Per far ascoltare ai suoi
estimatori tutto L’anello del Nibelungo già Wagner li dovette
sequestrare in un apposito teatro a Bayreuth. Oggi i loro pronipoti
ascoltano La cavalcata delle Valchirie su YouTube, possibilmente nella
versione di Apocalypse Now, più breve e movimentata. La parte sta per il
tutto, lo sovrasta e lo cancella. Quando morì García Márquez i siti di
tutto il mondo pubblicarono gli incipit dei suoi libri più famosi.
Questo contribuirà all’oblio di Marquez più che un rogo di libri:
conoscendo le prime due righe, i più avranno pensato di aver letto i
romanzi, proprio come, un tempo, chi aveva fatto montagne di fotocopie
si convinceva di aver letto anche gli ardui articoli fotocopiati. Lo
stesso accade per i trailer cinematografici. Quello dell’ultima parte
della trilogia tolkeniana dello Hobbit, La battaglia delle cinque armate
, ha fatto protestare i fan perché è troppo completo; il che, a ben
vedere, non è problematico ma emblematico: se un trailer di qualche
minuto rischia di sostituire un film di tre ore, è lecito pensare che
nel film ci siano due ore e cinquantasette minuti di troppo. Sapere che
il film può ridursi al trailer non manca di condizionare la
sceneggiatura. È probabile che Michael Curtiz, il regista di Casablanca,
fosse consapevole delle scene madri presenti nel film. Ma non sapeva
che oggi ben pochi si metterebbero su YouTube a vedere il film intero,
preferendo l’estasi del frammento, e che tra costoro i più giovani non
sapranno neppure che la parte rinvia a una totalità, senza la quale non è
chiaro perché Ingrid Bergman tenga tanto a riascoltare As Time Goes By.
Bene,
un regista di oggi questo lo sa, e costruisce il racconto in vista,
prima di tutto, di ciò che metterà nel trailer — il resto non è
principio attivo, ma eccipiente.
In altri casi ancora, il gusto del
frammento si trasferisce da wikiquote al libro. Ad esempio, in una
collana di Chiarelettere, Feelbook, Kafka ridotto ad alcuni suoi
frammenti diventa guru della dieta ( In forma con Kafka; c’è, anche,
meno sorprendentemente, un Più saggi con Seneca : ma credetemi, è più
facile diventare magri con Kafka che saggi con Seneca). E il quasi
arcigno quotidiano The Guardian ha elaborato una serie di microcommedie
da 5 minuti, però a onor del vero non c’è molto di nuovo sotto il sole:
Achille Campanile si era portato avanti con le sue Tragedie in due
battute , e sono passati sessant’anni da quando Augusto Monterroso ha
scritto il romanzo più breve di tutti i tempi: «Quando si svegliò, il
dinosauro era ancora lì».
In altre parole: la parte per il tutto, il
frammento per l’intero. Con la conseguente illusione di padroneggiare
una qualsiasi opera complessa — libro, concerto, film — gustandone solo
un pezzo. E con un’intera generazione, quella dei nostri figli, che
conosce e conoscerà i grandi capolavori di ogni settore dello scibile
solo così, a piccoli pezzi. I rischi del pensiero corto sono
sintetizzati (accorciati?) nella battuta di Woody Allen: «Ho letto in
due minuti Guerra e pace con un sistema di lettura veloce. Parlava della
Russia».
Tuttavia vorrei spiegare perché quella del pensiero corto,
della citazione esemplare e spesso sbagliata, dello stereotipo
fuorviante, sia una tentazione così forte. Non solo per noi, ma anche
per i nostri antenati. Dopotutto, il Kafka nutrizionista non è più
bizzarro dell’uso di Virgilio nel Medio Evo, quando l ’ Eneide veniva
adoperata come un libro sibillino da cui trarre profezie (di qui un
possibile volumetto della collana di Chiarelettere: una antologia della
Divina Commedia intitolata Viaggiare con Virgilio ). La frammentarietà,
cioè non solo il breve, ma l’incompiuto, può essere una scelta estetica,
per esempio nel Romanticismo — un romanticismo eterno e non ancora
concluso: fedele all’elogio del frammento in Schlegel, il Passagenwerk
di Benjamin consiste in una incompiuta (dunque frammentaria) raccolta di
frammenti tratti dalle fonti più disparate. Altre volte può essere un
modo per trasmettere il sapere in modo compatto anche se compendiario.
Le sette meraviglie del mondo sono le antenate delle compilation “le
dieci canzoni più belle di sempre”; il resto è destinato all’oblio.
Inoltre, spesso si legge sotto stress, per consultare, passando da un
testo all’altro, e anche qui non da oggi. Nella Biblioteca Palafoxiana
di Puebla, in Messico, fondata nel 1646, ricordo di aver visto un
curioso marchingegno: una serie di ripiani disposti a ruota, come le
pale di un mulino ad acqua. Su ogni pala si poneva un libro, e questo
permetteva allo scrivente di disporre di più libri contemporaneamente,
facendo girare la ruota. Ricordo di aver mandato la cartolina che
raffigurava questo antenato del web a Jacques Derrida, che per parte sua
aveva escogitato vari sistemi ingegnosi per consultare più libri
contemporaneamente, e che alla domanda di rito del giornalista «Ha letto
tutti i libri che ha in casa?» rispose: «Solo due o tre, ma molto molto
bene». Altre volte il frammento non è una scelta, ma una necessità: è
tutto quello che abbiamo. Si pensi ai famosi (e famigerati) frammenti
dei Presocratici, di fronte ai quali il lettore deve comportarsi come il
paleontologo, che dall’osso cerca di risalire allo scheletro, e poi di
immaginarsi l’animale tutto intero. Di Anassimandro ci restano in tutto
due righe, su cui si è strologato per millenni ricavandone un manuale di
zoologia fantastica.
