domenica 16 novembre 2014

Raccolte negli Oscar tutte le poesie di Franco Fortini


Domenicale 16 11 2014


Franco Fortini, un utopista civile estraneo alle seduzioni del tempo 
A vent’anni dalla morte, il profilo di un poeta e intellettuale poco ortodosso

Roberto Galaverni Mercoledì 19 Novembre, 2014 CORRIERE DELLA SERA © RIPRODUZIONE RISERVATA

La poesia di Franco Fortini non ha mai avuto il suo tempo. Non l’ha avuto lungo il corso della vita del poeta, e non l’ha nemmeno oggi, a vent’anni dalla sua scomparsa. Il tempo atteso, promesso, scommesso da questa poesia potrebbe anche non venire mai. Certo è che l’adempimento dell’utopia rivoluzionaria appare oggi, se mai possibile, anche più arduo e lontano di quanto non apparisse a Fortini, che pure già lo poneva dietro la curva delle cose visibili. Ma il fatto è che il suo verso vive proprio dell’essere in discontinuità col presente, fuori tempo, perfino al di là della storia. L’anacronismo coincide con la vitalità, con la presenza stessa dell’opera poetica di Fortini. Ne costituisce, in sostanza, la giustificazione. Così, se non è mai il tempo della sua poesia, è però sempre il tempo per la sua poesia. Questo è il suo paradosso originario, e non può essere sciolto. 
Del suo marxismo non ortodosso e non confessionale, sensibile a contenuti religiosi anch’essi sbilanciati verso l’eresia, Fortini è riuscito a dare un perfetto equivalente espressivo. Ciò significa che come accade con ogni vero poeta la sua forma dice altrettanto se non più dei contenuti espliciti. La sua assoluta non complicità con una storia inadempiente quanto a giustizia, eguaglianza, verità, si è infatti determinata in una poesia non solo estranea a ogni sorta di novecentismo poetico, ma, anche più profondamente, cioè a partire dalle particelle costitutive del discorso poetico, in un sentimento della lingua e in una pratica del verso ostili a ogni immediatezza, comunicazione diretta, naturalezza espressiva. Così, se da un lato ha inteso la poesia come istituzione, codice poetico, specializzazione linguistica già data e in quanto tale impersonale e oggettivabile, se ha prediletto modi indiretti della rappresentazione quali l’allegoria e la parabola, dall’altro lato ha come devitalizzato la propria lingua, sottraendola alla sfera dei sensi e delle percezioni come ai più inaffidabili veicoli della conoscenza, in favore dei procedimenti anch’essi indiretti del pensiero e della mediazione intellettuale. Discontinuità, distacco, distanziamento, di contro al contatto diretto con la materia del mondo. 
Sembrerebbe fare eccezione la vista, perché Fortini è in larga misura un poeta del vedere, ma non è così. Si tratta infatti di un vedere della mente piuttosto e prima che degli occhi. «Se al vuoto anzi tempo mi volgo / ricolmo rientro dal vuoto. / Quando pratico col niente / torno, il mio compito, a saperlo», scrive in una tarda imitazione Da Brecht, ovvero dal più importante dei suoi maestri di poesia. Fortini è un poeta che vede soltanto al buio. La sua vista, voglio dire, per entrare in azione non dev’essere impedita dal mondo immediatamente circostante nella sua particolarità e finitudine irriducibili. Il presente non viene attraversato, ma è un ostacolo in cui s’inciampa per saltare al di là. Cecità e visione, di conseguenza, fanno tutt’uno. Di qui, un po’ come per Luzi, anche se a partire ovviamente da fondamenti diversi, deriva il suo sguardo categoriale, sub specie aeternitatis. Non questo o quell’uomo, ma gli uomini; non questo o quel giorno della vita, ma il significato tutto della Storia universale. Di qui, anche, le sue tipiche inversioni temporali. Non a caso il suo tempo più congeniale non è propriamente il futuro, ma il futuro anteriore, vale a dire, alla lettera, il futuro che viene prima: prima del paesaggio o delle persone che vediamo ogni giorno aprendo la finestra, prima delle cose appoggiate sulla tavola, prima della cosiddetta realtà. Il che, a ben vedere, costituisce un’azzardata, sbilanciatissima e oltremodo propizia condizione di poesia. 
«La mia grinta mortuaria, di ghiaccio-represso», così Fortini parlava di sé in una lettera a Pasolini. È difficile immaginare una definizione più precisa anche per la sua poesia. Il rigorismo etico e politico, infatti, si converte qui in un autentico rigor mortis espressivo. «Proteggete le nostre verità», chiede nella sua ultima raccolta di versi, Composita solvantur. A sua volta, per preservare quelle stesse verità, Fortini ha come fermato il cuore della lingua. L’ha congelata, imbalsamata, resa impermeabile e durevole in attesa del tempo del disgelo, di una nuova e ultima primavera. Fredda e dura come il ghiaccio o come il marmo per le epigrafi cimiteriali, questa poesia è stata scritta per essere usata ma non consumata. 
In ogni senso, non è dunque una poesia fatta per i consumatori. Proprio per questo non avrà mai il suo presente; per questo, anche, non potrà mai sciogliersi come neve al sole.

