martedì 11 novembre 2014

Una storia dei GAP


Santo Peli: Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, pagg. 280, euro 30

Risvolto
l primo vero resoconto storico dei Gap, i «Gruppi di azione patriottica» nella Resistenza italiana: partendo da documenti d'archivio ancora inediti, Santo Peli ricostruisce un fenomeno complesso e controverso, in gran parte ancora inesplorato.
I Gap, componente esigua ma rilevante del movimento di Resistenza, occupano un posto marginale nella memoria collettiva e nella storiografia resistenziale. Due ragioni spiegano tale marginalità: da un lato i Gap combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, cioè con uccisioni mirate di singoli individui e con attentati dinamitardi; dall'altro sono organizzati e diretti dal Partito comunista, e dunque restano, durante e dopo la Resistenza, connotati politicamente in modo molto piú marcato delle altre formazioni partigiane. Quella dei Gap viene dunque in prevalenza percepita come «un'altra storia», su cui si sono esercitati anatemi con piú virulenza che sulla Resistenza in generale. Nell'immaginario collettivo, alcuni dei piú intricati nodi politici ed etici della lotta resistenziale messi in evidenza dalla pratica del terrorismo urbano continuano, ancor oggi, ad essere schiacciati tra deprecazioni calunniose e acritiche esaltazioni, che prescindono da una reale conoscenza dei fatti. Per la prima volta, origini, sviluppo, difficoltà, successi e fallimenti dei Gap vengono analizzati nell'unico contesto che li rende comprensibili, nella storia della Resistenza. Le condizioni esistenziali e materiali nelle quali i Gap agiscono, le risorse di cui dispongono, la difficile decisione di uccidere a sangue freddo, e i diversi modi in cui si pongono il problema delle rappresaglie, della tortura, della morte, escono finalmente dal mito e dalla demonizzazione liquidatoria.
Nell'aprile 1943 Antonio Roasio, uno dei tre responsabili del centro interno del Partito comunista, invia una lettera «strettamente riservata» alle organizzazioni regionali, in cui fa presente a tutte le strutture di partito l'urgente necessità di attrezzare «i militanti alla lotta armata a mezzo dell'organizzazione di "Gruppi di azione patriottica", capaci di condurre azioni di sabotaggio delle attrezzature militari contro i massimi dirigenti del partito fascista». Il primo documento scritto in cui si fa riferimento ai Gap è, con ogni probabilità, proprio questo. A livello pratico, però, le prime iniziative concrete verranno messe in atto solo dopo l'armistizio dell'8 settembre che, imponendo un brusco cambiamento della situazione generale italiana, riportò in primo piano l'esigenza di organizzare concretamente la guerra di liberazione. A partire dal racconto degli attentati piú eclatanti - dal colonnello Gobbi al questore Nicolini Santamaria - Santo Peli ripercorre con rigore e imparzialità l'intera vicenda dei Gap per superare le molte «leggende» e restituire ai lettori una ricostruzione lontana dalla retorica e dalla speculazione. Dai profili biografici dei protagonisti alle questioni cruciali - il rapporto fra gappismo e resistenza armata, il tema della rappresaglia, il problema del consenso fra la popolazione - dalla lotta partigiana alle ripercussioni sul nostro passato recente, questo libro colma una lacuna rilevante nel panorama dell'analisi storica del nostro Paese.

Storia dei Gap partigiani oltre il mito e l’ortodossia

Per la prima volta ricostruite in un saggio di Santo Peli le controverse azioni di guerriglia attuate durante la Resistenza Né santi, ma neppure demoni. Per un paio di decenni si preferì rimuovere un argomento percepito come spinoso

di Simonetta Fiori Repubblica 11.11.14
CE LI avevano raccontati come eroi granitici, l’avanguardia della lotta partigiana, guerriglieri pronti a sparare a sangue freddo. Una nuova ricerca restituisce uomini e donne dei Gap alla tempesta sentimentale e morale che attraversò le loro vite, alle incertezze, agli errori, alle goffaggini, ai comprensibili cedimenti e anche ai tradimenti che ne correggono la mitografia resistenziale. Né santi ma neppure demoni sfigurati dall’anti- antifascismo in voga negli ultimi decenni. In Storie dei Gap, il primo tentativo di ricostruire le vicende dei Gruppi di Azione Patriottica, Santo Peli evita sia l’enfasi celebrativa che la deprecazione strumentale.