La logica della parte per il tutto illustra
così almeno tre meccanismi implacabili che accompagnano la trasmissione
dello scritto dalle piramidi al web: il frammento nasconde e cancella
l’intero; la censura e la rimozione eccitano la curiosità, come nel caso
dei testi degli eretici che sopravvivono nei libri degli inquisitori;
e, soprattutto, “dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio”
(c’è la concreta possibilità che, col tempo e per complesse circostanze
di trasmissione, di Zizek restino soltanto le barzellette, tradotte in
italiano da Corbaccio).
Da Proust a Wilde la lunga strada delle scorciatoie
È un atteggiamento che nasce insieme alla letteratura e coincide con l’intento di impadronirsene ma evitando ogni faticadi Valerio Magrelli Repubblica 30.11.14
L’IDEA
di una letteratura in pillole parte dall’assunto che sia possibile
spremere il succo di un libro buttandone la buccia, come da un frutto si
estraggono le vitamine per una compressa. Si tratta di un atteggiamento
che nasce insieme alla letteratura, e coincide con l’intento di
impadronirsene, sì, ma evitando ogni fatica. Lunga, dunque, è la strada
delle scorciatoie. Sin dall’antichità, la passione per i libri è andata
di pari passo con la speranza di riuscire a leggerli senza sforzo. In
apparenza paradossale o perverso (perché fare sesso più in fretta del
necessario?), questo desiderio dipende in realtà da un fatto preciso:
l’opera d’arte produce vantaggi anche extra-letterari — basti vedere
l’amore delle citazioni nei discorsi politici. D’altronde, proprio per
mostrare gli indubbi benefici legati all’ostentazione della cultura, il
sociologo Pierre Bourdieu ha parlato di come il gusto crei una
“distinzione” sociale. Ma che senso ha cercare di ottenerla senza
attraversare le forche caudine del tempo, dello sforzo, della dedizione?
La
lunga strada delle scorciatoie inizia con la mnemotecnica, cioè con un
insieme di sistemi per imparare a ricordare meglio e più in fretta. Da
Quintiliano a Giordano Bruno, una pratica simile serviva sia ai
filosofi, sia agli oratori. In certo modo, è quanto promettono oggi i
metodi di “lettura diagonale”, oppure una nuova app volta a risparmiare
quell’80 per cento del tempo che la retina dissipa durante la lettura di
un libro (visto che solo il restante 20 per cento risulta
effettivamente dedicato alla sua comprensione). In attesa che queste
tecniche diano qualche risultato, ci si continua a esercitare sugli
autori considerati più difficili.
Sia chiaro: c’è anche chi rifiuta
la lettura in toto. Prendiamo l’incontro con l’opera di Proust (che,
seppure a suo modo, resta fra le esperienze più avvincenti). Un poeta
come Paul Valéry ammise di averla letta «appena appena» — il che,
riferito a un romanzo di sette volumi, pone seri problemi di
interpretazione. Ben più perentorio, Anatole France scrisse: «La vita è
troppo corta, e Proust, troppo lungo». Snobismi. Tornando ai nostri
lettori in cerca di scorciatoie, come assaporare capolavori che esigono
grande impegno? Senza citare quelli che il critico cileno Jorge Edward
chiamò I tentativi impossibili ( da Finnegans Wake di Joyce, a Paradiso
di Lezama Lima), come avvicinarsi a certe vette narrative? Esiste un uso
“omeopatico”, ovvero per minime dosi, dei testi sacri? Possiamo
spizzicarli, cioè attingervi in forma metonimica, secondo la figura
retorica che indica “la parte per il tutto”?
Dipende. In Leopardi, ad
esempio, la sintesi delle poesie e la densità della prosa nelle
Operette morali , giustificano una lettura parziale dello sterminato
Zibaldone , anche perché questo diario intellettuale (integralmente
letto solo da pochi studiosi) consiste di sezioni spesso autonome. Con
un romanzo-fiume, tuttavia, le cose si complicano. Cosa fare per poter
dire di averlo letto? estrarne qualche passo? scorrerlo velocemente? La
risposta più acuta e provocatoria è di Pierre Bayard, che nel saggio
Come parlare di un libro senza averlo mai letto ( Excelsior, 2007),
sostiene: «Essere colti, significa sapere orientarsi all’interno di un
libro, e tale orientamento non implica la sua lettura integrale, bensì
il contrario. Si potrebbe addirittura affermare che maggiore è questa
capacità, minore sarà la necessità di leggere quel libro in
particolare».
Per Bayard, un libro non si limita a se stesso, ma è
costituito dal mobile insieme di tutta una serie di scambi suscitati
dalla sua circolazione. Pertanto, ancor più che leggerlo, impadronirsene
significherà prestare attenzione a tali scambi. Così, ha precisato
Umberto Eco, si potrò scoprire di conoscere libri mai letti, poiché nel
frattempo se ne erano letti altri che ne parlavano, li citavano, o si
muovevano nello stesso ambito. D’altronde Oscar Wilde spiegò che, per
riconoscere la qualità di un vino, non occorreva bersi un’intera botte.
Ciò detto, non-lettori di tutto il mondo, unitevi!, e fate vostra
un’altra celebre frase del medesimo autore: «Non leggo mai libri che
devo recensire; non vorrei rimanerne influenzato».
Nessun commento:
Posta un commento