Fortini o dell’imperdonabile
Franco Fortini poeta. Ricerca della verità e impossibilità del perdono: due figure etiche e ideologiche tra loro connesse, per rileggere «tutte le poesie» di Franco Fortini riunite in un «Oscar» a cura di Luca Lenzini
Niccolò Scaffai, il Manifesto 30.11.2014 
For­tini, o dell’imperdonabile. Per­dono e verità sono tra i lemmi più impor­tanti del les­sico poe­tico for­ti­niano: «Non è vero che saremo per­do­nati», si legge in «Prima let­tera da Babi­lo­nia» (da Una volta per sem­pre, 1963); «Ma la verità non per­dona», risponde, a distanza nel tempo, un verso di «Con­si­dero errore…» (nell’Appen­dice di light ver­ses e imi­ta­zioni che chiude l’ultimo libro di poe­sie: Com­po­sita sol­van­tur, 1994). Il per­dono (anzi, la nega­zione del per­dono) e la verità sono figure eti­che e ideo­lo­gi­che tra loro con­nesse, spe­cial­mente nella poe­sia di For­tini. Ma la ricerca di una verità e la sua anta­go­ni­stica affer­ma­zione non por­tano ad alcuna con­ci­lia­zione; impli­cano piut­to­sto la neces­sità del rilan­cio, il gesto del con­fronto, al limite la tre­gua prov­vi­so­ria. For­tini, per­ciò, non è uno di que­gli imper­do­na­bili a cui Cri­stina Campo inti­to­lava un suo sag­gio famoso: non c’è in lui la vel­leità di fis­sare con occhi puri la bel­lezza cac­ciata dal mondo; non c’è, in par­ti­co­lare, la difesa dell’impassibilità come valore. For­tini non fu mai impas­si­bile, spe­cial­mente di fronte alle urgenze sto­ri­che e civili, come illu­strano gli scritti, i versi e la sua stessa espe­rienza. Fu sem­mai costante. Ci sono in lui, però, altre qua­lità dei cosid­detti imper­do­na­bili: soprat­tutto la chia­rezza, rivolta anche verso sé stesso. L’io dei versi di For­tini non si per­ce­pi­sce solo come il depo­si­ta­rio di verità da impar­tire, ma anche come incar­na­zione, spesso dolo­rosa, di verità di cui con­vin­cere e con­vin­cersi per via di pro­vo­ca­zione: «Com’è chi per sé vuole più verità / per essere agli altri più vero e per­ché gli altri / siano lui stesso, così sono vis­suto e muoio» («Il comu­ni­smo»). Il primo a non essere per­do­nato, né per­do­na­bile, è For­tini stesso, come rive­lano i suoi esami di coscienza, con­dotti per le inter­po­ste per­sone degli ‘amici’, degli inter­lo­cu­tori costan­te­mente inter­pel­lati e spesso appunto pro­vo­cati. Tra que­sti c’è Sereni. For­tini gli dedica «A Vit­to­rio Sereni» (in Que­sto muro), ma soprat­tutto la splen­dida, l’intollerabile «Leg­gendo una poe­sia» (in Pae­sag­gio con ser­pente): «Non ho mai capito gli altri né me stesso / ma il modo che ho di sba­gliare que­sto sì. Se mi arriva / una verità è nel mezzo della fronte: è / un’accusa. Ragiono / senza com­pren­dere. Mai sono dove credo». 
