giovedì 13 novembre 2014

Una dissacrante biografia di Schubert

Sandro Cappelletto: Da straniero inizio il cammino. Schubert, l’ultimo anno, Edizioni Accademia Perosi, pp. 244, € 24


Genio, sregolatezza e ragazzini Schubert come fu veramente 
La biografia di Cappelletto smonta il mito romantico del grande compositore

Vittorio Sabadin La Stampa 12 11 2014

Le idee sbagliate che ci siamo fatti su Franz Schubert e i pregiudizi che ancora circondano la sua musica sono duri a morire. Un bel libro di Sandro Cappelletto (Da straniero inizio il cammino. Schubert, l’ultimo anno, Edizioni Accademia Perosi, pp. 244, € 24, con un cd musicale) contribuisce a fare chiarezza e a dirci anche quello che non vorremmo ascoltare, e che per tanto tempo è stato volutamente ignorato. Ancora oggi, le biografie distribuite ai turisti a Vienna ci parlano di un tenero eroe romantico, per tutta la vita afflitto dalla mancanza del suo amore perduto, il soprano Terese Grob, andata in sposa a un panettiere. Le malinconie, le tristezze, le depressioni che la sua musica emana sarebbero tutte figlie di questa perenne disperazione, aggravata da un secondo rifiuto, quello della contessa Karoline Esterházy.
Ma le cose non sono andate così. Il compositore dell’Ave Maria, il brano religioso più noto e più eseguito al mondo, non amava le donne. Non esistono sue lettere a donne, né lettere di donne a lui. Schubert era sporco, puzzava di tabacco e di vino, era brutto, alto poco più di un metro e cinquanta. Non aveva denaro, non possedeva una casa e dormiva dagli amici o dai parenti. Non si preoccupava del futuro, non aveva scadenze né vincoli. L’autore di 23 toccanti sonate per piano non aveva nemmeno un pianoforte. Contrasse la sifilide nel 1822, sei anni prima di morire. Li passò in buona parte ricoperto di eruzioni cutanee, con i capelli che gli cadevano a ciocche e lo costringevano a portare una parrucca. Era privo di inibizioni e aveva una passionalità morbosa e sfrenata che sfogava con i ragazzini, «i giovani pavoni» dei quali diceva di sentire continuamente il bisogno. 
Gli storici e i critici della musica si interrogano da tempo su quanto la vita dei grandi compositori ne abbia modellato la musica, o se invece il Destino abbia affidato a ognuno di loro un compito, che si sarebbe realizzato comunque, qualunque tipo di vita avessero avuto. Cappelletto fa bene a porsi questa domanda per Schubert, perché per nessun altro autore l’interrogativo è così pertinente, e la risposta così difficile. La continua ricerca del piacere era l’altra faccia della sua ebbrezza creativa? La malattia è all’origine dell’ispirazione dello Schubert estremo? I suoi lavori più intensi hanno radici nel desiderio di autodistruzione di un artista maledetto? Ci sono buone ragioni per pensarlo. Ma ce ne sono altre che ci fanno credere a una ispirazione totalmente estranea, priva di origine e di scopo. 
L’aggettivo che più ricorre, quando si parla di Schubert, è «libero». Il grande pianista Anton Rubinstein diceva di lui che «canta come gli uccelli cantano, sempre senza sosta, da un cuore pieno, da una gola piena, che gli è stata data così». È il primo compositore moderno – annota Cappelletto – capace di narrare la depressione e l’angoscia. La sua musica è come la vita, a volte gioiosa e a volte disperata, pronta ad andare in direzioni impreviste, senza più l’ancora della «tonica» alla quale si era aggrappato prima di lui il classicismo. Un altro famoso pianista, Alfred Brendel, ha sottolineato come «con le sonate di Beethoven non perdiamo mai l’orientamento; le sonate di Schubert sono invece disarmanti, ingenue, casuali». Robert Schumann lo considerava il più ardito e libero spirito tra i musicisti. «Aveva un carattere di fanciulla, più loquace, più tenero e ampio di Beethoven. Beethoven comanda, lui prega e persuade». 
Cappelletto indaga con tenerezza nell’ultimo anno di Schubert, nell’unico concerto in suo nome mai dato, il 26 marzo del 1828, nella nascita dei maggiori capolavori, dai 24 Lieder di «Winterreise» alle sinfonie scritte e mai rappresentate, ritrovate da Schumann a casa del fratello Ferdinand. In vita, al di fuori della cerchia di amici, quasi nessuno si accorse di lui: Vienna amava Rossini e Paganini; delle sue 23 sonate, solo tre erano state pubblicate. Per riscoprirlo ci volle Schumann e poi Schnabel, Brendel, Serkin, Pollini. 
Morì a casa del fratello, alle 3 del mattino del 19 novembre del 1828, all’età di 31 anni. Nell’ultima lettera, chiese all’amico Franz von Schober di fargli avere altri libri di James Fenimore Cooper: aveva già letto L’ultimo dei Mohicani, I coloni, La spia e desiderava perdersi in altre avventure. Lasciò agli eredi alcune paia di scarpe, qualche vestito, un lenzuolo di lino, un materasso, due federe, alcune decine di fiorini, nessun pianoforte. Inutile chiedersi che cosa avrebbe potuto comporre se fosse vissuto di più: Cappelletto conclude affermando che «ha fatto abbastanza», giungendo alle colonne d’Ercole del classicismo e indicando la via di un nuovo oceano a chi avesse voluto percorrerla. E tutti quelli che lo hanno seguito, anche se raramente lo hanno ammesso, gli devono qualcosa.

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