l primo vero resoconto storico dei Gap, i «Gruppi di azione
patriottica» nella Resistenza italiana: partendo da documenti
d'archivio ancora inediti, Santo Peli ricostruisce un fenomeno complesso
e controverso, in gran parte ancora inesplorato.
I Gap, componente esigua ma rilevante del movimento di Resistenza,
occupano un posto marginale nella memoria collettiva e nella
storiografia
resistenziale. Due ragioni spiegano tale marginalità: da un lato i Gap
combattono secondo le modalità classiche del terrorismo, cioè con
uccisioni
mirate di singoli individui e con attentati dinamitardi; dall'altro sono
organizzati e diretti dal Partito comunista, e dunque restano, durante e
dopo la Resistenza, connotati politicamente in modo molto piú marcato
delle altre formazioni partigiane. Quella dei Gap viene dunque in
prevalenza
percepita come «un'altra storia», su cui si sono esercitati anatemi con
piú
virulenza che sulla Resistenza in generale. Nell'immaginario collettivo,
alcuni dei piú intricati nodi politici ed etici della lotta
resistenziale messi in evidenza dalla pratica del terrorismo urbano
continuano, ancor oggi, ad essere schiacciati tra deprecazioni
calunniose e acritiche esaltazioni, che prescindono da una reale
conoscenza dei fatti. Per la prima volta,
origini, sviluppo, difficoltà, successi e fallimenti dei Gap vengono
analizzati nell'unico contesto che li rende comprensibili, nella storia
della Resistenza. Le condizioni esistenziali e materiali nelle quali i
Gap agiscono, le risorse di cui dispongono, la difficile decisione di
uccidere a sangue freddo, e i diversi modi in cui si pongono il problema
delle rappresaglie, della tortura, della morte, escono finalmente dal
mito e dalla demonizzazione liquidatoria.
Nell'aprile 1943 Antonio Roasio, uno
dei tre responsabili del centro interno
del Partito comunista, invia una lettera
«strettamente riservata» alle organizzazioni regionali, in cui fa
presente a tutte
le strutture di partito l'urgente necessità
di attrezzare «i militanti alla lotta armata a mezzo dell'organizzazione
di "Gruppi di azione patriottica", capaci di condurre azioni di
sabotaggio delle attrezzature militari contro i massimi dirigenti
del partito fascista». Il primo documento scritto in cui si fa
riferimento ai Gap
è, con ogni probabilità, proprio questo.
A livello pratico, però, le prime iniziative concrete verranno messe in
atto solo dopo l'armistizio dell'8 settembre che,
imponendo un brusco cambiamento
della situazione generale italiana, riportò in primo piano l'esigenza di
organizzare concretamente la guerra di liberazione. A partire dal
racconto degli attentati piú eclatanti - dal colonnello Gobbi
al questore Nicolini Santamaria - Santo Peli ripercorre con rigore e
imparzialità l'intera vicenda dei Gap per superare
le molte «leggende» e restituire ai lettori
una ricostruzione lontana dalla retorica
e dalla speculazione. Dai profili biografici dei protagonisti alle
questioni cruciali - il rapporto fra gappismo e resistenza armata, il
tema della rappresaglia,
il problema del consenso fra la popolazione - dalla lotta partigiana
alle ripercussioni sul nostro passato recente, questo libro colma una
lacuna rilevante nel
panorama dell'analisi storica del nostro Paese.
Storia dei Gap partigiani oltre il mito e l’ortodossia
Storia dei Gap partigiani oltre il mito e l’ortodossia
Per la prima volta ricostruite in un saggio di Santo Peli le controverse azioni di guerriglia attuate durante la Resistenza Né santi, ma neppure demoni. Per un paio di decenni si preferì rimuovere un argomento percepito come spinoso
di Simonetta Fiori Repubblica 11.11.14
CE LI avevano raccontati come eroi granitici, l’avanguardia della lotta partigiana, guerriglieri pronti a sparare a sangue freddo. Una nuova ricerca restituisce uomini e donne dei Gap alla tempesta sentimentale e morale che attraversò le loro vite, alle incertezze, agli errori, alle goffaggini, ai comprensibili cedimenti e anche ai tradimenti che ne correggono la mitografia resistenziale. Né santi ma neppure demoni sfigurati dall’anti- antifascismo in voga negli ultimi decenni. In Storie dei Gap, il primo tentativo di ricostruire le vicende dei Gruppi di Azione Patriottica, Santo Peli evita sia l’enfasi celebrativa che la deprecazione strumentale.