Biso­gna riper­cor­rere l’intera opera in versi for­ti­niana per cogliere meglio gli ele­menti di con­ti­nuità e di frat­tura lungo la linea di que­ste e altre ricor­renze ver­bali e tema­ti­che; oggi final­mente, a vent’anni dalla morte dell’autore, pos­siamo farlo con più sicu­rezza, gra­zie al volume curato da Luca Len­zini, tra i mag­giori e più sen­si­bili stu­diosi for­ti­niani, non­ché coor­di­na­tore del Cen­tro inti­to­lato allo scrit­tore presso l’Università di Siena: Franco For­tini, Tutte le poe­sie, «Oscar» Mon­da­dori (pp. LXIV-881, euro 22,00). Col­pi­sce – impos­si­bile non notarlo – che la prima rac­colta com­pleta di uno dei mag­giori poeti ita­liani del secondo Nove­cento non esca nei «Meri­diani» (col­lana nella quale era apparso, nel 2003, il volume dei Saggi ed epi­grammi for­ti­niani, sem­pre a cura di Len­zini), ma in una sede desti­nata a un pub­blico largo e che per­ciò non con­tiene appa­rati critico-filologici. La depre­ca­zione, legit­tima, rischie­rebbe tut­ta­via di far pas­sare in secondo piano l’importanza di quest’«Oscar» (che pro­se­gue la serie «Poe­sia», nella quale pure sono apparsi di recente com­menti e edi­zioni di rife­ri­mento per rileg­gere il Nove­cento). La rac­colta com­prende l’intera opera poe­tica di Franco For­tini, da Foglio di via a Com­po­sita sol­van­tur, com­presi il cospi­cuo qua­derno di tra­du­zioni (Il ladro di cilie­gie e altre ver­sioni di poe­sia, 1982), i Versi primi e distanti 1937–1957 (pub­bli­cati in edi­zione non venale nel 1987) e le Poe­sie ine­dite uscite da Einaudi a cura di Men­galdo. Per la lezione dei testi inclusi nei primi libri (Foglio di via, Poe­sia e errore, Una volta per sem­pre, Que­sto muro), Len­zini si è basato sulla rac­colta einau­diana del ’78; per quelli, oltre che per Pae­sag­gio con ser­pente e Il ladro di cilie­gie, ha tenuto conto anche della varianti appor­tate dall’autore nell’antologia dei Versi scelti (Einaudi, 1990). 
Pro­prio Versi scelti e la pre­ce­dente rac­colta del ’78 erano fino a oggi le edi­zioni (ormai dif­fi­cil­mente repe­ri­bili) in cui leg­gere For­tini. Il gua­da­gno por­tato ora dal volume di Tutte le poe­sie non è cal­co­la­bile solo in ter­mini quan­ti­ta­tivi, ma si misura anche in ter­mini di com­pren­sione del per­corso for­ti­niano. A comin­ciare dalla più appa­ren­te­mente ovvia, tau­to­lo­gica con­si­de­ra­zione: cioè che For­tini è un poeta. E un poeta memo­ra­bile: va detto a bene­fi­cio di quei let­tori, i più gio­vani e gli stu­denti in par­ti­co­lare, che hanno avuto accesso fin qui con più faci­lità agli scritti sag­gi­stici e agli epi­grammi (spesso fol­go­ranti, ma nel com­plesso respon­sa­bili di un’idea par­ziale di For­tini: il ‘pian­ta­grane’, tutto idio­sin­cra­tico e umo­rale, in cui si iden­ti­fi­cano gli intel­let­tuali arrem­banti che esi­bi­scono come lascia­pas­sare gli animi for­ti­niani, frain­ten­den­doli). Che For­tini, ador­niano e mar­xi­sta ete­ro­dosso, sia stato anche un grande cri­tico e un grande pole­mi­sta è fuor di dub­bio: basta non far dipen­dere troppo la poe­sia dalle altre com­po­nenti del suo lavoro intel­let­tuale (e viceversa). 
