiero
prefigurato al Quirinale. I partiti hanno quindi poco tempo per
affrontare il problema ed evitare che la scelta del successore di
Napolitano, di qui a poche settimane, si trasformi in un altro episodio
di logoramento istituzionale. Tuttavia il copione non è stato ancora
scritto. Non esiste un’ipotesi reale di accordo su un nuovo nome. Ci
sono in campo tre soggetti maggiori, il Pd, Forza Italia e i Cinque
Stelle. Più altri soggetti minori suscettibili di giocare una loro
partita, come i leghisti. Se e come i fili saranno annodati, attraverso
quali intese trasparenti o sotterranee, per ora non è dato sapere. Ma
tutti sanno che il tempo stringe.
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