Perché abbiamo aspettato settant’anni per leggere una ricostruzione storica il più possibile completa? Quella dei Gap è sempre stata percepita come “un’altra storia” rispetto all’esperienza partigiana, sia per l’ortodossia comunista dei suoi militanti sia per la specificità delle azioni: guerriglia in città, che poi significa uccisioni visàvis e attentati dinamitardi in ristoranti, caffè e bordelli frequentati dai nazifascisti. Modalità classicamente terroristiche, che avevano lo scopo di portare scompiglio nelle città del Centro-Nord occupate dai nazisti nell’autunno del 1943. Per un paio di decenni, nel dopoguerra, si preferì rimuovere un argomento percepito come spinoso. Il silenzio durò fino ai primi anni Settanta, quando proprio nel circuito culturale degli istituti resistenziali cominciarono ad apparire le prime ricerche. Ma fu allora che irruppero sulla scena le Brigate Rosse e varie sigle terroristiche che rivendicavano assurdamente perfino nel nome una continuità politica e culturale con gli antichi liberatori. A queste farneticanti genealogie, nota Santo Peli, si sarebbe dovuto rispondere con ricerche storiche rigorose. Prevalse invece la rimozione, interrotta in modo frammentario dalla memorialistica dei protagonisti.
Nella sua accurata e partecipe ricostruzione, lo storico non sfugge alle domande più insidiose, a cominciare dal nesso attentato e rappresaglia. Chi sono i gappisti, eroici giustizieri o irresponsabili provocatori della violenza nazista? E le rappresaglie naziste sono soltanto conseguenze o obiettivo consapevolmente perseguito dai Gap? La risposta dello studioso è che la rappresaglia fu sì un obiettivo, «un elemento dolorosamente utile », ma solo nelle primissime azioni (fino alla fine del 1943), quando si trattava di rivelare nelle città del Centro-Nord il vero volto dell’occupazione. Una “pedagogia impietosa” che però non può essere estesa all’intera vicenda dei Gap, se non con un intento criminalizzante. E la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo del 1944, è la dimostrazione più nitida della feroce determinazione tedesca indipendente dall’attentato gappista.
Il problema del consenso della popolazione si pose fin dal principio, dall’assassinio di Gino Gobbi, comandante del distretto militare a Firenze, il primo dicembre del 1943. Gobbi viene ucciso mentre fa rientro a casa in tram: è solo, disarmato, senza scorta. I fiorentini reagiscono tra stupore, timore per le conseguenze, anche speranza. Alla condanna dei “deplorevoli eccessi” da parte del cardinal Elia Dalla Costa replica il dirigente azionista Enzo Enriquez Agnoletti: «Lei non può Eminenza, che in questo momento uomini nostri fratelli subiscono torture che fanno vergogna all’umanità». Insomma, niente ipocrisie: la guerra incalza.
Il dibattito sull’opportunità e sulle conseguenze degli attentati fu molto vivace non solo all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale, ma anche nella stessa base del Pci. La “paura fisica” e le “perplessità morali” non erano una prerogativa degli altri partiti antifascisti. La Direzione comunista faticò moltissimo a organizzare i Gap, per lo più giovani e giovanissimi senza carichi famigliari. E i risultati del reclutamento furono di gran lunga inferiori alle aspettative. Nel tardo autunno del 1943 gli autori degli attentati non arrivarono a un centinaio di persone. Influivano non solo le avverse condizioni della lotta in città — isolamento, clandestinità, azioni ad alto rischio — ma anche le remore morali legate all’uccisione di un uomo. «Questo qua vuole farci ammazzare la gente. Ma è pazzo?», reagisce un operaio di Brescia alla richiesta del compagno “Zolfataro”. Sono tanti quelli che non riescono a sparare, la pistola che scivola dalla mano sudata, il tremore del corpo che ne trattiene il gesto. A Roma come a Milano, a Torino come a Firenze.