La seconda con­si­de­ra­zione riguarda la tenuta di quella poe­sia, che nei decenni non ha ceduto alla ten­ta­zione di rove­sciare il guanto, di invol­vere verso la rare­fa­zione o verso l’oltranza espres­siva. Le risorse reto­ri­che di For­tini si pre­ci­sano nel tempo ma non si smen­ti­scono; tra que­ste, spe­cial­mente nelle prime rac­colte, c’è il ricorso alle figure di ripe­ti­zione, usate per con­fe­rire al discorso la peren­to­rietà epico-sacrale della for­mula (con una fun­zione, per­ciò, quasi oppo­sta a quella dell’iterazione in Sereni): se è vero, come ha scritto Raboni, che For­tini è un «poeta essen­zial­mente metrico», è vero anche che tale qua­lità dipende dalla neces­sità di arti­co­lare la forma in strut­ture nette (quasi il cor­re­la­tivo for­male della sua ten­sione verso la verità). Nette, non esi­bite in volute manie­ri­sti­che. Quello di For­tini è uno stile disci­pli­nato, che si eleva basan­dosi più sulla costru­zione che sull’espressività. 
Da qui occorre pro­ce­dere alla terza con­si­de­ra­zione indotta dalla rilet­tura dell’opera in versi: la sostan­ziale auto­no­mia dai modelli ita­liani sto­ri­ca­mente influenti. L’estraneità di For­tini all’ermetismo sem­bra innata alla sua scrit­tura; aspetto que­sto che appare tanto più note­vole quanto più si pensa alla sua età (nato nel ’17, For­tini è quasi coe­ta­neo di Luzi, Bigon­giari, Par­ron­chi) e alle sue ori­gini fio­ren­tine. Ma Firenze, che nelle poe­sie for­ti­niane resta per lo più il luogo dell’elegia (pen­siamo a «Cam­po­santo degli Inglesi» o a «Nella mia casa di Firenze»), fu comun­que impre­scin­di­bile: come spiega Len­zini, nella sua bella, lucida intro­du­zione, il «carat­tere vel­lei­ta­rio e regres­sivo», per­ce­pito nella cul­tura fio­ren­tina dei primi anni di for­ma­zione, ali­mentò in For­tini quasi un senso di colpa e un con­se­guente risen­ti­mento verso un’aristocrazia intel­let­tuale dalla quale si tenne distante, ma da cui pure si sentì con­ta­mi­nato, per certi resi­dui di este­ti­smo. Lon­tano è anche Mon­tale, di cui For­tini risente, sì, ma nei tratti este­riori: la mise en page dei mot­tetti, ad esem­pio, può aver agito su certi com­po­ni­menti di Foglio di via (soprat­tutto le Ele­gie); così come il for­mu­la­rio sintattico-lessicale di Ossi, Occa­sioni e Fini­sterre può aver inciso nei tim­bri e nei ritmi, nell’energetica del verso (emble­ma­tica è «Guarda que­sta rena», in Poe­sia e errore: «Umida l’ala che ora s’allenta / eli­tra nel mez­zodì sarà come stocco di spiga secante»). Ma sono forme di memo­ria pra­tica, che non impli­cano un’adesione né al sistema retorico-stilistico, né alla dispo­si­zione cono­sci­tiva e ideo­lo­gica di Mon­tale. Val­gono più per distin­guere che per assi­mi­lare. L’«Oscar Mon­da­dori», che rende dispo­ni­bile e frui­bile l’opera in versi for­ti­niana, con­tri­bui­sce a met­terne a fuoco pro­prio i carat­teri distin­tivi e a veri­fi­carne la con­si­stenza piena; senza, con ciò, monu­men­ta­liz­zare il poeta For­tini (vor­rei dire ancora: senza per­do­narlo, cano­niz­zan­dolo), ma rimet­ten­done in gioco i valori, lascian­doli tor­nare in circolo.

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