Katja Petrowskaja rievoca un mondo ebraico annientato
Pietro Citati Lunedì 17 Novembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA
Katja Petrowskaja è nata a Kiev nel 1970: dopo aver studiato Lettere all’Università di Tartu, in Estonia, si è laureata a Mosca. Dal 1999 vive a Berlino: collabora ad alcuni giornali russi e tedeschi, tra i quali la «Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung». Poi si è lasciata in parte alle spalle il mondo russo, abbracciando l’inesauribile lingua tedesca e scrivendo in tedesco il romanzo Forse Esther (Adelphi), che è uno dei libri più belli, concentrati e drammatici della recente letteratura europea. Non a torto, qualcuno ha ricordato Austerlitz , il capolavoro di W.G. Sebald, da cui in parte discendono l’invenzione e lo stile.
Ciò che è fondamentale, nel libro della Petrowskaja, è il mondo ebraico, sebbene essa dica apertamente che l’ebraismo è un mistero, e per quanto si faccia, si dica, si cammini all’indietro, resterà per sempre un mistero. Questo enigma si è perduto: nei campi di concentramento, dove il gas tedesco ha cercato di annullarne l’essenza; e nella memoria, incapace di conservarne la ricchezza. La perdita lamenta sé stessa, si deplora, si umilia, si accora. Di qui nasce la ricerca della Petrowskaja che da un lato riesce a cogliere tutti i fili del passato e a raccoglierli e a snodarli, e dall’altro fallisce e si chiude in un silenzio disperato.
La ricerca conosce alcuni punti di appoggio. In primo luogo, zia Lida, che aveva taciuto su tutto, il marito, la sua sordità crescente, i compleanni dei morti e degli uccisi, occultando radicalmente il mistero. Una sola cosa era rimasta alla luce: la famiglia di zia Lida e della Petrowskaja insegnavano la lingua ai bambini sordomuti, aprendo scuole per sordomuti in Austria-Ungheria, Francia e Polonia. Suono dopo suono, parola dopo parola, i bambini — quasi tutti orfani e vittime di pogrom — impararono a pregare; e dopo cinque anni il loro eloquio era così buono da risultare quasi indistinguibile da quello di coloro che avevano avuto nascendo il dono della lingua e dell’udito. Quando morì uno degli avi della scrittrice, l’intera Kiev sordomuta andò ai funerali: centinaia, migliaia di sordomuti dall’aspetto pacifico e tranquillo; c’era quel silenzio che regna soltanto quando a intendersi bastano gli sguardi.
Nel libro la lingua dei sordomuti ha un grande valore simbolico: è, in realtà, la sola vera lingua umana, quella dei reietti e degli esclusi, che rappresentano il culmine del mondo. La Petrowskaja intende scrivere il suo libro in questa lingua, simile per molti aspetti a Simone Weil quando scriveva i Quaderni e l’ Attesa di Dio . Ogni sillaba che pubblica deve rivelare la ferita: la ferita ancora aperta che non potrà mai guarire completamente. Tutto deve grondare di sangue, di lacrime, sebbene sia spesso l’ironia a mettere in luce e nascondere il sangue e le lacrime.
L’altra figura fondamentale di Forse Esther è la nonna, Rosa. «Sono passati molti anni da quando la mia babuška è morta, ma io continuo a ritrovare le sue forcine per i capelli, quelle forcine sovietiche di un metallo nero e flessibile, ormai scomparse dal commercio con la disgregazione dell’Impero… Trovo le forcine di Rosa in ogni città del mondo, negli alberghi e negli appartamenti alti, come se Rosa vi avesse brevemente soggiornato, prima del mio arrivo, come se lei sapesse che mi ero sperduta e mi mostrasse la via di casa in casa con le sue forcine». La nonna scriveva continuamente: non cambiava foglio, ma scriveva pagine e pagine sullo stesso foglio; una riga aggettava sulla successiva, un’altra vi si posava sopra e tutte si sovrapponevano l’una all’altra come increspature di sabbia sulla spiaggia. Intanto Rosa diventava cieca: la sua vista si ottenebrava, mentre l’udito si faceva sempre più acuto e sensibile, così da consentirle di udire suoni che non conosceva nella sua giovinezza.
Il racconto della Petrowskaja si estende e si allarga e raggiunge i tempi della madre: i tempi della persecuzione sovietica e nazista. Prima i processi del 1936-38: dove una prova inattendibile generava la successiva prova inattendibile, e quanto più inattendibili erano le singole parti della costruzione, tanto più reale risultava l’insieme del processo. Poi i massacri del 1941 a Babij Jar a fine settembre quando Kiev, la più antica città russa, dove da un millennio vivevano ebrei, diventò all’improvviso Judenfrei — ripulita dagli ebrei. Trentatremilasettecentosettantuno persone vennero uccise in un giorno solo. Poi i massacri continuarono per due anni: prigionieri di guerra, partigiani, marinai, giovani donne, altri ebrei della regione, passanti catturati per strada, zingari, sacerdoti e nazionalisti ucraini: in tutto tra cento e duecentomila persone.
Nell’estate del 1943, mentre l’Armata Rossa si avvicinava a Kiev, i trecento prigionieri del vicino campo di concentramento di Syrez furono obbligati dai tedeschi a dissotterrare giorno e notte i morti, ad ammucchiarli in cataste di duemilacinquecento cadaveri ciascuna, a darvi fuoco e poi a sbriciolare le ossa. I prigionieri vennero costretti a cancellare le tracce, prima di essere a loro volta uccisi, di modo che anche chi aveva visto venisse cancellato, e alla fine non restasse più nulla: non un nome, non una traccia, non un racconto, non una lapide, non una tomba. Per vent’anni non ci fu a Babij Jar un solo segno che ricordasse il massacro. All’assassinio subentrò il silenzio — che ora la Petrowskaja annulla, nella sua amorosa ricerca di tutti i morti e dei loro nomi.
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