"Capire" il "conflitto" - un "conflitto", si badi bene, che avviene "in Israele" - ma "senza schierarsi": già il titolo è tutto un programma [SGA].
La necessità di capire il conflitto in Israele senza schierarsi
La necessità di capire il conflitto in Israele senza schierarsi
di Marco Garzonio Corriere 15.11.14
Torno
da un viaggio di studio in Israele. Con un gruppo di psicoanalisti s’è
cercato di andare alle radici di questa terra delle tre religioni
monoteiste e di avere un’idea dei motivi del malessere attuale che
arriva negli studi di chi cura le ferite dell’anima e riscontra
connessioni tra la mancanza di pace del mondo e il malessere degli
individui di casa nostra. Dal deserto del Negev, abbiamo attraversato
Hebron, spettrale, senza più un turista; siamo passati da Betlemme
quando ragazzini del campo profughi palestinese gettavano sassi ai
soldati che rispondevano con lacrimogeni; stavamo a Gerusalemme la sera
in cui hanno sparato al rabbino ortodosso e la polizia — annunciava il
tam tam del web — nel giro di poche ore ha scovato il presunto
attentatore, lo ha ucciso, ha arrestato i parenti e abbattuto le loro
case; ci siamo svegliati la mattina del venerdì con la spianata delle
moschee aperta solo ai musulmani over 50 e i giovani alla marcia della
rabbia. La Galilea avrebbe dovuto restituirci serenità, ma a Nazaret,
proprio davanti alla Natività, scritte con passi estrapolati dal Corano
minacciavano che i cristiani non sono graditi lì.
Dalla Terra Santa
di solito porti a casa domande più che risposte. Oggi l’interrogativo è
inquietante: che sarà di questi luoghi. Hai la netta impressione che il
solco tra ebrei e arabi sia sempre più largo e profondo. Cogli che le
due parti sono tremendamente sole, isolate, come costrette a giocare in
proprio, ciascuna per sé e negli scontri tra di esse, una partita in
realtà molto più grande di loro, che causa di conflitti è sempre più la
paura che non la religione. Si sa che l’autoreferenzialità dei gruppi,
la mancanza di comunicazione, scambi, dialogo, alimenta fantasmi di
persecuzione, riduce gli spazi di dialettica interna, produce
estremismi, fanatismi, radicalità, porta all’esasperazione di
appartenenze e identificazioni collettive, fa maturare aggressività
verso l’altro, enfatizza le colpe di questo ben oltre quelle che sono le
sue responsabilità oggettivamente riscontrabili, sino ad erigerlo a
causa dei propri mali, quindi soggetto da combattere, sottomettere,
eliminare.
Di solito tocca a figure terze aiutare i contendenti a
ricercare soluzioni che compongono i conflitti. In Israele, girando,
parlando, studiando volti, sguardi, il procedere delle persone, sentendo
le risposte nei negozi, negli hotel, nei servizi pubblici cogli
sentimenti contraddittori, che vanno dall’autodifesa all’indifferenza
sino all’ostilità, come se tu fossi un intruso, non un ponte verso
l’esterno, un possibile amico. Giri a Gerusalemme per la Città Vecchia o
nei ritrovi occidentalizzati e ti sembra di capire che israeliani e
arabi non hanno amici. Ricevono aiuti e sostegni, vedi che certe
realizzazioni non potrebbero esser fatte senza avere alle spalle un
flusso di risorse dall’America, dall’Europa e chissà da quali altre
fonti. Ma è facile cogliere la logica di schieramenti, ideologie,
equilibri di forza, mantenimento dello statu quo dietro i capitali che
alimentano l’economia di Israele o che garantiscono gli stipendi ai
dipendenti dell’Autorità Palestinese.
La gente sorride poco e
malvolentieri in Israele. Sa e non dice, ma fa intendere una
consapevolezza diffusa, da una parte e dall’altra: d’essere tutti
prigionieri d’una rete le cui maglie si stringono a cappio e soffocano
più del muro che divide e favorisce forme di apartheid. Sono emblemi dei
limiti d’una situazione vicina all’intollerabilità delle due categorie:
i bambini palestinesi traumatizzati dal conflitto e dalla frustrazione
dei loro fratelli maggiori, dei genitori, delle loro autorità che non
contano; e i militari dei check point , armati sino ai denti, facciata
d’un potere teso a controllare tutto, a mostrare allo straniero modi
scostanti perché sappia chi lì comanda, in realtà volti di giovani e di
donne spaventati, vittime d’un disagio interno che fa star male molti
tra loro.
Il senso d’impotenza è contagioso e il rischio è che tu
lasci Israele con la convinzione che vi sia poco da fare, salvo sperare
che la situazione non precipiti. Ma forse qualcosa può esser fatto: non
solo per compensare le nostre ansie. Si può cambiare atteggiamento verso
questa terra bellissima e chi la abita. Smetterla di accontentarsi di
tg frettolosi, studiare, conoscere, approfondire, venir qui, prendere
coscienza delle radici antiche dei conflitti, della spiritualità e della
cultura prodotte, parlare, stare con le persone, ascoltare. A livello
storico non si può essere neutrali: avere un’opinione sulle colpe
dell’una e dell’altra parte è anche doveroso. Ma ebrei e arabi in
Israele hanno bisogno di qualcuno che non ceda alla tentazione di
schierarsi, finendo per identificarsi e rafforzare lo scontro. Hanno
bisogno di uomini e donne che li amano, non che li armano, che
condividono con loro la complessità del conflitto, li aiutano a reggerlo
internamente e a non agirlo, che gli trasmettano la solidarietà d’un
destino comune, la consapevolezza che la pace o l’infelicità loro sono
anche le nostre. Bisogna che incominciamo a dircele queste cose noi, a
farcene carico alla svelta, prima che sia tardi.
Nessun commento:
Posta un commento