venerdì 14 novembre 2014
Le tensioni in Medio Oriente viste dagli Usa
Freud e i sogni del Medio Oriente
di Thomas L. Friedman Repubblica 14.11.14
ABU
DHABI, EMIRATI ARABI UNITI QUANDO si cerca di comprendere il Medio
Oriente, una delle regole più importanti di cui tener conto è la
seguente: di solito ciò che i politici qui ti dicono in privato è
trascurabile. Ciò che più conta, e che il più delle volte ne spiega il
comportamento, è quello che dicono in pubblico, con parole loro,
rivolgendosi ai loro uomini. Mentre il presidente Barack Obama spedisce
altri consulenti statunitensi in aiuto agli iracheni affinché
sconfiggano lo Stato Islamico, per noi è di importanza cruciale
ascoltare con attenzione quello che i protagonisti della scena
internazionale stanno dicendo in pubblico con parole loro l’uno
dell’altro e comprendere quali siano le loro aspirazioni.
Per
esempio, il Middle East Media Research Institute (o Memri) di recente ha
pubblicato l’estratto di un’intervista rilasciata da Mohammad Sadeq
al-Hosseini, ex consigliere del presidente iraniano Mohammad Khatami,
andata in onda su Mayadeen TV il 24 settembre, nella quale sottolinea
che l’Iran sciita, tramite i suoi surrogati, de facto ha assunto il
controllo di quattro capitali arabe: Beirut, per mezzo delle milizie
sciite Hezbollah; Damasco, per mezzo del regime sciita-alauita di Bashar
Assad; Bagdad, per mezzo del governo a guida sciita; e — mentre pochi
in Occidente vi prestavano attenzione — Sana’a, dove la setta Houthi di
derivazione sciita- yemenita-filoiraniana di recente ha fatto irruzione
nella capitale dello Yemen assumendo il totale controllo dei sunniti.
Come
ha detto Hosseini a proposito dell’Iran e dei suoi alleati «noi
nell’asse della resistenza siamo i nuovi sultani del Mediterraneo e del
Golfo Persico. A Teheran, a Damasco, nella periferia meridionale di
Beirut controllata da Hezbollah, a Bagdad e a Sana’a daremo forma alla
nuova carta geografica della regione. Noi siamo anche i sultani del Mar
Rosso». Ha aggiunto, oltre a ciò, che l’Arabia Saudita era “una tribù
sull’orlo dell’estinzione”.
Forse noi non prestiamo attenzione a
queste cose, ma gli arabi sunniti sì, specialmente ora che Stati Uniti e
Iran potrebbero mettere fine alla Guerra fredda, che dura tra loro da
35 anni, e raggiungere un accordo che permetta all’Iran di realizzare un
programma energetico nucleare “a scopi di pace”. Oltretutto, queste
notizie contribuiscono a spiegare qualche altra cosa che forse vi siete
persi: il 3 novembre alcuni militanti sunniti hanno fatto irruzione in
un paesino di sciiti sauditi, al-Dalwah, e hanno freddato a colpi d’arma
da fuoco cinque sciiti sauditi che stavano partecipando a una cerimonia
religiosa.
Beh, se non altro il presidente della Turchia Recep
Tayyip Erdogan vive al passo con i tempi. No, un momento: su quale nome
pensate che stia insistendo Erdogan per il nuovo ponte in via di
realizzazione sul Bosforo? Risposta: Ponte Yavuz Sultan Selim. Selim I
fu il sultano sunnita turco che nel 1514 riuscì una buona volta a
sconfiggere l’impero persiano sciita dei suoi tempi, quello dei
safavidi. La minoranza alevita turca, una setta collaterale sciita i cui
antenati dovettero far fronte alla collera di Selim, hanno protestato
contro il nome proposto per il ponte. Sanno che quel nome non è stato
consigliato a caso. Secondo l’Enciclopedia Britannica, Selim I fu il
sultano ottomano (1512-20) che estese l’impero fino alla Siria,
all’Arabia Saudita e all’Egitto, e “elevò gli ottomani alla leadership
del mondo musulmano”. In seguito si rivolse a oriente e se la prese con
la dinastia sciita safavida in Iran, che costituiva una “minaccia
politica e ideologica” all’egemonia dell’Islam sunnita ottomano. Selim
fu il primo leader turco a sostenere di essere sia sultano dell’Impero
ottomano sia califfo di tutti i musulma- ni. Il vicepresidente americano
Joe Biden non si è espresso male quando ha accusato la Turchia di
agevolare l’ingresso dei combattenti dello Stato Islamico in Siria.
Proprio come in ogni israeliano c’è un pizzico di “colono ebreo” che
vuole stabilirsi in Cisgiordania, così in quasi ogni sunnita c’è un
pizzico del sogno del califfato. Alcuni analisti turchi sospettano che
Erdogan non sogni di dar vita a una democrazia pluralista in Iraq e in
Siria, bensì di creare un califfato sunnita moderno, non comandato dallo
Stato Islamico, ma da lui stesso. Fino a quel momento, naturalmente,
preferisce avere ai suoi confini uno Stato Islamico che un Kurdistan
indipendente.
Così ha scritto Shadi Hamid — fellow del Brookings
Center for Middle East Policy — in un articolo pubblicato su The
Atlantic e intitolato “The Roots of the Islamic State’s Appeal”
(All’origine del fascino dello Stato Islamico): “L’Isis attinge, e
prende forza, da idee che fanno presa e hanno vasta risonanza tra le
popolazioni a maggioranza musulmana: esse possono anche non essere
d’accordo con l’interpretazione di califfato dell’Isis, ma per loro il
concetto di califfato — entità storico- politica governata dalla legge e
dalla tradizione islamica — è molto potente”.
Lo studioso esperto di
Medio Oriente Joseph Braude in effetti osserva che la maggior parte dei
sunniti arabi in Egitto, nel Levante e nella penisola arabica alla fine
del XIX secolo «erano abbastanza contrari al califfato guidato dalla
Turchia che avevano conosciuto, e che consideravano una sorta di forza
di occupazione». Furono i gruppi islamisti sunniti del XX secolo, e in
particolare la Fratellanza islamica, a riportarne il concetto in vita,
idealizzando il califfato come una risposta alla debolezza e al declino
della loro regione e a «inserirlo nel dibattito religioso mainstream».
In
sintesi, tra i nostri alleati mediorientali nella guerra allo Stato
Islamico ci sono così tanti sogni e incubi in conflitto tra loro e in
evoluzione che Freud stesso non sarebbe in grado di interpretarli
esattamente. Se vi si presta attenzione, tra quei sogni il nostro —
quello della “democrazia pluralista” — non è ai primi posti dell’elenco.
Dobbiamo
difendere le oasi di dignità civile che per altro esistono — Giordania,
Kurdistan, Libano, Abu Dhabi, Dubai, Oman — dallo Stato Islamico, nella
speranza che il loro esempio positivo riesca un giorno a espandersi.
Sono scettico, però, sull’effettiva possibilità che i nostri litigiosi
alleati, con tutti i loro sogni diversi, riescano ad accordarsi in modo
nuovo su come condividere il potere in Iraq o in Siria, anche nel caso
in cui lo Stato Islamico fosse sconfitto.
© 2-014, New York Times News Service Traduzione di Anna Bissanti
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