martedì 11 novembre 2014

Spezzaferro bluffa ma per adesso è senza truppe. Se Renzi sarà logorato dall'UE, metterà al suo posto un altro Letta


Ricordatevi sempre che chi dice Partito del Lavoro dice Massimo D'Alema [SGA].

Corriere 11.11.14

Grandi manovre D’Alema avverte Renzi: “La pazienza ha un limite”

L’ex ministro: “Matteo? Un episodio” “Litiga tutti i giorni con qualcuno... Berlusconi se ne è innamorato, lo ha scelto come erede, c’è qualcosa che non funziona. Hanno la tendenza a dire delle cose e a farne altre”.

di Marco Palombi il Fatto 11.11.14

Ecco, magari non sono più i tempi in cui “capotavola è dove mi siedo io”, ma Massimo D’Alema - desertificata la sinistra, sedotto il fu Cavaliere - pare essere l’unica figura di un qualche peso rimasta all’opposizione di Matteo Renzi. Ieri, per dire, il Líder máximo s’è presentato alla scrivania di “Otto e mezzo”, su La7, per mettere in chiaro alcune cosette, sbertucciare il giovane premier e lanciare oscuri presagi di sventura.
Matteo Renzi completa l’opera iniziata con la caduta del Muro di Berlino, butta lì Lilli Gruber. D’Alema tiene a bada le vertigini, comprime in un rapido aggiustamento degli occhiali la voglia di bestemmiare e scolpisce: “No, non sono d’accordo: Renzi è un episodio nella storia della sinistra italiana, non un punto d’arrivo”. Non siamo al fascismo come parentesi di Croce, ma insomma.
TANTO PIÙ che, replica virilmente a Beppe Severgnini, “se qualcuno pensa che la sinistra abbia smobilitato, sbaglia i suoi calcoli e si troverà qualche sorpresa: finora c’è stato molto senso di responsabilità, ma la pazienza ha un limite e un pezzo del partito potrebbe assumere un atteggiamento più combattivo”. Finito? Macché. D’Alema non nasconde nemmeno qual è il pensiero che gli tiene calde le notti, ma nasconde la forza del desiderio sotto le spoglie di una profezia vagamente iettatoria: “La storia non è finita, come non era finita dopo la caduta del Muro: l’Italia è un paese capace di repentini innamoramenti, ma poi se non ci sono i fatti seguono disamori anche abbastanza repentini”. Urticante la battuta sul governo che scaturisce dalla citazione degli ultimi, pessimi, dati economici: “Questo paese vive un conflitto tra l’ottimismo delle parole e il pessimismo non dei gufi, ma dei fatti”. E ancora: “L’Italia avrebbe bisogno di uno spirito maggiore di armonia, invece questo governo ogni giorno litiga con qualcuno: con Bruxelles, coi conservatori del suo partito, coi burocrati... ”.
PIÙ OVVIE, anche se non meno importanti, le sciabolate sul Patto del Nazareno: “Dalle riforme che produce si può dire che conteneva cose non apprezzabili: il Senato lo nominano i consigli regionali, la Camera i segretari di partito. E i cittadini? Andiamo tutti in vacanza? ”. Ma il Patto scricchiola, obiettano i presenti. Il nostro allarga le braccia col pensiero: “I contenuti restano segreti: è difficile anche sapere se scricchiola o no”. Certo, è la mazzata leggermente minacciosa, “l’unica cosa che mi tranquillizza è che il prossimo capo dello Stato non può essere eletto al Nazareno, bisogna farlo in Parlamento”. E qui, sorride D’Alema, casca l’asino: “Io ho avuto parte nelle elezioni di Ciampi e Napolitano, due scelte di prim’ordine: spero che anche la prossima sia dello stesso genere” (il nostro, ufficialmente, vuole “una donna”). Lui non è ovviamente nella lista: “Da Renzi non mi aspetto niente: lui punta sui fedeli e io ho il vizio di pensare da solo”. Con Berlusconi invece, è la maligna sottolineatura, va d’accordissimo: “È un fatto che ne abbia fatto il suo interlocutore privilegiato”. L’ex Cavaliere, d’altronde, ha un trasporto passionale per il suo giovane successore: “Se il maggiore esponente dell’opposizione è innamorato del capo del governo allora è finita”. In realtà, persino Renzi avrebbe “bisogno di una destra europea”, mentre “Berlusconi è il principale problema della destra italiana: non si sa come uscirne”. I due si tengono (anche se non siamo nei pressi del simul stabunt previtiano): “Non saprei di chi fidarmi fra Renzi e Berlusconi, diciamo che entrambi hanno la tendenza a dire delle cose e a farne altre”.
Sarà per questo che vanno così d’accordo, tanto è vero che oggi dovrebbe chiudersi l’accordo sull’Italicum 2.0: il fu Cavaliere ha convocato il comitato di presidenza di Forza Italia e illustrerà ai reprobi i motivi per cui dire sì al premier sul premio di maggioranza al partito anzichè alle coalizioni: è lui che dà le carte e in cambio della legge elettorale le elezioni vengono spostate almeno al 2016 (d’altronde le Camere sono occupate con la finanziaria adesso e col nuovo presidente della Repubblica a gennaio) e Berlusconi potrà sedersi al tavolo per la scelta del prossimo capo dello Stato. Dal canto suo, Renzi ha invece badato a calmare gli animi nella maggioranza: una soglia di sbarramento unica al 5%, infatti, ucciderebbe Ncd. Angelino Alfano, in un incontro a due, ha proposto di portarla al 3%: l’accordo è probabile attorno al 4. Il ritorno alle preferenze (ma i capilista restano nominati) accontenta infine sia i centristi che la minoranza del Pd. Basta che non si voti subito, d’altronde.

