Qui
convivevano fedi diverse e nel 2011 nacque la rivolta laica
pro-democrazia Ma oggi le sue strade sono terreno della guerra fra
islamisti e truppe di Assad
di Domenico Quirico La Stampa 18.11.14
Aleppo è
la mia città assassinata. Laggiù, ormai fuori del tempo ma eternamente
dentro il dolore, rigida, calcificata nelle sue rovine, coperta di
polvere e di morti.
L’ho vista molte volte in questi quattro anni
agonizzare, un grande organismo vigoroso e amorfo che respirava, si
agitava, mormorava e riempiva l’atmosfera del suo alito caldo,
ubriacante e torbido. Ora Aleppo è morta. Aleppo della rivoluzione,
Aleppo martire, Aleppo simbolo, Aleppo indomita, è stata sgozzata come
gli ostaggi del vicino oriente. Questa città ne era l’essenza, ciò che
ne rimaneva, come il precipitato di una reazione chimica.
L’ultimo
passaggio attraverso cui l’Armata Siriana Libera, anzi il poco che ne
resta, riforniva e raggiungeva la città, è caduto. La rivoluzione
siriana è davvero finita. Faccia a faccia restano i suoi assassini:
l’esercito di Bashar e le milizie dello Stato islamico. Stamane a Roma
Andrea Riccardi e la Comunità di Sant’Egidio promotori in giugno di un
appello per salvare la città teatro della coesistenza secolare tra
uomini che pregano dio chiamandolo con nomi diversi, richiameranno,
ancora una volta, attenzioni distratte a riflettere su delle grandi
tragedie di questo tempo. L’appello era stato firmato da premi Nobel,
personalità politiche e religiose, intellettuali. Ma ormai la
possibilità di ottenere una «città aperta» per salvarla e salvare coloro
che ancora ci vivono stritolati dal maglio della guerra civile, è
sfumata. Parliamo di morti.
Arrivavi ad Aleppo scivolando su un
tratturo tra dolci colline, poi imboccavi l’autostrada che aggira la
zona industriale a tutta velocità: perché qui i militari e gli «shabia»
uscivano spesso per montare, con i blindati, improvvisi e letali posti
di blocco. Non riuscivi neppure tu a spiegarti l’improvvisa vampata di
benessere quando superavi il primo presidio dei ribelli con la bandiera a
tre stelle vicino alla carcassa del carro armato distrutto, e poi, a
destra, come un monumento intangibile o il segnale sulla via, un altro
rottame, una jeep russa. Non era il pericolo scampato. Era la gioia del
viaggiatore che trova rifugio dopo un percorso burrascoso.
La prima
volta che vi entrai, ancora, nei quartieri controllati dagli insorti, si
organizzavano manifestazioni contro il regime; bambini marciavano in
testa, sembra incredibile raccontarlo, con striscioni che invocavano
libertà e dignità. Qualcuno alzava caricature del dittatore, «l’oca»
come lo chiamavano, o «l’oculista», per il collo lungo e per il vecchio
mestiere, prima di ereditare una tirannide.
L’oratore saliva su un
palco improvvisato e arringava la folla di quartiere, senza invocare
jihad, massacri, eliminazioni. Alla fine scandivano il «takbir», dio è
grande; ma era una richiesta di aiuto, non una maledizione. Era gente,
quella di Aleppo, che sognava più che una democrazia come la disegniamo
noi, uno stato di diritto, dove la gente non venisse arrestata perché si
era fatta crescer la barba o perché si riuniva in più di cinque
persone. E dove non ci volesse una autorizzazione dei mukabarat, torvi e
feroci agenti dei servizi di sicurezza, per sposarsi, e non si venisse
convocati perché i figli giocavano con le biglie, potenziale strumento
di rivolta. Anche questo accadeva nel regime.
Si combatteva, certo, e
duramente, sulla linea che divideva la città, i colpi della artiglieria
cadevano scintillando contro il cielo azzurro come un fiammifero
acceso. Ma si andava al fronte in taxi, automobili derelitte, con
l’autista che strappava gemiti al motore per passare di gran carriera le
zone sotto il tiro dei cecchini o guidava con il naso all’insù per
seguire le evoluzioni troppo pedanti di un elicottero assassino.
Ti
sentivi addosso gli occhi dei bambini allora, scintillanti di gioia
silenziosa anche se si viveva già cacciati sotto le rovine, inimicati
con la luce, con la chiarezza, con la verità. E la gente in strada era
portata via dal vento delle esplosioni in immensi frammenti, era
sotterrata nel cielo.
Come si uccide una città intera? A poco a
poco, smontandola. Dopo qualche mese camminavi nelle vie dei vecchi
quartieri ormai abbandonati come in fondo a uno stretto canyon,
sgusciando tra i rottami, i calcinacci, i fili della corrente elettrica
che pendevano come arterie recise. Era silenzio, solo lo scricchiolio
del vetri rotti sotto le tue scarpe e l’acqua che colava dalle tubature
esplose. Eppure trovavi ancora qualcuno che ti chiedeva: «Noi abbiamo
infranto il muro della paura. Quando lo farete anche voi europei, e ci
aiuterete?».
Sì, la rivoluzione non era ancora sfuggita di mano al
popolo siriano, non c’erano lugubri combattenti vestiti di nero che
parlavano male l’arabo, ma sapevano uccidere con flemmatica ferocia. Poi
la città, bagnata da un sole rovente, cominciò a coprirsi di una
maleodorante polvere che ristagnava in una densa nube e puzzava di
cordite. I bombardamenti da terra e dal cielo erano diventati continui, i
mortai con le «nail bomb» piene di chiodi colmavano gli spazi vuoti,
anche nel buio gli aerei passavano snelli e mortali contaminando la
notte. Le mitragliere e i traccianti li inseguivano, schizzando verso i
bersagli sconsolatamente in ritardo, come razzi al rallentatore.
La
città era divisa in due, il buio dei quartieri già rasi al suolo e la
luce di quelli dove ancora ci si batteva. Ora trovavi gente che ti
inchiodava con occhi gelidi, una nuova guerra fanatica e straniera si
era infiltrata dappertutto, come un verme in ogni cellula di questa
città.
I pochi amici ancora vivi ti salutavano con «dio eccomi», la
formula per l’arrivo alla Mecca: ci sottomettiamo a te. Era ormai un
turbine così profondo che nemmeno si scorgeva in qual senso vi si cade,
in profondità che non si vedono. La città muore, tutta quella vita
annega la fiamma e l’acciaio e si richiude e si riforma come il mare.
Quei volti che ho conosciuto laggiù ora non sono più che polvere e
pietre.
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