sabato 8 novembre 2014

Un papa innocuo che piace sia alla sinistra che ai liberali. Cacciari ritenta la scalata al Soglio ma per vie laterali

Francesco tra i lupi
La mia impressione è che Bergoglio non sia all'altezza della crisi che il cattolicesimo sta attraversando nel mondo postmoderno [SGA].

Marco Politi: Francesco tra i lupi. Il segreto di una rivoluzione, Laterza

Risvolto
È il leader più influente del pianeta. Si è prefisso un’impresa gigantesca: riformare la curia e rinnovare la Chiesa. Ma dietro le quinte la lotta è sempre più aspra. Il tempo è poco. La posta in gioco è la fisionomia del cattolicesimo di domani.
Ha spezzato l’immagine di una Chiesa matrigna, ha rifiutato la pompa imperiale, non conosce barriere tra credenti e non credenti, nessun pontefice europeo ha vissuto come lui la miseria degli emarginati, è vicino alle angosce di uomini e donne di ogni credo. È immerso nella modernità, pratica la tenerezza e la compassione. Ma in Vaticano crescono le resistenze ai suoi audaci programmi di rifondazione della Chiesa come la partecipazione dei vescovi al governo ecclesiale, l’inserimento di donne ai vertici decisionali, l’approccio nuovo a divorziati e omosessuali. Ripulire lo Ior e le finanze vaticane è una fatica immane. L’episcopato italiano è un problema per il papa argentino. La rivoluzione è agli inizi: l’esito è incerto e il tempo non è molto.

Francesco tra i lupi è la storia, mai raccontata prima, delle sfide nascoste alla rivoluzione di Bergoglio e dell’opposizione al papa più popolare dei nostri tempi, con particolari inediti sulla sua elezione.



Il nuovo corso di Bergoglio e i suoi nemici

di Aldo Cazzullo Corriere 8.11.14
Ha un titolo quasi profetico – Francesco tra i lupi – il libro pubblicato da Laterza che Marco Politi ha dedicato a questo inizio del papato di Bergoglio. Perché vi si prefigurano non solo le opposizioni che il Papa riformatore deve affrontare all’interno della Chiesa, emerse plasticamente durante il Sinodo della famiglia che si concluderà tra un anno; ma perché indaga il clima culturale e politico in cui Francesco si muove, dentro e fuori le mura vaticane. Un clima non sempre preparato alla novità che l’elezione di Bergoglio porta con sé, e percorso talora da umori «nostalgici» quando non palesemente ostili. 
Politi, vaticanista di lunga esperienza, ricostruisce il Conclave con passaggi talora inediti. Nella Sistina si saldano l’esigenza di discontinuità, la diffidenza verso gli italiani – per giunta divisi tra loro –, il protagonismo degli americani che vorrebbero per la prima volta scegliere un Papa non europeo. Alla fine anche una parte dei curiali converge su Bergoglio. Però non tutti i suoi elettori sono pronti davvero a supportare la stagione di radicale rinnovamento. C’è di più. In Vaticano «si è formato un sistema di potere malsano che va smantellato», come confida all’autore un diplomatico di lungo corso. C’è un’insofferenza culturale e personale verso il Papa argentino, che disdegna gli antichi simboli della carica, che spinge la sua rottura con il passato sino al rifiuto di abitare l’Appartamento, che in Vaticano non è solo un luogo fisico ma anche l’espressione per indicare la cerchia ristretta del Pontefice. E c’è «una rete di rapporti personali e di interessi tra persone spregiudicate di qua e di là del Tevere», come scrive Politi: «Lupi rapaci», che vedono il papato di Bergoglio come una minaccia ai loro interessi. 
La proposta di riforma, compresa la partecipazione dei divorziati e risposati alla vita della Chiesa e l’apertura agli omosessuali, è stata criticata in modo aperto da cardinali importanti: ma questo, sostiene Politi, è messo nel conto da Francesco, che «ha bisogno di un’opposizione aperta», così come «ha bisogno di uno schieramento riformatore, che faccia sentire la sua voce». Fa parte della sua strategia che i cambiamenti non siano decisi in solitudine. Lo preoccupa di più la «resistenza passiva» di chi ostacola senza esporsi, «l’opposizione silenziosa» di chi teorizza: «Lasciamolo parlare», tanto i Papi passano e la Curia resta. 
Il loro calcolo potrebbe non essere infondato. Nessuno può dire quanto durerà il papato di Bergoglio. Il Pontefice è sano, le maldicenze circolate già durante il Conclave sulla sua salute sono false. È un uomo pieno di energia. Ma non è un uomo giovane. Il suo ex portavoce, padre Marcò, prevede che non abbia un arco temporale molto lungo davanti a sé. Le dimissioni di Ratzinger hanno di fatto introdotto nella Chiesa la figura del Papa emerito. Per ora ovviamente Bergoglio non ci pensa. Ma, avverte Politi, il tempo a sua disposizione è poco. Fin da ora si può dire però che in certe cose la Chiesa non potrà tornare indietro. «Il successore – conclude l’autore – tornerà probabilmente a vivere nell’appartamento papale, ma non potrà più presentarsi con i paludamenti del passato. Soprattutto, non riuscirà più a esercitare un potere autoritario senza limiti. L’assolutismo imperiale dei pontefici è stato incrinato irreversibilmente. Papa Francesco si è presentato al mondo come discepolo di Gesù; dopo di lui è difficile che un Papa possa salire sul trono pretendendo di essere il plenipotenziario di Cristo». Inoltre, è stato calcolato che tra 5-6 anni Francesco avrà rinnovato più di metà del Conclave e lascerà un collegio elettorale ulteriormente mondializzato, in cui il peso dell’Europa e dell’Italia sarà destinato a diminuire. I lupi hanno appena iniziato a far sentire il loro ululato. I rischi di un fallimento delle riforme non sono vanificati. Ma fin da ora si può prevedere che la traccia lasciata da Francesco nella storia della Chiesa sarà profonda.