Sinistra dem sulle barricate “Almeno il 70% degli eletti sia scelto con le preferenze”
La controproposta dei bersaniani alla riunione del partito A palazzo Madama i ribelli si contano: “Stavolta saremo 30-40”
di Giovanna Casadio Repubblica 11.11.14
ROMA «L’Italicum così non va e guai se Renzi la dà vinta a Berlusconi e Verdini che vogliono un Parlamento di nominati». La sinistra dem è in trincea sulla legge elettorale. Mercoledì sera in direzione sarà show down: Renzi cercherà di strappare l’unità del Pd sulle modifiche, ma lo scontro è già in atto. I senatori bersaniani hanno preparato una controproposta a quel compromesso con Berlusconi ipotizzato dal ministro Maria Elena Boschi, cioè i capilista nominati e gli altri eletti con le preferenze.
Hanno spiegato la settimana scorsa al premier-segretario che si potrebbe piuttosto pensare a un sistema a quote: un 25-30% di nominati e il resto dei parlamentari scelti con le preferenze. Ma prima delle tecnicalità, c’è il dissenso politico netto e profondo. Massimo D’Alema è sarcastico: «Se l’impianto dell’Italicum fosse confermato e il Senato abolito, i cittadini che fanno? Se ne stanno a casa?». Le accuse dell’ex ministro degli Esteri testimoniano che la sinistra che non ha smobilitato affatto e rappresentano un giudizio su tutto il pacchetto-riforme.
Nella serata del vertice di maggioranza la legge elettorale tiene banco nel Pd. Contro l’Italicum sulle barricate è tutta la sinistra del partito, da Pierluigi Bersani a Gianni Cuperlo a Stefano Fassina. «Certo che la legge elettorale uscita da Montecitorio va cambiata, il cittadino deve scegliere il parlamentare », attacca l’ex segretario Bersani da Bologna dove assiste alla proiezione del documentario sui settant’anni delle feste dell’Unità. Lancia l’allarme, Bersani, sui rischi per la democrazia tra Italicum e trasformazione del Senato in Camera delle autonomie. A Palazzo Madama, dove oggi ricomincia l’iter parlamentare dopo l’ok della Camera, i dissidenti si contano: questa volta, assicura la minoranza dem, saremo fra i 30 e i 40 a opporci se non ci saranno modifiche profonde. Miguel Gotor, senatore bersaniano, ricorda che «tutto il Pd è contro un Parlamento di nominati. Deve essere evidente che il pallino non può essere in mano a Berlusconi perché le liste bloccate sono l’idea di democrazia che hanno l’ex Cavaliere e Verdini». «Noi sono dieci anni che diciamo “no” ai nominati, questo è un punto di principio dal quale non si può recedere», rincara Cuperlo.
Quindi le modifiche sulle soglie, sul premio di maggioranza sono sì importanti, ma il cuore della battaglia è sulla scelta dei parlamentari. Alfredo D’Attorre è convinto che il compromesso di cui si è parlato in questi giorni sia «incostituzionale », che non è pensabile che ci siano capilista nominati e gli altri che si cercano il consenso. «Incostituzionalità evidente», è il giudizio di Giuseppe Lauricella, deputato dem, che agita un altro spauracchio: al Senato potrebbe ricomparire l’articolo 2 dell’Italicum, ovvero rientrare dalla finestra quello che era stato buttato fuori dalla porta e che impedisce a questa nuova legge elettorale di essere applicata al Senato, essendo prevista la sua cancellazione con la riforma costituzionale. Lauricella non crede alle rassicurazioni del ministro Boschi: «Con un emendamento che applicasse l’Italicum anche al Senato si potrebbe andare subito al voto». E a pensare male, riflette, talvolta ci si azzecca. Comunque, sottolinea Maurizio Migliavacca, che fu capo della segreteria di Bersani, la linea del Piave sta tutta in quei «punti irrinunciabili». A partire dal “no” ai parlamentari nominati.