Il gruppo dirigente del Pci reagisce con stizza e meraviglia. Piovono accuse di incapacità e “attendismo” contro i compagni, perfino di “tradimento”. A Sant’Arcangelo e a Cattolica si arriva all’espulsione. Solo diversi anni più tardi, Pietro Secchia avrebbe riconosciuto che la volontà di uccidere — per di più in attacco, senza la necessità di difendersi — è estranea alla formazione, alla cultura e alle tradizioni operaie. «È difficile uccidere a sangue freddo un uomo che non si conosce », si sfoga con Giorgio Amendola un compagno paralizzato davanti a un bersaglio tedesco. E ancora, il gappista Uragano: «È vero, sono dei delinquenti, però non ho l’animo di farli fuori». Anche il soldato nazista è un essere umano, «vittima di un sistema e dunque degno di pietà». Affiora l’immagine delle loro mogli, dei bambini biondi che li aspettano a casa.
Alla remora morale s’aggiunge il timore di restare “intrappolati”. E più della morte fa paura la tortura, soprattutto il dubbio di non saper resistere. Questo è un altro capitolo scivoloso, oscurato dalla mitografia comunista. In realtà a resistere furono in pochi. Uomini e donne straordinari, che subirono in silenzio sevizie di ogni genere. Soprattutto le donne, le staffette, esposte ancora più dei compagni all’abuso sessuale del corpo. Ma una gran parte dei gappisti torturati parlò, perché è nell’umana natura cedere all’acqua bollenignorare, te in gola o alle trapanature sulla pelle. Le cadute a catena che devastarono il movimento — ci dice Peli — furono provocate da confessioni estorte. Alcuni prigionieri trovarono salvezza nel suicidio, più uomini che donne. Altri cercarono di resistere finché poterono, come Francesco Valentino, che sopportò a Torino le sevizie per 24 ore, per dare il tempo di fuggire al suo compagno Dante Di Nanni: questi però non lasciò il covo, pensando che Valentino fosse morto e non potesse più parlare, e catturato dai tedeschi si sarebbe gettato dal balcone in un’azione diventata poi leggenda. Scoperto il “cedimento” di Valentino, peraltro morto impiccato per mano repubblichina, il Pci non esitò a espungerlo dalla storia partigiana. Parlare sotto tortura sarebbe stata per svariati decenni una colpa inammissibile. Uno stigma vergognoso. O eroi o niente. E per chi non è un martire non c’è memoria.
Se c’è un filo che attraversa queste storie è proprio la distanza tra la rigidità ideologica del vertice comunista e la disordinata generosità dei combattenti che spesso sono lasciati soli e dunque più esposti a errori grossolani. Anche quello della clandestinità è un mito da rivedere. Ovunque i gappisti appartengono ad ambienti sociali omogenei — operai a Milano e Torino, intellettuali a Roma — , fanno vita di quartiere tra San Frediano a Firenze, Sesto San Giovanni a Milano, il centro storico a Roma. E spesso ci si conosce fin dall’infanzia. Le regole classiche della cospirazione si infrangono contro consolidati rituali famigliari, anche per la mancanza di sostegni finanziari e logistici che il Pci non è in grado di garantire. Qui si inserisce l’altra delicata questione che riguarda gli «espropri» o i «recuperi» per i finanziamenti. Tra l’esproprio per necessità e la delinquenza a scopo di lucro s’estende una vasta terra di nessuno su cui lo storico non è in grado di fare luce: il confine può risultare labile, anche perché tra gli arruolati figuravano elementi assai poco raccomandabili.
