E' difficile capire il nesso tra la situazione del paese e la qualità della sua classe dirigente politica, imprenditoriale ma anche intellettuale? [SGA]
Il Califfo a Roma? Non è uno scherzo
di Angelo Panebianco Corriere 17.11.14
Sembra che una gran parte, forse la parte maggioritaria, dell’Italia
pubblica soffra di un blocco cognitivo. Pare incapace di prendere atto
dei radicali, irreversibili, cambiamenti intervenuti in Europa e in
Medio Oriente, ha l’aria di non rendersi conto che violenza e crescenti
rischi di violenza si diffondono intorno a noi, sembra non capire che di
fronte alla violenza non si può altro che assumere una posizione
intransigente o anche, se la situazione lo esige, fare uso della forza.
Un tempo si credeva che la propensione italiana a pensare alla politica
internazionale in termini irenici, come a un luogo in cui tutto possa
essere risolto con il «dialogo», fosse solo una conseguenza della
Seconda guerra mondiale. Le potenze sconfitte, Germania, Giappone,
Italia — si disse — sostituirono nel dopoguerra il «commercio» alla
«spada», cominciarono a pensare alla politica internazionale molto più
in termini di affari che di deterrenza e di minacce armate. E il
«dialogo», sicuramente, aiuta gli affari più della deterrenza. Pur
facendo parte di alleanze militari quei tre Paesi furono ben lieti di
delegare ai soli Stati Uniti il compito di agitare periodicamente il
bastone.
Ma forse, nel caso italiano c’è di più. A causa della sua cultura
politica sembra che l’Italia, pur con qualche meritoria eccezione, non
riesca proprio a fare a meno di agire nell’arena internazionale
ispirandosi a una sorta di wishful thinking , un’irresistibile tendenza a
scambiare i propri sogni per realtà.
Prendiamo due delle più gravi crisi in atto. In Ucraina, con
l’annessione russa della Crimea e l’azione tuttora in corso dei militari
russi a sostegno dei secessionisti delle regioni orientali, i rapporti
fra Russia e Occidente sono irreversibilmente (e sottolineo:
irreversibilmente) cambiati. Sono cambiati perché non un piccolo Stato
(una Serbia o una Croazia) ma una grande potenza, la Russia, ha violato
la regola su cui si fonda la pace in Europa: nessun mutamento
territoriale può avvenire se non in modo consensuale. Chi dice che la
Crimea era russa, e che dunque non c’è nulla di male nel fatto che la
Russia se la sia ripresa, non coglie il punto. Tra Prima e Seconda
guerra mondiale tantissimi Stati europei (Italia compresa) hanno perduto
territori che erano appartenuti, magari anche per secoli, a quegli
Stati. La pace in Europa c’è perché chi ha perso territori non se li va a
riprendere con la forza. La Russia, una grande potenza che avrebbe
dovuto contribuire, insieme alle altre grandi potenze, a mantenere la
pace e l’ordine, ha violato quella regola.
Pensare che questo non muti irreversibilmente i rapporti in Europa è
segno di cecità politica. E difatti le relazioni fra mondo occidentale e
Russia sono sempre più conflittuali, come si è dimostrato anche in
occasione del G20 appena concluso. Ma l’Italia fa eccezione, ha scelto
di mantenere aperto in ogni modo il «dialogo» con Putin, dando
l’impressione di ignorare il cambiamento avvenuto (come hanno ben
documentato Massimo Gaggi e Marco Galluzzo sul Corriere di ieri), di
ignorare soprattutto il riposizionamento strategico della Russia per la
quale, ora, gli occidentali sono di nuovo potenziali nemici. Il ministro
degli Esteri Paolo Gentiloni, nella sua intervista al Corriere , dice
che occorre garantire sia l’autonomia ucraina che il ruolo della Russia.
Gentiloni è un politico solido e competente (e pensiamo sia un bene che
guidi la Farnesina in un momento così delicato) ma nel caso ucraino la
sua ricetta, sfortunatamente, appare un po’ astratta e fuori tempo
massimo.
Più in generale, sembra che in questa crisi la classe politica italiana
(Renzi e il suo governo, Berlusconi) sia in Europa la più restia di
tutte a prendere atto del fatto che, in politica internazionale, non
contano solo gli affari.
E veniamo al caso per noi più inquietante di tutti, quello dello Stato
islamico. Ormai continuamente il Califfo ripete che prima o poi arriverà
a conquistare Roma, e il fotomontaggio di una Roma in cui sventolano le
bandiere nere dello Stato islamico circola da mesi in Rete. Chi fa
spallucce, chi pensa che si tratti solo di una sbruffonata, ha capito
ben poco. Mai come in questo caso è lecito dire che l’ignoranza uccide.
Già, perché il Califfo non sta facendo una sbruffonata a caso: sta
citando, nientemeno, il Profeta, sta citando il detto attribuito a
Maometto secondo cui arriverà un giorno in cui Roma, il centro della
cristianità occidentale, cadrà in mani islamiche. Tanti musulmani, di
tendenze pacifiche, hanno sempre pensato a quella profezia proiettandola
in un futuro lontano e indefinito. Invece, lo Stato islamico sta
dicendo ai musulmani di tutto il mondo che il momento di prendere Roma
si avvicina e che questo verrà fatto con le armi. Diciamo che
fischiettare o fare spallucce di fronte a una dichiarazione di guerra
non sono gesti appropriati.
L’Italia pubblica è per lo più in preda al wishful thinking ma ci sono,
fortunatamente, delle eccezioni. A cominciare dal presidente della
Repubblica. Il suo discorso del 4 novembre sui pericoli che stiamo
correndo richiedeva una discussione meditata, non solo applausi di
circostanza.
E ha ragione il ministro della Difesa Roberta Pinotti quando, proprio
appellandosi alle cose dette da Napolitano, invita la classe politica a
non trattare le forze armate come se fossero un qualunque settore di
spesa pubblica improduttiva: da sottoporre a tagli anche a costo di
indebolirne le capacità operative. Le nuove minacce, dallo Stato
islamico al caos libico (minacce, peraltro, strettamente connesse)
richiedono che non si facciano scelte miopi e autolesioniste in un così
delicato settore.
C’è uno scollamento preoccupante fra la realtà e le «narrazioni»
pubbliche su di essa. Ridurre il divario fra il mondo come è e la nostra
rappresentazione del mondo è essenziale per la nostra sicurezza.
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