La doppia partita incrociata del premier
di Marcello Sorgi La Stampa 11.11.14
Un vertice di maggioranza dell’anomala coalizione sinistra-destra che sorregge l’attuale governo rappresenta di per sé una novità. Se Renzi ha deciso di sottoporsi a una delle più vecchie liturgie della Prima Repubblica (nella Seconda, ai tempi di Berlusconi, avevano provato a cambiargli il nome in “cabina di regia”), mettendo per iscritto l’impegno per tenere in vita il governo fino al 2018, è perché la sua strategia, dal primo al secondo tempo della partita della legge elettorale, è cambiata.
Nella fase uno, che aveva portato alla faticosa approvazione dell’Italicum alla Camera, il patto del Nazareno si era rivelato decisivo e Renzi aveva usato Berlusconi contro le resistenze dei suoi alleati minori e un po’ anche contro quelle della minoranza interna del Pd. Nella fase attuale preferisce stringere con la sua maggioranza, per poi poter dire a Berlusconi che le modifiche al testo passato a Montecitorio sono indispensabili per tenere in piedi il governo. Se Berlusconi vuol rompere il patto, faccia pure e resti all’opposizione. Altrimenti, se vuole, dia una mano, e magari su qualche punto un compromesso si troverà anche con Forza Italia.
Un’impostazione come questa, capovolta rispetto al quadro politico su cui finora Renzi s’è appoggiato, è legata alle divisioni che attraversano il partito berlusconiano, che in certi momenti sembra ormai sfuggire al controllo del suo fondatore. Ma anche all’urgenza, per Renzi, di approvare la legge elettorale al più presto, se non proprio entro l’anno, almeno all’inizio del prossimo, che si aprirà con il fondamentale appuntamento dell’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.
Affrontare una scadenza così complessa, che già sposta in avanti qualsiasi scommessa sulle elezioni anticipate - dato che tra dimissioni del Capo dello Stato, convocazione delle Camere riunite, votazioni, proclamazione dell’eletto, si arriverà a primavera -, senza poter contare sulla legge elettorale, sarebbe troppo avventuroso anche per Renzi. Il premier non avrebbe infatti nessun modo per difendersi dagli agguati dei franchi tiratori, che stavolta, come accadde un anno e mezzo fa con Bersani, mirerebbero contro di lui. Con la legge in mano, invece, avrebbe buon gioco a tenere a bada i parlamentari più riottosi, con l’arma della mancata ricandidatura alla prossima scadenza elettorale, che se per ora rimane sullo sfondo, non è detto che non possa riproporsi in anticipo.
Tutto ciò, senza rompere, o almeno senza rompere del tutto, con Forza Italia. Anche perchè il disgelo con il Movimento 5 stelle, celebrato sull’elezione di un giudice costituzionale e di un membro del Csm, è durato lo spazio di un mattino. Ieri Grillo ha addirittura dato ordine ai suoi legali di presentare un esposto in Procura contro il patto del Nazareno.