Il tema sarebbe stato omesso della storiografia che non ha mai parlato neppure dell’epica rapina agli uffici della stazione di Santa Maria Novella, il 17 giugno del 1944. Trentatré milioni di lire, una cifra da capogiro. Per ciascun membro dei Gap significa una bicicletta, un orologio e un vestito nuovi. Ma non era più l’epoca degli agguati in bici. La repressione nazista richiedeva ben altri mezzi, la stagione eroica dei Gap ormai alle spalle.
L’invenzione di un tipo umano: il terrorista Resistenza. Nella storia dei gap di Santo Peli, tentativi e fallimenti nelle azioni di piccoli gruppi, presto disintegrati da errori e tradimenti; ma si contarono anche gesti eroici, soprattutto fra le donneAdriano Prosperi, il Manifesto 28.12.2014
Un libro di sto­ria che ha nel titolo la parola «ter­ro­ri­smo» è una occa­sione da non per­dere. Viviamo immersi in un pre­sente senza tempo: l’orizzonte è occu­pato da una spe­cie di terza guerra mon­diale con­tro il ter­ro­ri­smo. I «Guan­tà­namo files» docu­men­tano quante e quali tor­ture siano state pra­ti­cate nel ter­ri­to­rio extra-legem della con­ces­sione strap­pata a Cuba dall’imperialismo ame­ri­cano del primo ‘900 men­tre giu­dici e governo degli Stati Uniti chiu­de­vano gli occhi e la cul­tura giu­ri­dica del paese abi­tuato a defi­nirsi orgo­glio­sa­mente «gover­nato dalla legge» sci­vo­lava verso gli abissi della legit­ti­ma­zione di trat­ta­menti degra­danti in nome della guerra al ter­ro­ri­smo. E ora, ecco che lo sto­rico Santo Peli pro­pone di col­le­gare la Resi­stenza col ter­ro­ri­smo in Sto­rie di Gap Ter­ro­ri­smo urbano e Resi­stenza (Einaudi, pp. VIII-280, euro 30,00).
La Resi­stenza è un’epopea di mon­ta­gna, non la si può imma­gi­nare senza pae­saggi alpini. Lo dicono le sue can­zoni: «Dalle belle città date al nemico/ fug­gimmo un dì su per l’aride mon­ta­gne»: ma se il par­ti­giano fosse rima­sto sulla mon­ta­gna, magari sepolto «sotto l’ombra di un bel fior», la sto­ria dell’Italia sarebbe stata diversa. Nes­suno si sarebbe accorto che c’era una guerra civile, così come nes­suno seppe allora della depor­ta­zione degli ebrei del ghetto di Roma o della strage di Meina. Gli occu­panti tede­schi ave­vano tutto l’interesse a tenere all’oscuro la popo­la­zione e a pre­sen­tarsi come i tutori dell’ordine che il regime repub­bli­chino non era in grado di garan­tire. Così all’arrivo degli alleati gli ita­liani sareb­bero usciti dai rifugi anti­ae­rei né più né meno come vi erano entrati. Fu pen­sando a come tra­sfor­mare la guerra in rivo­lu­zione sociale e poli­tica che a fine set­tem­bre 1943 il Par­tito comu­ni­sta dette vita, accanto al modello orga­niz­za­tivo delle nascenti bri­gate Gari­baldi, alla costi­tu­zione dei Gap, gruppi d’azione patriot­tica: accanto al modello iugo­slavo della guerra per bande i comu­ni­sti si impor­tava così in Ita­lia quello fran­cese dei «Francs-tireurs et par­ti­sans».