CE LI avevano raccontati come eroi granitici, l’avanguardia della lotta partigiana, guerriglieri pronti a sparare a sangue freddo. Una nuova ricerca restituisce uomini e donne dei Gap alla tempesta sentimentale e morale che attraversò le loro vite, alle incertezze, agli errori, alle goffaggini, ai comprensibili cedimenti e anche ai tradimenti che ne correggono la mitografia resistenziale. Né santi ma neppure demoni sfigurati dall’anti- antifascismo in voga negli ultimi decenni. In Storie dei Gap, il primo tentativo di ricostruire le vicende dei Gruppi di Azione Patriottica, Santo Peli evita sia l’enfasi celebrativa che la deprecazione strumentale.
Perché abbiamo aspettato settant’anni per
leggere una ricostruzione storica il più possibile completa? Quella dei
Gap è sempre stata percepita come “un’altra storia” rispetto
all’esperienza partigiana, sia per l’ortodossia comunista dei suoi
militanti sia per la specificità delle azioni: guerriglia in città, che
poi significa uccisioni visàvis e attentati dinamitardi in ristoranti,
caffè e bordelli frequentati dai nazifascisti. Modalità classicamente
terroristiche, che avevano lo scopo di portare scompiglio nelle città
del Centro-Nord occupate dai nazisti nell’autunno del 1943. Per un paio
di decenni, nel dopoguerra, si preferì rimuovere un argomento percepito
come spinoso. Il silenzio durò fino ai primi anni Settanta, quando
proprio nel circuito culturale degli istituti resistenziali cominciarono
ad apparire le prime ricerche. Ma fu allora che irruppero sulla scena
le Brigate Rosse e varie sigle terroristiche che rivendicavano
assurdamente perfino nel nome una continuità politica e culturale con
gli antichi liberatori. A queste farneticanti genealogie, nota Santo
Peli, si sarebbe dovuto rispondere con ricerche storiche rigorose.
Prevalse invece la rimozione, interrotta in modo frammentario dalla
memorialistica dei protagonisti.
Nella sua accurata e partecipe
ricostruzione, lo storico non sfugge alle domande più insidiose, a
cominciare dal nesso attentato e rappresaglia. Chi sono i gappisti,
eroici giustizieri o irresponsabili provocatori della violenza nazista? E
le rappresaglie naziste sono soltanto conseguenze o obiettivo
consapevolmente perseguito dai Gap? La risposta dello studioso è che la
rappresaglia fu sì un obiettivo, «un elemento dolorosamente utile », ma
solo nelle primissime azioni (fino alla fine del 1943), quando si
trattava di rivelare nelle città del Centro-Nord il vero volto
dell’occupazione. Una “pedagogia impietosa” che però non può essere
estesa all’intera vicenda dei Gap, se non con un intento
criminalizzante. E la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo
del 1944, è la dimostrazione più nitida della feroce determinazione
tedesca indipendente dall’attentato gappista.
Il problema del
consenso della popolazione si pose fin dal principio, dall’assassinio di
Gino Gobbi, comandante del distretto militare a Firenze, il primo
dicembre del 1943. Gobbi viene ucciso mentre fa rientro a casa in tram: è
solo, disarmato, senza scorta. I fiorentini reagiscono tra stupore,
timore per le conseguenze, anche speranza. Alla condanna dei
“deplorevoli eccessi” da parte del cardinal Elia Dalla Costa replica il
dirigente azionista Enzo Enriquez Agnoletti: «Lei non può Eminenza, che
in questo momento uomini nostri fratelli subiscono torture che fanno
vergogna all’umanità». Insomma, niente ipocrisie: la guerra incalza.
Il
dibattito sull’opportunità e sulle conseguenze degli attentati fu molto
vivace non solo all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale, ma
anche nella stessa base del Pci. La “paura fisica” e le “perplessità
morali” non erano una prerogativa degli altri partiti antifascisti. La
Direzione comunista faticò moltissimo a organizzare i Gap, per lo più
giovani e giovanissimi senza carichi famigliari. E i risultati del
reclutamento furono di gran lunga inferiori alle aspettative. Nel tardo
autunno del 1943 gli autori degli attentati non arrivarono a un
centinaio di persone. Influivano non solo le avverse condizioni della
lotta in città — isolamento, clandestinità, azioni ad alto rischio — ma
anche le remore morali legate all’uccisione di un uomo. «Questo qua
vuole farci ammazzare la gente. Ma è pazzo?», reagisce un operaio di
Brescia alla richiesta del compagno “Zolfataro”. Sono tanti quelli che
non riescono a sparare, la pistola che scivola dalla mano sudata, il
tremore del corpo che ne trattiene il gesto. A Roma come a Milano, a
Torino come a Firenze.
