La mia impressione è che Bergoglio non sia all'altezza della crisi che il cattolicesimo sta attraversando nel mondo postmoderno [SGA].
Marco Politi: Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione, Laterza
Risvolto
È il leader più influente del pianeta. Si è prefisso un’impresa
gigantesca: riformare la curia e rinnovare la Chiesa. Ma dietro le
quinte la lotta è sempre più aspra. Il tempo è poco. La posta in gioco è
la fisionomia del cattolicesimo di domani.
Ha spezzato l’immagine di una Chiesa matrigna, ha rifiutato la pompa
imperiale, non conosce barriere tra credenti e non credenti, nessun
pontefice europeo ha vissuto come lui la miseria degli emarginati, è
vicino alle angosce di uomini e donne di ogni credo. È immerso nella
modernità, pratica la tenerezza e la compassione. Ma in Vaticano
crescono le resistenze ai suoi audaci programmi di rifondazione della
Chiesa come la partecipazione dei vescovi al governo ecclesiale,
l’inserimento di donne ai vertici decisionali, l’approccio nuovo a
divorziati e omosessuali. Ripulire lo Ior e le finanze vaticane è una
fatica immane. L’episcopato italiano è un problema per il papa
argentino. La rivoluzione è agli inizi: l’esito è incerto e il tempo non
è molto.
Francesco tra i lupi è la storia, mai raccontata prima, delle
sfide nascoste alla rivoluzione di Bergoglio e dell’opposizione al papa
più popolare dei nostri tempi, con particolari inediti sulla sua
elezione.
Il nuovo corso di Bergoglio e i suoi nemici
di Aldo Cazzullo Corriere 8.11.14
Ha
un titolo quasi profetico – Francesco tra i lupi – il libro pubblicato
da Laterza che Marco Politi ha dedicato a questo inizio del papato di
Bergoglio. Perché vi si prefigurano non solo le opposizioni che il Papa
riformatore deve affrontare all’interno della Chiesa, emerse
plasticamente durante il Sinodo della famiglia che si concluderà tra un
anno; ma perché indaga il clima culturale e politico in cui Francesco si
muove, dentro e fuori le mura vaticane. Un clima non sempre preparato
alla novità che l’elezione di Bergoglio porta con sé, e percorso talora
da umori «nostalgici» quando non palesemente ostili.
Politi,
vaticanista di lunga esperienza, ricostruisce il Conclave con passaggi
talora inediti. Nella Sistina si saldano l’esigenza di discontinuità, la
diffidenza verso gli italiani – per giunta divisi tra loro –, il
protagonismo degli americani che vorrebbero per la prima volta scegliere
un Papa non europeo. Alla fine anche una parte dei curiali converge su
Bergoglio. Però non tutti i suoi elettori sono pronti davvero a
supportare la stagione di radicale rinnovamento. C’è di più. In Vaticano
«si è formato un sistema di potere malsano che va smantellato», come
confida all’autore un diplomatico di lungo corso. C’è un’insofferenza
culturale e personale verso il Papa argentino, che disdegna gli antichi
simboli della carica, che spinge la sua rottura con il passato sino al
rifiuto di abitare l’Appartamento, che in Vaticano non è solo un luogo
fisico ma anche l’espressione per indicare la cerchia ristretta del
Pontefice. E c’è «una rete di rapporti personali e di interessi tra
persone spregiudicate di qua e di là del Tevere», come scrive Politi:
«Lupi rapaci», che vedono il papato di Bergoglio come una minaccia ai
loro interessi.
La proposta di riforma, compresa la partecipazione
dei divorziati e risposati alla vita della Chiesa e l’apertura agli
omosessuali, è stata criticata in modo aperto da cardinali importanti:
ma questo, sostiene Politi, è messo nel conto da Francesco, che «ha
bisogno di un’opposizione aperta», così come «ha bisogno di uno
schieramento riformatore, che faccia sentire la sua voce». Fa parte
della sua strategia che i cambiamenti non siano decisi in solitudine. Lo
preoccupa di più la «resistenza passiva» di chi ostacola senza esporsi,
«l’opposizione silenziosa» di chi teorizza: «Lasciamolo parlare», tanto
i Papi passano e la Curia resta.
Il loro calcolo potrebbe non
essere infondato. Nessuno può dire quanto durerà il papato di Bergoglio.
Il Pontefice è sano, le maldicenze circolate già durante il Conclave
sulla sua salute sono false. È un uomo pieno di energia. Ma non è un
uomo giovane. Il suo ex portavoce, padre Marcò, prevede che non abbia un
arco temporale molto lungo davanti a sé. Le dimissioni di Ratzinger
hanno di fatto introdotto nella Chiesa la figura del Papa emerito. Per
ora ovviamente Bergoglio non ci pensa. Ma, avverte Politi, il tempo a
sua disposizione è poco. Fin da ora si può dire però che in certe cose
la Chiesa non potrà tornare indietro. «Il successore – conclude l’autore
– tornerà probabilmente a vivere nell’appartamento papale, ma non potrà
più presentarsi con i paludamenti del passato. Soprattutto, non
riuscirà più a esercitare un potere autoritario senza limiti.