Corriere 11.11.14
Un’alleanza con i «piccoli» per piegare il partito di Berlusconi
di Massimo Franco


Qualche giorno fa sarebbe stato diverso. Il vertice della maggioranza di governo avrebbe accentuato il profilo decisionista di Palazzo Chigi; e mostrato un Matteo Renzi non solo determinato a procedere speditamente, ma in grado di piegare le resistenze agitando lo spettro delle elezioni a primavera. Le probabili dimissioni di Giorgio Napolitano a gennaio, invece, modificano lo sfondo. Forza Italia esagera sostenendo che il capo dello Stato ha «di fatto sfiduciato il premier»; ma lo costringe a rivedere il suo ruolino di marcia. La sensazione è che al di là degli appelli a fare presto, Renzi stia già ridisegnando il suo percorso.
Fino alle votazioni per il Quirinale, è difficile pensare che si riesca a sfuggire ad una sorta di sospensione dell’attività politica. La prospettiva di approvare in tempi rapidi la riforma del sistema elettorale oggi appare meno scontata. E lasciando capire che non scioglierebbe in anticipo le Camere, Napolitano smonta la strategia renziana della «pistola carica». Come minimo, lo costringe a rimodularla. Il problema, per il governo e la sua coalizione, diventa quello di riuscire a non fermarsi nelle prossime settimane; di continuare a trasmettere all’Europa quell’immagine di attivismo, sebbene caotico e controverso, che ha connotato il premier nei mesi scorsi.
La riunione di ieri, chiesta dal Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, è servita come arma di pressione su Silvio Berlusconi. Renzi, convinto avversario del potere di ricatto delle forze minori, ora sembra intenzionato a usare il loro istinto di sopravvivenza per indurre l’ex premier a dire sì alla sua riforma; oppure per approvarla con i soli alleati di governo. La pletora di delegazioni che rappresentano partiti con percentuali inferiori alle soglie di sbarramento proposte finora, ha reso plasticamente l’idea dell’operazione che Palazzo Chigi ha in mente: un asse con i «piccoli» per mostrare a Berlusconi quali rischi corre se non accetta il premio di lista. E non è escluso che così riesca a convincerlo.
Sono manovre destinate tuttavia a fare aumentare sia la confusione, sia la conflittualità dentro e fuori dalla maggioranza di governo. Confermano la difficoltà a unificare un panorama frammentato e quasi ingovernabile. Per paradosso, la denuncia strampalata alla magistratura del cosiddetto patto del Nazareno tra Renzi e Berlusconi, presentata ieri dal M5S, è quella che potrebbe di colpo rianimarlo. La complicazione deriva dal fatto che gli interessi di Pd e Fi, rispetto alla riforma proposta da Renzi, divergono. Il sospetto berlusconiano è che il premier voglia un «sì» rapido per andare alle urne.
Non si può escludere che anche questo abbia influito sul desiderio di Napolitano di chiudere il suo mandato a gennaio. Il presidente della Repubblica ha voluto far capire che non è intenzionato a coprire ancora i partiti; né a sciogliere in anticipo le Camere. L’insistenza con la quale gli si chiede di rimanere ancora dimostra come il capo dello Stato abbia messo a nudo le contraddizioni delle forze politiche. E, al di là delle diatribe domestiche, l’Italia deve fare i conti con un’Europa che sta decidendo come valutare la legge di Stabilità. Di certo, un’altra campagna elettorale non aiuterebbe.