Il gruppo dirigente del Pci reagisce con
stizza e meraviglia. Piovono accuse di incapacità e “attendismo” contro i
compagni, perfino di “tradimento”. A Sant’Arcangelo e a Cattolica si
arriva all’espulsione. Solo diversi anni più tardi, Pietro Secchia
avrebbe riconosciuto che la volontà di uccidere — per di più in attacco,
senza la necessità di difendersi — è estranea alla formazione, alla
cultura e alle tradizioni operaie. «È difficile uccidere a sangue freddo
un uomo che non si conosce », si sfoga con Giorgio Amendola un compagno
paralizzato davanti a un bersaglio tedesco. E ancora, il gappista
Uragano: «È vero, sono dei delinquenti, però non ho l’animo di farli
fuori». Anche il soldato nazista è un essere umano, «vittima di un
sistema e dunque degno di pietà». Affiora l’immagine delle loro mogli,
dei bambini biondi che li aspettano a casa.
Alla remora morale
s’aggiunge il timore di restare “intrappolati”. E più della morte fa
paura la tortura, soprattutto il dubbio di non saper resistere. Questo è
un altro capitolo scivoloso, oscurato dalla mitografia comunista. In
realtà a resistere furono in pochi. Uomini e donne straordinari, che
subirono in silenzio sevizie di ogni genere. Soprattutto le donne, le
staffette, esposte ancora più dei compagni all’abuso sessuale del corpo.
Ma una gran parte dei gappisti torturati parlò, perché è nell’umana
natura cedere all’acqua bollenignorare, te in gola o alle trapanature
sulla pelle. Le cadute a catena che devastarono il movimento — ci dice
Peli — furono provocate da confessioni estorte. Alcuni prigionieri
trovarono salvezza nel suicidio, più uomini che donne. Altri cercarono
di resistere finché poterono, come Francesco Valentino, che sopportò a
Torino le sevizie per 24 ore, per dare il tempo di fuggire al suo
compagno Dante Di Nanni: questi però non lasciò il covo, pensando che
Valentino fosse morto e non potesse più parlare, e catturato dai
tedeschi si sarebbe gettato dal balcone in un’azione diventata poi
leggenda. Scoperto il “cedimento” di Valentino, peraltro morto impiccato
per mano repubblichina, il Pci non esitò a espungerlo dalla storia
partigiana. Parlare sotto tortura sarebbe stata per svariati decenni una
colpa inammissibile. Uno stigma vergognoso. O eroi o niente. E per chi
non è un martire non c’è memoria.
Se c’è un filo che attraversa
queste storie è proprio la distanza tra la rigidità ideologica del
vertice comunista e la disordinata generosità dei combattenti che spesso
sono lasciati soli e dunque più esposti a errori grossolani. Anche
quello della clandestinità è un mito da rivedere. Ovunque i gappisti
appartengono ad ambienti sociali omogenei — operai a Milano e Torino,
intellettuali a Roma — , fanno vita di quartiere tra San Frediano a
Firenze, Sesto San Giovanni a Milano, il centro storico a Roma. E spesso
ci si conosce fin dall’infanzia. Le regole classiche della cospirazione
si infrangono contro consolidati rituali famigliari, anche per la
mancanza di sostegni finanziari e logistici che il Pci non è in grado di
garantire. Qui si inserisce l’altra delicata questione che riguarda gli
«espropri» o i «recuperi» per i finanziamenti. Tra l’esproprio per
necessità e la delinquenza a scopo di lucro s’estende una vasta terra di
nessuno su cui lo storico non è in grado di fare luce: il confine può
risultare labile, anche perché tra gli arruolati figuravano elementi
assai poco raccomandabili.
Il tema sarebbe stato omesso della
storiografia che non ha mai parlato neppure dell’epica rapina agli
uffici della stazione di Santa Maria Novella, il 17 giugno del 1944.