L’assolutismo imperiale dei pontefici è stato incrinato
irreversibilmente. Papa Francesco si è presentato al mondo come
discepolo di Gesù; dopo di lui è difficile che un Papa possa salire sul
trono pretendendo di essere il plenipotenziario di Cristo». Inoltre, è
stato calcolato che tra 5-6 anni Francesco avrà rinnovato più di metà
del Conclave e lascerà un collegio elettorale ulteriormente
mondializzato, in cui il peso dell’Europa e dell’Italia sarà destinato a
diminuire. I lupi hanno appena iniziato a far sentire il loro ululato. I
rischi di un fallimento delle riforme non sono vanificati. Ma fin da
ora si può prevedere che la traccia lasciata da Francesco nella storia
della Chiesa sarà profonda.
Quando il Papa disse “Riabilitiamo Dante è il sommo poeta cattolico”
In
un’enciclica del 1921, Benedetto XV rivendicava la fede della
“Commedia”, nonostante le dure critiche alla Chiesa. Anticipando alcune
aperture di Bergoglio Oggi alle 11 alla Casa di Dante (Roma)viene
presentata la Comedia di Dante con figure dipinte della Casa di Dante
(editrice Salerno) Presente Gianfranco Ravasi Domani alle 11 Lectio Dantis e conferenza di Massimo Cacciari
di Lucio Villari Repubblica 8.11.14
IL
30 aprile 1921, in un dopoguerra di inquietudini, fu resa nota agli
italiani una enciclica dal contenuto inatteso. Era dedicata a un poeta
ed era firmata da Benedetto XV, un pontefice di grande intelligenza
politica (aveva denunciato «l’inutile strage» della Prima guerra
mondiale). Il poeta era Dante, che, dopo secoli di dissenso, la Chiesa
intendeva riabilitare. L’enciclica In praeclara summorum è un inedito
omaggio alla religiosità cattolica di Dante, ma con allusioni precise
alla forza intellettuale della critica dantesca ai poteri della Chiesa,
la volontà di potenza dei papi, del clero corrotto.
Era una
riappropriazione, forse sperata da tempo in qualche segmento del
cattolicesimo, ma rinviata dopo la piena rivendicazione dell’opera
teorica e della poesia di Dante, vettori di libertà e verità per la
“nazione” italiana, da parte della cultura liberale e democratica e di
tutte le strutture ideali del Risorgimento. La nuova libertà d’Italia
era modellata anche sul rifiuto di Dante dei tanti poteri fraudolenti
della Chiesa, temporale e non. Benedetto XV non sapeva che otto anni
dopo, nel 1929, il suo successore avrebbe firmato cinicamente con lo
Stato fascista un patto illiberale. Ma da uomo di cultura Benedetto XV —
che per qualche aspetto pare precorrere le aperture di papa Francesco —
aveva intuito che un eventuale superamento di quel dissidio non poteva
non passare attraverso un dialogo con Dante.
Il papa parla di un uomo
che crede in Dio e in una Chiesa degna del suo ruolo universale, ma che
apre un varco alla critica storica della Chiesa. Dante lascia nel canto
XI del Paradiso il più grande elogio della povertà e della “mirabil
vita” di san Francesco e nel XXVII la più veemente invettiva di san
Pietro contro le degenerazioni della Chiesa e della figura stessa del
papa.
L’enciclica non poteva ignorare tutto questo, ma il testo
rivela una certa sofferenza di composizione. “Oltre” l’ideologia c’è,
secondo il pontefice, nel solo valore estetico della poesia di Dante il
varco aperto verso la dottrina cattolica: «Mentre non è scarso il numero
dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in
Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà
delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle
espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana
sapienza. […]. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo
di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra, e
certamente è assai più moderno di certi vati recenti».
In questo
tentativo vi erano delle intenzioni precise. Le parole dell’enciclica
riguardavano proprio il clima filosofico e politico italiano di quegli
anni, contrassegnati non solo dal superstite Modernismo ma dalla sempre
più incisiva presenza del pensiero di Benedetto Croce e della
progressiva laicizzazione della pubblica istruzione. Il confronto
culturale tra la cultura cattolica e quella liberale e laica stava
dunque per divenire una sfida ai più alti livelli. Dante poteva perciò
essere una prima trincea della dottrina cristiana posta sul terreno fino
a quel momento occupato da un Dante laico e risorgimentale. Bisognava
fare della Divina Commedia una testimonianza di fede. Di qui l’affondo
operativo: «Poiché sebbene in qualche luogo il “poema sacro” non sia
tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri
che devono essere più studiati, esso però non suole recare ai giovani
quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per
l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità
della fede come sarebbe necessario».
Pochi mesi prima della
pubblicazione dell’enciclica, nel settembre 1920, Croce dava alle stampe
La poesia di Dante. Questo saggio sarà per anni al centro di ampie
discussioni critiche, ma quel che contava in quel momento per la Chiesa è
che Croce era ministro della Pubblica istruzione e che il metodo
crociano apriva prospettive pedagogiche molto diverse da quelle sperate
da Benedetto XV. Le istruzioni alla lettura di Dante del ministro Croce
erano nette.
L’enciclica avrebbe dovuto essere una prima, immediata
risposta a queste istruzioni? C’è da pensarlo. Soprattutto leggendo
questo passaggio: «La sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di
divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei
mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la
giustizia e la provvidenza di Dio». Al contrario di quanto si possa
immaginare, questo discorso così problematico intorno a Dante è ancora
aperto, nella ricerca storica ed estetica e in quella teologica. L’umano
e il divino dantesco si fronteggiano sempre e attendono risposte
rinnovate.
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