La variabile del fattore tempo che può far saltare il patto
Il collegamento tra il tavolo della riforma elettorale e la successione al Quirinale è imposto dalle circostanze
di Stefano Folli Repubblica 11.11.14
NON stupisce che Matteo Renzi desideri vedere Napolitano al Quirinale ancora per qualche mese, ben oltre la scadenza di fine anno. Convincere il presidente a posticipare le dimissioni al mese di maggio, ad esempio, forse permetterebbe al premier di risolvere il rebus della legge elettorale. Ma si tratta di una proroga di quattro, cinque mesi.
Nelle attuali condizioni sono un tempo lungo. Soprattutto perché farebbero dipendere le decisioni del presidente della Repubblica dalle esigenze dei partiti, aspetto di non poco conto che Napolitano tende a escludere («decido io quando lasciare»). D’altra parte, il gomitolo della riforma elettorale si svolge molto lentamente. Nella migliore delle ipotesi la legge non sarà votata in Parlamento prima di febbraio-marzo. Ma quale legge? Mesi fa la Camera ha approvato in prima lettura un testo che adesso è stato abbandonato dal presidente del Consiglio e segretario del Pd. Può sempre essere ripreso, ma oggi è finito in un cassetto a favore di un nuovo schema che prevede, come è noto, il premio di maggioranza alla lista e non più alla coalizione vincitrice. Su questo l’intesa con Berlusconi è faticosa. Non c’è rottura, ma nemmeno vero, convincente accordo.
Sappiamo che Renzi sta lavorando con tenacia per mettere insieme i tasselli del mosaico. Che non riguardano solo gli equilibri fra i partiti maggiori, ma anche l’accesso ai seggi parlamentari da parte delle forze minori (Alfano, Vendola, Meloni). Per loro la soglia di sbarramento deve ancora essere definita e al momento oscilla fra il 5 per cento (troppo alta) e il 3 per cento (troppo bassa): si tenta la mediazione sul 4 per cento, ma ovviamente non si tratta solo di questioni tecniche. L’intero impianto della riforma costituisce un grosso problema politico. Soprattutto perché non si capisce quanto sia affidabile oggi Berlusconi come interlocutore del premier.
La mitologia del «patto del Nazareno» vuole che l’accordo fra i due, una volta raggiunto, garantisca il passaggio celere della riforma e al tempo stesso apra la strada a un’intesa sul successore di Napolitano. Il collegamento fra i due tavoli è infatti imposto dalle circostanze. Ma la realtà è più complicata e un giocatore abile come Renzi lo sa bene. Forza Italia è un partito lacerato e la fazione pro-Renzi, alla quale appartiene lo stesso Berlusconi, non controlla per intero i gruppi parlamentari. La legge elettorale, nella sua nuova connotazione idonea a rafforzare il Pd renziano, suscita dubbi e perplessità crescenti: si veda l’attivismo di Fitto e altri. Ne deriva un rischio di sfasatura fra quello che si decide al vertice e quello che dovrà essere votato in Parlamento. A maggior ragione nel momento in cui è d’obbligo allargare il confronto e comprendervi una materia incandescente come l’indicazione preliminare del prossimo capo dello Stato.
In questo caso Renzi deve misurarsi anche con un «fronte interno»: quella minoranza del Pd che sta aspettando l’occasione di una rivincita. Di nuovo, il «patto del Nazareno», se fosse una cosa seria, chiuderebbe tutti i varchi e permetterebbe di eleggere il presidente — quando sarà — con sufficiente sicurezza. È il metodo piuttosto raro dell’intesa allargata che in passato ha evitato la guerriglia parlamentare in un paio di occasioni: con Cossiga prima e con Ciampi poi.
Tuttavia, se il patto Renzi-Berlusconi fatica a produrre la riforma elettorale, è poco probabile che serva a dare all’Italia un capo dello Stato in tempi rapidi, cioè fra la prima e la terza votazione sulla base dei due terzi dell’assemblea. In ogni caso oggi si tratta di cominciare a individuare le caratteristiche dei candidati, stabilendo se si vuole un continuatore di Napolitano come garante delle istituzioni, ovvero un semplice notaio delle decisioni assunte dal capo del governo. Come dire che la partita è appena all’inizio e nessuno, nemmeno Renzi, ha tutte le carte in mano.