Trentatré milioni di lire, una cifra da capogiro. Per ciascun membro dei
Gap significa una bicicletta, un orologio e un vestito nuovi. Ma non
era più l’epoca degli agguati in bici. La repressione nazista richiedeva
ben altri mezzi, la stagione eroica dei Gap ormai alle spalle.
L’invenzione di un tipo umano: il terrorista Resistenza. Nella storia dei gap di Santo Peli, tentativi e fallimenti nelle azioni di piccoli gruppi, presto disintegrati da errori e tradimenti; ma si contarono anche gesti eroici, soprattutto fra le donneAdriano Prosperi, il Manifesto 28.12.2014
Un libro di storia che ha nel titolo la parola «terrorismo» è una occasione da non perdere. Viviamo immersi in un presente senza tempo: l’orizzonte è occupato da una specie di terza guerra mondiale contro il terrorismo. I «Guantànamo files» documentano quante e quali torture siano state praticate nel territorio extra-legem della concessione strappata a Cuba dall’imperialismo americano del primo ‘900 mentre giudici e governo degli Stati Uniti chiudevano gli occhi e la cultura giuridica del paese abituato a definirsi orgogliosamente «governato dalla legge» scivolava verso gli abissi della legittimazione di trattamenti degradanti in nome della guerra al terrorismo. E ora, ecco che lo storico Santo Peli propone di collegare la Resistenza col terrorismo in Storie di Gap Terrorismo urbano e Resistenza (Einaudi, pp. VIII-280, euro 30,00).
La Resistenza è un’epopea di montagna, non la si può immaginare senza paesaggi alpini. Lo dicono le sue canzoni: «Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì su per l’aride montagne»: ma se il partigiano fosse rimasto sulla montagna, magari sepolto «sotto l’ombra di un bel fior», la storia dell’Italia sarebbe stata diversa. Nessuno si sarebbe accorto che c’era una guerra civile, così come nessuno seppe allora della deportazione degli ebrei del ghetto di Roma o della strage di Meina. Gli occupanti tedeschi avevano tutto l’interesse a tenere all’oscuro la popolazione e a presentarsi come i tutori dell’ordine che il regime repubblichino non era in grado di garantire. Così all’arrivo degli alleati gli italiani sarebbero usciti dai rifugi antiaerei né più né meno come vi erano entrati. Fu pensando a come trasformare la guerra in rivoluzione sociale e politica che a fine settembre 1943 il Partito comunista dette vita, accanto al modello organizzativo delle nascenti brigate Garibaldi, alla costituzione dei Gap, gruppi d’azione patriottica: accanto al modello iugoslavo della guerra per bande i comunisti si importava così in Italia quello francese dei «Francs-tireurs et partisans».
Il colore italiano lo dava l’epopea risorgimentale: il nome di Garibaldi, l’evocazione dei «patrioti», la Resistenza come secondo Risorgimento. In realtà quello che fu organizzato coi Gap fu un progetto di terrorismo urbano. Fu voluto e attuato «solo dal partito comunista», come scrisse Pietro Secchia : anche se non mancarono apporti significativi del Partito d’azione e del Partito socialista. Tema duro e difficile: finora nessuno lo aveva percorso in modo sistematico. Difficile per la mancanza o la dispersione delle fonti, che rendono impossibile una ricostruzione dettagliata capace di mostrare i fili che connettono tante storie di individui e di piccoli gruppi; ma difficile anche per ragioni inerenti il fenomeno del terrorismo. In questo libro appare straordinariamente interessante l’analisi di come fu creato il terrorista quale tipo umano. C’è un sentimento comune, una repulsione che scatta davanti al compito di uccidere a sangue freddo una persona che non si conosce. L’odio contro un fascista, come il colonnello Ingaramo, una spia come il Pollastra (Bruno Landi) o Nello Nocentini, un torturatore come il maggiore Carità, era una spinta sufficiente all’azione: si poteva contare anche sulla approvazione del quartiere popolare antifascista. Ma perché uccidere a freddo un vecchio professore indifeso, come Giovanni Gentile? O un soldato tedesco, un giovane uomo ignaro e senza altra colpa che di essere un occupante straniero? Non ci fu certo il tempo di selezionare e addestrare i membri delle Gap. Da qui gli episodi di attentati falliti per l’invincibile difficoltà a diventare un assassino di persone sconosciute e indifese. Eppure non c’è dubbio che la necessità storica e politica della discesa della guerra civile nelle città esce confermata dallo studio di Peli e le vicende individuali da lui ricostruite ci riportano il sapore aspro del risveglio a caro prezzo degli italiani dall’attendismo, dalla torpida quiete ventennale del regime.
