Dizionario enciclopedico delle migrazioni italiane nel mondo, Demim, su progetto di Tiziana Grassi Donat-Cattin
Quando gli italiani erano “rospi”
Diffidenza, disprezzo, disastri di mare: nel monumentale “Dizionario
enciclopedico” della nostra migrazione tutti i dati, i nomi e storie che
richiamano vicende d’oggi
di Giorgio Boatti La Stampa 10.11.14
Nel mondo attuale nessuno sta fermo per sempre e l’Italia non fa certo
eccezione: siamo un po’ tutti «migranti» dopo essere stati «emigranti» o
«immigrati» e, dunque, non a caso proprio su questo fenomeno fa
efficacemente rotta il Dizionario enciclopedico delle migrazioni
italiane nel mondo (Demim) realizzato su progetto di Tiziana Grassi
Donat-Cattin e voluto dalla Fondazione Migrantes della Conferenza
episcopale italiana.
Inoltrarsi nelle 1500 pagine di quest’opera porta ogni lettore quanto
mai lontano, anche dalle sicurezze che crede di avere. Il repertorio dei
termini spregiativi attribuiti agli italiani nei diversi Paesi dove
emigravano fa comprendere come lo stare a casa d’altri fosse una sfida
difficile. In Germania eravamo gli «Ithaker» (da Itaca, ovvero eterni
vagabondi), in Francia i «babis» (rospi), in America Latina ci
chiamavano «burros» (asini) o «polpettos». E se qualcuno pensa che la
«migrazione» non abbia mai toccato da vicino la sua famiglia, faccia una
verifica. Consulti una delle banche dati sugli sbarchi di italiani a
New York o a Buenos Aires, approdi tra i più significativi dell’esodo
che tra Ottocento e Novecento porta lontano dalla patria decine di
milioni di nostri connazionali.
Ad esempio andando al sito del Cemla, Centro de Estudios Migratorios
Latino-Americanos, www.cemla.com, ho finalmente saputo chi e quanti
Boatti sono sbarcati a Buenos Aires tra il 1800 e il 1960. Di ognuno,
oltre all’età e al mestiere, sono riportati anche nome della nave su cui
ha viaggiato, data e porto di partenza, giorno dell’arrivo. Non c’è
migrante che sia sfuggito ai registri del porto argentino. Se si cerca
il cognome Bergoglio la banca dati vi ragguaglia all’istante sull’arrivo
di Mario Bergoglio, 21 anni, il padre di papa Francesco, giunto dal
Piemonte a Buenos Aires il 15 febbraio 1929 assieme a Giovanni
Bergoglio, 45 anni, il nonno dell’attuale pontefice.
A lungo le condizioni della traversata atlantica per i passeggeri di
terza classe erano state simili a trasporti di mandrie umane. Dai primi
decenni del Novecento le cose, però, erano cambiate. A colazione in
terza classe si distribuiva caffè, zucchero, pane a volontà (a volte con
acciughe). Per pranzo in tavola arrivava una minestra (magra o grassa),
un piatto di lesso, pane e un quarto di vino. A cena - servita alle 6
pomeridiane - si offriva ancora minestra, carne e legumi.
Il Demim si sofferma ampiamente sulle vie del mare e, di conseguenza,
anche sui tragici naufragi che - proprio come le cronache mediterranee
di questi nostri mesi - punteggiavano le rotte degli emigranti. Vi sono
disastri come quello del vapore Sirio, affondato con 1500 migranti a
bordo, il Mafalda, colato a picco per un’avaria, il Matteo Bruzzo, che
butta a mare centinaia di cadaveri per un’epidemia a bordo.
Ma le strade dell’emigrazione procedevano anche via terra, lungo i
binari delle ferrovie. Chi nel dopoguerra dall’Italia puntava verso la
Germania approdava quasi sempre al binario 11 della stazione di Monaco
di Baviera: un universo che senza la voce del Dizionario rischierebbe di
scomparire assieme al ricordo del periodo, non così lontano, in cui gli
emigranti eravamo noi, non gli altri. Anni in cui l’Italia appena
uscita dalle devastazioni belliche firmava col Belgio l’accordo
«uomo-carbone»: per ogni connazionale mandato nelle miniere belghe
Bruxelles avrebbe fornito alle nostre industrie 2,5 tonnellate e mezzo
di carbone.
A rammentare queste realtà sono sorti in diverse regioni italiane musei
dedicati all’emigrazione e monumenti all’emigrante. Molti di questi
monumenti hanno in comune la rappresentazione della valigia che ogni
emigrante teneva stretta, facendone un tutto unico col suo corpo che,
combattuto tra nostalgia e speranza, andava incontro all’ignoto. La
valigia era quanto rimaneva del mondo che ogni emigrante si lasciava
alle spalle e al quale cercava di rimaner radicato. A volte non solo
metaforicamente. Spesso infatti in valigia prendevano posto, in
sacchetti di iuta, non solo i legumi, i semi degli ortaggi e i chicchi
dei cereali della terra di casa, ma anche alcune viti della vigna di
famiglia, nella speranza di poterla far rinascere nel paese di
destinazione. Affinché nel corso della lunga navigazione le viti non si
seccassero si infilava ogni talea dentro una patata e la si teneva al
buio, in valigia, fino allo sbarco.
Nell’Italia attuale il «paese con la valigia», ovvero il Comune che
detiene il primato della maggior percentuale di residenti all’estero
rispetto alla popolazione, è una località del Piemonte, Roasio, dove un
quarto dei 2457 abitanti, seguendo una tradizione sviluppatasi sin
dall’Ottocento, opera in grandi imprese impegnate nella costruzione di
infrastrutture nelle più importanti nazioni dell’Africa.
Appendici statistiche e schede documentarie ampiamente presenti nel
Demim e articolate per regioni e città restituiscono a ogni dinamica
migratoria la sua originale concretezza. Emergono così le filiere di
migranti che riuscivano, partendo da uno specifico territorio, a volte
non più vasto di una vallata, a conquistare il predominio su rilevanti
mestieri in grandi metropoli. I friulani ad esempio monopolizzavano i
posti da infermiere negli ospedali di Buenos Aires. Nell’edilizia, in
Francia, andavano forte i piemontesi, mentre gli impianti di
riscaldamento di Parigi erano per lo più affidati a lavoratori arrivati
dall’Appennino parmense e piacentino. Le modelle ciociare erano le
preferite negli atelier dei pittori, mentre le stiratrici dei grandi
alberghi erano rigorosamente valdostane. Altri tempi. Tutt’altro che
distanti, tuttavia, dai copioni che oggi, mutando volti e lingue dei
migranti, vanno in scena nelle nostre città.
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