La riforma, la manovra e la paura del voto
di Lina Palmerini Il Sole 11.11.14
È la paura del voto anticipato l'ostacolo alla riforma elettorale. Il premier rassicura ma la legge di stabilità – con tutte le misure che vanno a caccia del consenso del ceto medio – lascia il sospetto delle urne.
La via d'uscita per sbloccare la legge elettorale non sta tanto nelle soglie di sbarramento o nel premio di maggioranza, punti importanti, ma non del tutto decisivi. La chiave è disinnescare la paura del voto anticipato di quei parlamentari che rischiano – forse più della metà – di non essere rieletti. È lì il cortocircuito che mette sabbia negli ingranaggi del patto del Nazareno e nelle intese con la maggioranza sull'Italicum. Tensioni che in prospettiva si scaricheranno sulla successione al Quirinale, tassello importante dell'accordo con Silvio Berlusconi, convinto pure lui – come ha dichiarato qualche giorno fa – che Renzi punti alle urne a primavera.
Matteo Renzi ha rassicurato ancora ieri che l'orizzonte è il 2018, ma è la legge di stabilità – con tutte le misure che vanno a caccia del ceto medio – a far vivere il sospetto. E dare sostanza a quei timori. È la manovra il "luogo" della tentazione. Da sempre le finanziarie sono servite alla politica per produrre consenso e questa legge di stabilità – che certamente si muove nella giusta logica di fermare la recessione e invertire il ciclo economico – lascia aperto lo scenario di uno sbocco elettorale a breve. Perché lo spirito di fondo è un po' come quello che ha preceduto le europee di maggio. Si ritrova la conferma degli 80 euro per i ceti medio bassi ma c'è anche l'apertura alle imprese con il taglio dell'Irap. E la frenata sulla spending review si può leggere nello stesso senso: non esporsi troppo all'impopolarità. Dagli annunci di settembre a oggi, Renzi ha ritoccato al ribasso l'entità dei tagli: dai 20 miliardi annunciati è passato alla metà, circa.
La scommessa è non perdere la presa sul ceto medio e aprirsi a nuovi blocchi sociali. Per i redditi fino a 25mila euro la legge di stabilità conferma il bonus di 80 euro che porterà uno sconto fiscale sull'anno di 960 euro. Secondo i calcoli di Bankitalia si tratta di un alleggerimento del 3,6% del carico fiscale di un lavoratore dipendente con uno stipendio medio annuo di circa 20mila euro. Renzi ha poi aggiunto il bonus bebè e sta cercando la formula fiscale adatta per mettere il Tfr in busta paga.
Insomma, un pacchetto per dare fiato ai redditi di una categoria sociale che è lo zoccolo duro del Pd, quello che votò Bersani nel 2013 e ha votato anche Renzi nel 2014. Nelle stime di Itanes (2013) sulle professioni che pesano di più nel bacino elettorale del Pd, dopo i pensionati (37,5%), ci sono gli impegati pubblici e privati – 22,5% – e gli operai, 10%. Cioè, più o meno la stessa platea di redditi a cui parla la legge di stabilità che così potrebbe incrociare circa un terzo degli elettori del Pd.
E per aprirsi ai nuovi voti, questa volta c'è anche il taglio Irap (2,7 miliardi nel 2015 e 4 nel 2016) così come la decontribuzione per i neo-assunti mentre per i piccoli e piccolissimi imprenditori, artigiani e commercianti, il regime agevolato delle partite Iva funzionerà un po' come gli 80 euro in busta paga per i dipendenti. Una finestra su nuovi elettori per cercare di consolidare quei consensi arrivati, in parte, a maggio.
L'unico intoppo è l'Europa. A fine novembre la Commissione Ue darà il suo giudizio sulla legge di stabilità e il rischio è la richiesta di nuove correzioni. A Bruxelles si sta ancora trattando, l'esito non è scontato.