Quando il Papa disse “Riabilitiamo Dante è il sommo poeta cattolico”
In un’enciclica del 1921, Benedetto XV rivendicava la fede della “Commedia”, nonostante le dure critiche alla Chiesa. Anticipando alcune aperture di Bergoglio Oggi alle 11 alla Casa di Dante (Roma)viene presentata la Comedia di Dante con figure dipinte della Casa di Dante (editrice Salerno) Presente Gianfranco Ravasi Domani alle 11 Lectio Dantis e conferenza di Massimo Cacciari
di Lucio Villari Repubblica 8.11.14
IL 30 aprile 1921, in un dopoguerra di inquietudini, fu resa nota agli italiani una enciclica dal contenuto inatteso. Era dedicata a un poeta ed era firmata da Benedetto XV, un pontefice di grande intelligenza politica (aveva denunciato «l’inutile strage» della Prima guerra mondiale). Il poeta era Dante, che, dopo secoli di dissenso, la Chiesa intendeva riabilitare. L’enciclica In praeclara summorum è un inedito omaggio alla religiosità cattolica di Dante, ma con allusioni precise alla forza intellettuale della critica dantesca ai poteri della Chiesa, la volontà di potenza dei papi, del clero corrotto.
Era una riappropriazione, forse sperata da tempo in qualche segmento del cattolicesimo, ma rinviata dopo la piena rivendicazione dell’opera teorica e della poesia di Dante, vettori di libertà e verità per la “nazione” italiana, da parte della cultura liberale e democratica e di tutte le strutture ideali del Risorgimento. La nuova libertà d’Italia era modellata anche sul rifiuto di Dante dei tanti poteri fraudolenti della Chiesa, temporale e non. Benedetto XV non sapeva che otto anni dopo, nel 1929, il suo successore avrebbe firmato cinicamente con lo Stato fascista un patto illiberale. Ma da uomo di cultura Benedetto XV — che per qualche aspetto pare precorrere le aperture di papa Francesco — aveva intuito che un eventuale superamento di quel dissidio non poteva non passare attraverso un dialogo con Dante.
Il papa parla di un uomo che crede in Dio e in una Chiesa degna del suo ruolo universale, ma che apre un varco alla critica storica della Chiesa. Dante lascia nel canto XI del Paradiso il più grande elogio della povertà e della “mirabil vita” di san Francesco e nel XXVII la più veemente invettiva di san Pietro contro le degenerazioni della Chiesa e della figura stessa del papa.
L’enciclica non poteva ignorare tutto questo, ma il testo rivela una certa sofferenza di composizione. “Oltre” l’ideologia c’è, secondo il pontefice, nel solo valore estetico della poesia di Dante il varco aperto verso la dottrina cattolica: «Mentre non è scarso il numero dei grandi poeti cattolici che uniscono l’utile al dilettevole, in Dante è singolare il fatto che, affascinando il lettore con la varietà delle immagini, con la vivezza dei colori, con la grandiosità delle espressioni e dei pensieri, lo trascina all’amore della cristiana sapienza. […]. Perciò egli, quantunque separato da noi da un intervallo di secoli, conserva ancora la freschezza di un poeta dell’età nostra, e certamente è assai più moderno di certi vati recenti».
In questo tentativo vi erano delle intenzioni precise. Le parole dell’enciclica riguardavano proprio il clima filosofico e politico italiano di quegli anni, contrassegnati non solo dal superstite Modernismo ma dalla sempre più incisiva presenza del pensiero di Benedetto Croce e della progressiva laicizzazione della pubblica istruzione. Il confronto culturale tra la cultura cattolica e quella liberale e laica stava dunque per divenire una sfida ai più alti livelli. Dante poteva perciò essere una prima trincea della dottrina cristiana posta sul terreno fino a quel momento occupato da un Dante laico e risorgimentale. Bisognava fare della Divina Commedia una testimonianza di fede. Di qui l’affondo operativo: «Poiché sebbene in qualche luogo il “poema sacro” non sia tenuto lontano dalle scuole pubbliche e sia anzi annoverato fra i libri che devono essere più studiati, esso però non suole recare ai giovani quel vitale nutrimento che è destinato a produrre, in quanto essi, per l’indirizzo difettoso degli studi, non sono disposti verso la verità della fede come sarebbe necessario».
Pochi mesi prima della pubblicazione dell’enciclica, nel settembre 1920, Croce dava alle stampe La poesia di Dante. Questo saggio sarà per anni al centro di ampie discussioni critiche, ma quel che contava in quel momento per la Chiesa è che Croce era ministro della Pubblica istruzione e che il metodo crociano apriva prospettive pedagogiche molto diverse da quelle sperate da Benedetto XV. Le istruzioni alla lettura di Dante del ministro Croce erano nette.
L’enciclica avrebbe dovuto essere una prima, immediata risposta a queste istruzioni? C’è da pensarlo. Soprattutto leggendo questo passaggio: «La sua Commedia, che meritatamente ebbe il titolo di divina, pur nelle varie finzioni simboliche e nei ricordi della vita dei mortali sulla terra, ad altro fine non mira se non a glorificare la giustizia e la provvidenza di Dio». Al contrario di quanto si possa immaginare, questo discorso così problematico intorno a Dante è ancora aperto, nella ricerca storica ed estetica e in quella teologica. L’umano e il divino dantesco si fronteggiano sempre e attendono risposte rinnovate.

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