Il colore ita­liano lo dava l’epopea risor­gi­men­tale: il nome di Gari­baldi, l’evocazione dei «patrioti», la Resi­stenza come secondo Risor­gi­mento. In realtà quello che fu orga­niz­zato coi Gap fu un pro­getto di ter­ro­ri­smo urbano. Fu voluto e attuato «solo dal par­tito comu­ni­sta», come scrisse Pie­tro Sec­chia : anche se non man­ca­rono apporti signi­fi­ca­tivi del Par­tito d’azione e del Par­tito socia­li­sta. Tema duro e dif­fi­cile: finora nes­suno lo aveva per­corso in modo siste­ma­tico. Dif­fi­cile per la man­canza o la disper­sione delle fonti, che ren­dono impos­si­bile una rico­stru­zione det­ta­gliata capace di mostrare i fili che con­net­tono tante sto­rie di indi­vi­dui e di pic­coli gruppi; ma dif­fi­cile anche per ragioni ine­renti il feno­meno del ter­ro­ri­smo. In que­sto libro appare straor­di­na­ria­mente inte­res­sante l’analisi di come fu creato il ter­ro­ri­sta quale tipo umano. C’è un sen­ti­mento comune, una repul­sione che scatta davanti al com­pito di ucci­dere a san­gue freddo una per­sona che non si cono­sce. L’odio con­tro un fasci­sta, come il colon­nello Inga­ramo, una spia come il Pol­la­stra (Bruno Landi) o Nello Nocen­tini, un tor­tu­ra­tore come il mag­giore Carità, era una spinta suf­fi­ciente all’azione: si poteva con­tare anche sulla appro­va­zione del quar­tiere popo­lare anti­fa­sci­sta. Ma per­ché ucci­dere a freddo un vec­chio pro­fes­sore indi­feso, come Gio­vanni Gen­tile? O un sol­dato tede­sco, un gio­vane uomo ignaro e senza altra colpa che di essere un occu­pante stra­niero? Non ci fu certo il tempo di sele­zio­nare e adde­strare i mem­bri delle Gap. Da qui gli epi­sodi di atten­tati fal­liti per l’invincibile dif­fi­coltà a diven­tare un assas­sino di per­sone sco­no­sciute e indi­fese. Eppure non c’è dub­bio che la neces­sità sto­rica e poli­tica della discesa della guerra civile nelle città esce con­fer­mata dallo stu­dio di Peli e le vicende indi­vi­duali da lui rico­struite ci ripor­tano il sapore aspro del risve­glio a caro prezzo degli ita­liani dall’attendismo, dalla tor­pida quiete ven­ten­nale del regime.
Quando i Gap comin­cia­rono a ucci­dere non solo fasci­sti ita­liani ma anche sol­dati tede­schi si sca­tenò, come pre­vi­sto, la rea­zione in forma di rap­pre­sa­glie. E la popo­la­zione ita­liana, dura­mente risve­gliata dall’assuefazione al regime di occu­pa­zione tede­sca appa­ren­te­mente paci­fica, pagò prezzi di san­gue. Si apri­rono da allora ferite dif­fi­cili da rimar­gi­nare: sap­piamo bene quale lunga scia di pole­mi­che abbia lasciato l’episodio che portò alle Fosse Ardea­tine e quanto inchio­stro con­ti­nui a scor­rere ancora intorno all’uccisione di Gio­vanni Gen­tile. Da qui emerge un pro­blema gene­rale attua­lis­simo, di cui Santo Peli illu­mina la natura tra­gica: la dif­fi­coltà di creare il ter­ro­ri­sta come tipo umano capace di ucci­dere a freddo, di met­tere nel conto il prezzo di vite inno­centi che sarà pagato.