La Commissione europea attende Manovra, la Ue riflette
di Beda Romano Il Sole 11.11.14
Da qui a fine mese, la Commissione europea presenterà la sua attesa opinione sul bilancio previsionale italiano. La partita è complessa. Incrocia dati economici e analisi politica. L'Esecutivo comunitario dovrà tenere conto di numerosi fattori. Non si limiterà a valutare il mero rispetto delle regole di bilancio.
Dovrà prendere in considerazione anche l'andamento dell'economia, tanto che le previsioni di Bruxelles in questo campo potrebbero essere di aiuto al governo Renzi.
La Finanziaria prevede un aggiustamento strutturale del deficit dello 0,3% del prodotto interno lordo. Secondo le regole europee, un paese nella situazione dell'Italia, con un disavanzo sotto al 3,0% del Pil ma con un debito elevato, dovrebbe ridurre il deficit di almeno lo 0,5%. Dovrà l'Italia introdurre nuove misure di risanamento dei conti? È possibile. Nel presentare le sue stime economiche, Bruxelles ha lasciato la porta aperta a questa possibilità (si veda Il Sole/24 Ore del 5 novembre).
«La valutazione della Finanziaria non è terminata», spiegava ieri sera un funzionario europeo. Aggiungeva un altro esponente comunitario: «Al netto dell'analisi della Finanziaria, c'è un dibattito all'interno della Commissione sull'opportunità o meno di chiedere nuovi sforzi ad alcuni paesi tra cui l'Italia». In una conferenza stampa qui a Bruxelles giovedì scorso il nuovo commissario agli affari economici Pierre Moscovici ha assicurato che la Commissione avrà «un approccio intelligente».
Tra gli aspetti negativi per l'Italia, Bruxelles considererà le sue previsioni sul deficit strutturale italiano, destinato a scendere dallo 0,9% del Pil nel 2014 allo 0,8% nel 2015, per poi tuttavia risalire all'1,0% nel 2016. Nel contempo, la Commissione ha respinto l'ipotesi che la situazione economica possa essere considerata, a livello di zona euro, una circostanza eccezionale, tale da consentire ai singoli stati membri di disattendere le regole europee, secondo quanto previsto dal Patto di Stabilità e di Crescita.
Chi tra i commissari vuole chiedere maggiori sforzi all'Italia intende anche difendere la credibilità delle regole europee ed evitare eventuali ricorsi dinanzi alla Corte di Giustizia del Lussemburgo contro una Commissione ritenuta troppo benevola (soprattutto in Germania). C'è da chiedersi peraltro quale potrebbe essere l'impatto sulle scelte di Bruxelles della debolezza politica del presidente Jean-Claude Juncker, sulla scia degli scandali fiscali in Lussemburgo, suo paese d'origine.
Tra i fattori favorevoli all'Italia, l'esecutivo comunitario è pronto a prendere in considerazione le riforme economiche, come attenuanti a misure troppo impegnative sul versante del risanamento delle finanze pubbliche. Ma anche su questo aspetto i risultati italiani sono in chiaroscuro. Alcune riforme sono state adottate, ma spesso sono mancati i necessari atti amministrativi e decreti legge perché i pacchetti legislativi potessero entrare in vigore.
A favore di una posizione più accomodante ci sono anche preoccupanti previsioni economiche della stessa Commissione, in un contesto politico italiano molto fragile e mentre si torna a parlare di elezioni anticipate. L'output gap, ossia il divario tra crescita reale e crescita potenziale, è elevata: del 4,5% del Pil nel 2014 e del 3,4% del Pil nel 2015. Per questo anno, Grecia, Spagna, Cipro e Portogallo sono messi peggio. Per il prossimo, solo Grecia, Cipro e Spagna hanno valori superiori a quelli italiani.

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