martedì 11 novembre 2014

Piketty vuole la "democratizzazione" della Cina. Meglio un sistema plutocomunista o uno plutocapitalistico?


E' il consueto bue che dice cornuto all'asino. Si vuole ridicolizzare un sistema elettorale transitorio che cerca di gestire profondi conflitti di interesse - tra l'altro in una situazione eccezionale dovuta all'integrazione seguita alla decolonizzazione -, quando negli Stati Uniti c'è un sistema permanente che a partire dalle elezioni primarie assegna l'elettorato passivo a un'elite ristrettissima.
E questa è la nuova icona della sinistra. Figuriamoci la destra [SGA].


Il regime plutocomunista

Si tratta di uno stupefacente mix tra la logica del partito unico e quella delle tradizioni europee incentrate su aristocrazia e censo

di Thomas Piketty Repubblica 11.11.14
 SECONDO i dizionari, il termine plutocrazia (dal greco plutos: “ricchezza”, e kratos: “potere”) indica un sistema di governo in cui la base del potere è costituita dal denaro.

PER analizzare il sistema che il Partito comunista cinese (Pcc) sta tentando di istituire a Hong Kong potremmo inventare un nuovo termine: il “plutocomunismo”. Un sistema che formalmente autorizza libere elezioni, ma con solo due o tre candidati previamente approvati, a maggioranza, da un apposito comitato costituito da Pechino, egemonizzato dagli ambienti affaristici di Hong Kong e da altri oligarchi filocinesi.
Si tratta di uno stupefacente mix tra la logica comunista del partito unico (nella Rdt i cittadini erano chiamati a votare, ma solo per candidati dichiaratamente ligi al potere) e quella delle tradizioni europee incentrate sull’aristocrazia e sul censo (fino al 1997 il governatore di Hong Kong era nominato dalla regina d’Inghilterra, in un sistema di democrazia indiretta fondata su comitati dominati dalle élite economiche). Nel Regno Unito come in Francia, tra il 1815 e il 1848 il diritto di voto era riservato a una piccola percentuale della popolazione, in base al censo e alle tasse pagate: un po’ come se oggi in Francia votasse solo chi è soggetto all’Isf (l’Imposta di solidarietà sui patrimoni). Senza arrivare a tanto, la Cina sembra tentata di seguire un modello di questo tipo, per di più guidato da un partito unico e onnipotente.
Come giustificare un sistema del genere? E come pensare che abbia un futuro? Il meno che si possa dire è che gli stessi comunisti cinesi non sono troppo convinti del modello occidentale di democrazia e pluripartitismo, fondato sulla concorrenza a tutti i livelli: tra partiti, tra candidati, ma anche — cosa forse ancora più importante — tra territori. L’essenziale per Pechino è l’unità politica del vasto territorio cinese, condizione di un armonico sviluppo economico e sociale sotto la guida del partito comunista cinese, garante dell’interesse generale e del lungo termine. Di fatto, a confronto con altri Paesi emergenti — in particolare con l’India — il successo della Cina si spiega in parte con l’accentramento politico e la capacità dei pubblici poteri di finanziare le infrastrutture collettive, le imprese di proprietà mista e gli investimenti nell’istruzione e nella sanità, indispensabili allo sviluppo.
Nonostante le privatizzazioni, il pubblico rappresenta ancora il 30-40% del capitale nazionale cinese, contro il 25% circa nell’Europa dei “trenta gloriosi” (gli anni dal 1945 al ‘75). Oggi nella maggior parte dei Paesi ric- chi l’incidenza del capitale pubblico è praticamente pari a zero (gli attivi pubblici sono appena superiori ai debiti) se non addirittura negativa in certi casi, come in Italia, per l’impatto preponderante del debito pubblico. Mentre il capitale privato — espresso in anni di Pil — è tornato alle vette del periodo precedente la Prima guerra mondiale.
Visto da Pechino, sembrerebbe che il modello cinese fosse più idoneo a regolare il capitalismo e ad evitare la pauperizzazione dei poteri pubblici: un’idea confortata anche dai condizionamenti che bloccano la politica americana, e dall’impressione che l’Unione europea stia attraversando un marasma irrimediabile, col suo territorio spezzettato in 28 piccoli Stati-nazione in accanita concorrenza tra loro, invischiati ciascuno nel suo debito pubblico, con istituzioni comuni inefficienti, incapaci di modernizzare il proprio modello sociale e di proiettarsi nel futuro.
E tuttavia, in seno allo stesso Pcc si avverte la sensazione che il modello cinese attuale, fondato sulla chiusura politica e sulla lotta anti- corruzione per limitare le disuguaglianze, non potrà reggere in eterno. La crescente influenza dei patrimoni privati sull’Assemblea nazionale popolare cinese è obiettivamente inquietante. A Pechino si temono soprattutto sviluppi di tipo russo, con fughe di capitali sempre più massicce e il saccheggio del Paese dall’esterno, da parte degli oligarchi comodamente insediati all’estero. Si discute sempre più dell’introduzione di imposte di successione progressive e di una tassazione delle proprietà. Di fatto, in termini assoluti il governo cinese avrebbe basi abbastanza solide per istituire i sistemi di trasmissione automatica delle informazioni bancarie, i registri dei titoli finanziari e i controlli sui capitali necessari per attuare una politica di questo tipo. Il problema è che in buona parte le élite politiche cinesi non hanno granché da guadagnare dalla trasparenza sui patrimoni, da un sistema di imposte progressive e dallo Stato di diritto. E anche tra chi sarebbe disponibile a rinunciare ai propri privilegi in nome del bene comune sembra prevalere il timore che l’unità del Paese sia irrimediabilmente minacciata dall’affermarsi della democrazia politica, che pure dovrebbe procedere di pari passo con l’avvento di quella economica, e con la trasparenza fiscale e finanziaria. Una sola cosa è certa: da queste contraddizioni finirà per emergere una via unica, decisiva sia per la Cina che per il resto del mondo. E in questo processo, una tappa determinante è costituita dalle lotte in atto a Hong Kong. Traduzione di Elisabetta Horvat

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