Leg­gendo le sue pagine viene in mente una scena del film di Gillo Pon­te­corvo, La bat­ta­glia di Algeri: quella della donna che mette la bomba in un mer­cato dove stanno entrando donne e bam­bini. Nella Resi­stenza ita­liana rac­con­tata da Santo Peli incon­triamo donne e uomini a cui si dovette inse­gnare a supe­rare la repul­sione istin­tiva a ucci­dere a tra­di­mento per­sone sco­no­sciute. Impa­rare ad ammaz­zare qual­cuno senza l’impulso dell’offesa da risar­cire o della neces­sità di difen­dersi voleva dire pas­sare dal tipo del par­ti­giano (il nemico asso­luto, come l’ha defi­nito Carl Sch­mitt) all’altro e ben diverso livello, quello del ter­ro­ri­sta. E non fu facile creare que­sto nuovo tipo umano. Lo si vide ripe­tu­ta­mente nella sto­ria delle azioni di quei mesi, quando i primi mem­bri dei Gap non riu­sci­vano a pre­mere il gril­letto; erano per­sone di indi­scu­ti­bile valore e deter­mi­na­zione, ma nel momento deci­sivo li bloc­cava un istinto, un inter­detto morale pro­fon­da­mente radi­cato.
Di fatto l’esperimento dei Gap fu breve, limi­tato a pochi gruppi o indi­vi­dui, minato da una incre­di­bile povertà e pre­ca­rietà di mezzi: si pensi che i gap­pi­sti che il 1° dicem­bre 1943 ucci­sero a Firenze Gino Gobbi, il coman­dante del distretto mili­tare, ave­vano due bici­clette in quat­tro e due pistole malan­date di cui una si inceppò. Quelli che a Roma ucci­sero un mili­tare tede­sco dovet­tero ser­virsi di trin­cetti da cal­zo­laio. La sto­ria dei Gap rico­struita con una ricerca paziente e accu­rata da Santo Peli fu una suc­ces­sione di ten­ta­tivi e di fal­li­menti, di pic­coli gruppi pre­sto disin­te­grati da errori e tra­di­menti; ma fu anche sto­ria di eroi­smi straor­di­nari, in cui bril­la­rono spe­cial­mente le donne. E comun­que la resi­stenza a ucci­dere i tede­schi rimase come un osta­colo dif­fi­cile da supe­rare anche quando la lotta dalle città si tra­sferì alle cam­pa­gne. Il che avvenne nell’estate del ‘44 . Fu a que­sto punto che, con­clusa la sta­gione dei Gap, entrò in scena un nuovo pro­getto stra­te­gico, quello delle Sap.
Per dare vita all’insurrezione di popolo come vero momento di libe­ra­zione nazio­nale il ter­ro­ri­smo non bastava. Biso­gnava esten­dere la rivolta, coin­vol­gere la popo­la­zione. Que­sta l’idea di Togliatti nell’appello lan­ciato da Napoli il 6 giu­gno 1944. Fu la svolta che portò alla costi­tu­zione delle Sap: squa­dre reclu­tate dal pro­le­ta­riato di fab­brica delle città del trian­golo indu­striale, o dalle masse con­ta­dine dell’Emilia Roma­gna. Que­ste squa­dre svol­sero un’azione di attacco con­tro nemici fasci­sti e occu­panti tede­schi legan­dola però a com­piti di aiuto alla popo­la­zione. A Torino, a Milano, ven­nero abbat­tuti alberi seco­lari per por­tare legname alle fami­glie: e fu ancora a Torino che furono pre­le­vati e distri­buiti sei quin­tali di sale da parte dei sap­pi­sti.
I pro­ta­go­ni­sti cam­biano, non sono più i vec­chi mili­tanti (trenta-quarantenni in realtà): i mem­bri della bri­gata geno­vese dei Balilla sono ragazzi di vent’anni e anche meno. Quando il ter­ro­ri­smo si muove nelle cam­pa­gne non è più quello delle pic­cole unità iso­late che si muo­vono nel buio delle notti tra i vicoli cit­ta­dini: quello che nasce e si svi­luppa con le Sap è una guerra con­ta­dina con­tro il nemico di classe, un feno­meno di massa dove chi agi­sce può con­tare sulla soli­da­rietà e sull’aiuto della popo­la­zione. Que­ste pagine ci gui­dano nelle cam­pa­gne emi­liane, distin­guono con mano sicura le dif­fe­renze tra il mode­nese, il fer­ra­rese e il reggiano.

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