Quando i Gap cominciarono a uccidere non solo fascisti italiani ma anche soldati tedeschi si scatenò, come previsto, la reazione in forma di rappresaglie. E la popolazione italiana, duramente risvegliata dall’assuefazione al regime di occupazione tedesca apparentemente pacifica, pagò prezzi di sangue. Si aprirono da allora ferite difficili da rimarginare: sappiamo bene quale lunga scia di polemiche abbia lasciato l’episodio che portò alle Fosse Ardeatine e quanto inchiostro continui a scorrere ancora intorno all’uccisione di Giovanni Gentile. Da qui emerge un problema generale attualissimo, di cui Santo Peli illumina la natura tragica: la difficoltà di creare il terrorista come tipo umano capace di uccidere a freddo, di mettere nel conto il prezzo di vite innocenti che sarà pagato.
Leggendo le sue pagine viene in mente una scena del film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri: quella della donna che mette la bomba in un mercato dove stanno entrando donne e bambini. Nella Resistenza italiana raccontata da Santo Peli incontriamo donne e uomini a cui si dovette insegnare a superare la repulsione istintiva a uccidere a tradimento persone sconosciute. Imparare ad ammazzare qualcuno senza l’impulso dell’offesa da risarcire o della necessità di difendersi voleva dire passare dal tipo del partigiano (il nemico assoluto, come l’ha definito Carl Schmitt) all’altro e ben diverso livello, quello del terrorista. E non fu facile creare questo nuovo tipo umano. Lo si vide ripetutamente nella storia delle azioni di quei mesi, quando i primi membri dei Gap non riuscivano a premere il grilletto; erano persone di indiscutibile valore e determinazione, ma nel momento decisivo li bloccava un istinto, un interdetto morale profondamente radicato.
Di fatto l’esperimento dei Gap fu breve, limitato a pochi gruppi o individui, minato da una incredibile povertà e precarietà di mezzi: si pensi che i gappisti che il 1° dicembre 1943 uccisero a Firenze Gino Gobbi, il comandante del distretto militare, avevano due biciclette in quattro e due pistole malandate di cui una si inceppò. Quelli che a Roma uccisero un militare tedesco dovettero servirsi di trincetti da calzolaio. La storia dei Gap ricostruita con una ricerca paziente e accurata da Santo Peli fu una successione di tentativi e di fallimenti, di piccoli gruppi presto disintegrati da errori e tradimenti; ma fu anche storia di eroismi straordinari, in cui brillarono specialmente le donne. E comunque la resistenza a uccidere i tedeschi rimase come un ostacolo difficile da superare anche quando la lotta dalle città si trasferì alle campagne. Il che avvenne nell’estate del ‘44 . Fu a questo punto che, conclusa la stagione dei Gap, entrò in scena un nuovo progetto strategico, quello delle Sap.
Per dare vita all’insurrezione di popolo come vero momento di liberazione nazionale il terrorismo non bastava. Bisognava estendere la rivolta, coinvolgere la popolazione. Questa l’idea di Togliatti nell’appello lanciato da Napoli il 6 giugno 1944. Fu la svolta che portò alla costituzione delle Sap: squadre reclutate dal proletariato di fabbrica delle città del triangolo industriale, o dalle masse contadine dell’Emilia Romagna. Queste squadre svolsero un’azione di attacco contro nemici fascisti e occupanti tedeschi legandola però a compiti di aiuto alla popolazione. A Torino, a Milano, vennero abbattuti alberi secolari per portare legname alle famiglie: e fu ancora a Torino che furono prelevati e distribuiti sei quintali di sale da parte dei sappisti.
I protagonisti cambiano, non sono più i vecchi militanti (trenta-quarantenni in realtà): i membri della brigata genovese dei Balilla sono ragazzi di vent’anni e anche meno. Quando il terrorismo si muove nelle campagne non è più quello delle piccole unità isolate che si muovono nel buio delle notti tra i vicoli cittadini: quello che nasce e si sviluppa con le Sap è una guerra contadina contro il nemico di classe, un fenomeno di massa dove chi agisce può contare sulla solidarietà e sull’aiuto della popolazione. Queste pagine ci guidano nelle campagne emiliane, distinguono con mano sicura le differenze tra il modenese, il ferrarese e il reggiano.
