di Gabriella Bosco La Stampa 17.11.14
Occhi brillanti, lunghe ciglia, incarnato purpureo. Con una scollatura
di saporosa dolcezza messa in risalto da alcune rose rosse abilmente
appuntate, la giovane donna andò verso di lui fingendo di volersi
avvicinare al buffet e approfittò della calca per premergli addosso i
seni. Il turbamento che il narratore della Recherche provò fu tale da
ossessionarlo a lungo. «Volevo vivere soltanto per ritrovare quella
ragazza, per conoscere la sua vita, la sua anima ignota, per entrare a
farne parte».
Un episodio fugace, ma indelebile. Eppure non ne avremmo saputo niente
se gli studiosi non fossero andati a cercare negli appunti preliminari,
quelle lunghe note spesso frammentarie, discontinue, interrotte da
considerazioni sull’opportunità di un certo passo strutturato in un modo
invece che in un altro, per mettere a disposizione dei lettori anche il
laboratorio della Recherche, cantiere che si protrae per ben 75
Cahiers: i quaderni sui quali Marcel Proust scriveva a penna, disteso a
letto, gli avantesti del livre à venir. Un’infinità di pagine
manoscritte, miniera inesauribile di elementi preziosi. Alcune parti
erano già leggibili nell’edizione del capolavoro proustiano diretta da
Jean-Yves Tadié per la «Bibliothèque de la Pléiade» Gallimard, ora di
tutti i Cahiers è in corso l’edizione diplomatica per Brepols, affidata
alle cure di un’équipe di eminenti specialisti. E Mariolina Bertini, la
più attenta studiosa italiana di Proust, che in quel mare di pagine gode
a trovare svelamenti, concordanze, inediti indizi, si è divertita a
inseguire a sua volta, di cahier in cahier, le tracce persistenti della
giovane donna. Ne è risultato un delizioso volumetto, La ragazza con le
rose rosse, pubblicato dalla parmense Nuova Editrice Berti. Il libro
raccoglie i brani dei quaderni in cui quelle tracce appaiono, tradotti
in italiano dalla stessa curatrice.
L’immagine e l’audace avance della giovane misteriosa riaffiorano a più
riprese nei quaderni. L’ossessione del narratore al ricordo di quella
eccitante pressione s’incarna in almeno quattro momenti, varianti,
evoluzioni. Con la sua «lussuosa carne di fiore», la donna attira su una
scia profumata i passi desideranti del narratore in una sempre più
assidua smania. Di quell’insistente episodio, nulla rimane nella
versione finale della Recherche. Lascia però di sé un’impronta profonda,
di cui solo oggi possiamo cogliere a pieno le radici lontane.
Sì, perché la proterva e seducente ciclista Albertine dalle guance color
geranio, che spicca nel gruppo marino delle fanciulle in fiore
offrendosi allo sguardo del protagonista in villeggiatura sulla spiaggia
normanna di Balbec, ne è in qualche modo l’incarnazione d’arrivo.
Albertine, scrive la curatrice, «destinata a diventare, insieme al
barone di Charlus, la creatura di Proust più conosciuta e più amata.
Infantile e misteriosa, ostinata e passiva, docile e sfuggente, apriva
senza saperlo una lunga schiera di eroine novecentesche con le stesse
caratteristiche, da Lolita, come lei prigioniera e fuggitiva,
all’indolente Cecilia della Noia di Moravia». Un suggerimento critico
illuminante.
Sin dal 1971 Maurice Bardèche, continuando l’esplorazione dei
manoscritti proustiani iniziata vent’anni prima da Bernard de Fallois,
aveva cominciato a tentare la ricostruzione della «preistoria» di
Albertine e aveva notato come l’attrazione esercitata sul protagonista
dalle jeunes filles fosse tra i temi originari dell’opera. Già nei primi
abbozzi del 1909 il narratore è attratto e incuriosito a Querqueville
(come all’epoca si chiamava la futura Balbec) da quella che gli appare
come «una massa amorfa e deliziosa di bimbe, sorta di vaga
costellazione, d’indistinta via lattea». Più avanti, spiega Mariolina
Bertini, nella versione ancora lacunosa della Recherche che i proustiani
chiamano «il romanzo del 1912», sono due le figure femminili oggetto di
desiderio che s’impongono al centro dell’intreccio: da un lato la
cameriera della baronessa Picpus (nel testo definitivo il nome diventerà
Putbus) e dall’altro proprio lei, la «ragazza con le rose rosse» che
sfiora con il seno sfrontato il narratore e poi scompare dalla sua vita
come fosse stata un sogno. Entrambe svaniranno nel nulla quando prenderà
corpo il personaggio ben più consistente di Albertine, ma a loro sarà
spettato un ruolo capitale: quello d’introdurre nel mondo del narratore
la tentazione più terribile e violenta, il desiderio erotico.
Bionda, alta e insolente con gli occhi azzurri e il corpo sinuoso la
cameriera, proveniente da un passato di «contadinella viziosa» trascorso
vicino a Combray dove si abbandonava a giochi proibiti con i ragazzini
del luogo, personaggio a tutto tondo, dotato di una precisa storia
personale; immagine momentanea, folgorante e inafferrabile al contrario
la ragazza con le rose appuntate al seno. Ai poli opposti, le due,
nell’estetica proustiana. Eppure intrecciate ad alimentarsi e annullarsi
reciprocamente nella ricerca affannosa del protagonista. Tanto da
assumere via via identità diverse, nelle fasi successive dei quaderni.
Figure sfuggenti, certo, a monte delle quali, a furia di scavare, gli
specialisti hanno creduto di poter riconoscere una ragazza in carne e
ossa. Una jeune fille
cui tra il marzo e il giugno del 1908, come rivela la corrispondenza,
Proust desiderava insistentemente esser presentato. La presentazione
avvenne poi, il 22 giugno, nella cornice del salotto Impero della
principessa Murat. E l’incontro reale, era inevitabile, fu deludente. La
«ragazza più bella» che avesse mai visto, scrisse Proust all’amico
Albufera, «da vicino non mi è sembrata così bella: è un po’ irritante
quando parla, e più civetta che amabile».
Ma questa, inutile dirlo, è un’altra storia.
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