L’invenzione di un tipo umano: il terrorista Resistenza. Nella storia dei gap di Santo Peli, tentativi e fallimenti nelle azioni di piccoli gruppi, presto disintegrati da errori e tradimenti; ma si contarono anche gesti eroici, soprattutto fra le donneAdriano Prosperi, il Manifesto 28.12.2014
Un libro di storia che ha nel titolo la parola «terrorismo» è una occasione da non perdere. Viviamo immersi in un presente senza tempo: l’orizzonte è occupato da una specie di terza guerra mondiale contro il terrorismo. I «Guantànamo files» documentano quante e quali torture siano state praticate nel territorio extra-legem della concessione strappata a Cuba dall’imperialismo americano del primo ‘900 mentre giudici e governo degli Stati Uniti chiudevano gli occhi e la cultura giuridica del paese abituato a definirsi orgogliosamente «governato dalla legge» scivolava verso gli abissi della legittimazione di trattamenti degradanti in nome della guerra al terrorismo. E ora, ecco che lo storico Santo Peli propone di collegare la Resistenza col terrorismo in Storie di Gap Terrorismo urbano e Resistenza (Einaudi, pp. VIII-280, euro 30,00).
La Resistenza è un’epopea di montagna, non la si può immaginare senza paesaggi alpini. Lo dicono le sue canzoni: «Dalle belle città date al nemico/ fuggimmo un dì su per l’aride montagne»: ma se il partigiano fosse rimasto sulla montagna, magari sepolto «sotto l’ombra di un bel fior», la storia dell’Italia sarebbe stata diversa. Nessuno si sarebbe accorto che c’era una guerra civile, così come nessuno seppe allora della deportazione degli ebrei del ghetto di Roma o della strage di Meina. Gli occupanti tedeschi avevano tutto l’interesse a tenere all’oscuro la popolazione e a presentarsi come i tutori dell’ordine che il regime repubblichino non era in grado di garantire. Così all’arrivo degli alleati gli italiani sarebbero usciti dai rifugi antiaerei né più né meno come vi erano entrati. Fu pensando a come trasformare la guerra in rivoluzione sociale e politica che a fine settembre 1943 il Partito comunista dette vita, accanto al modello organizzativo delle nascenti brigate Garibaldi, alla costituzione dei Gap, gruppi d’azione patriottica: accanto al modello iugoslavo della guerra per bande i comunisti si importava così in Italia quello francese dei «Francs-tireurs et partisans».
Il colore italiano lo dava l’epopea risorgimentale: il nome di Garibaldi, l’evocazione dei «patrioti», la Resistenza come secondo Risorgimento. In realtà quello che fu organizzato coi Gap fu un progetto di terrorismo urbano. Fu voluto e attuato «solo dal partito comunista», come scrisse Pietro Secchia : anche se non mancarono apporti significativi del Partito d’azione e del Partito socialista. Tema duro e difficile: finora nessuno lo aveva percorso in modo sistematico. Difficile per la mancanza o la dispersione delle fonti, che rendono impossibile una ricostruzione dettagliata capace di mostrare i fili che connettono tante storie di individui e di piccoli gruppi; ma difficile anche per ragioni inerenti il fenomeno del terrorismo. In questo libro appare straordinariamente interessante l’analisi di come fu creato il terrorista quale tipo umano. C’è un sentimento comune, una repulsione che scatta davanti al compito di uccidere a sangue freddo una persona che non si conosce. L’odio contro un fascista, come il colonnello Ingaramo, una spia come il Pollastra (Bruno Landi) o Nello Nocentini, un torturatore come il maggiore Carità, era una spinta sufficiente all’azione: si poteva contare anche sulla approvazione del quartiere popolare antifascista. Ma perché uccidere a freddo un vecchio professore indifeso, come Giovanni Gentile? O un soldato tedesco, un giovane uomo ignaro e senza altra colpa che di essere un occupante straniero? Non ci fu certo il tempo di selezionare e addestrare i membri delle Gap. Da qui gli episodi di attentati falliti per l’invincibile difficoltà a diventare un assassino di persone sconosciute e indifese. Eppure non c’è dubbio che la necessità storica e politica della discesa della guerra civile nelle città esce confermata dallo studio di Peli e le vicende individuali da lui ricostruite ci riportano il sapore aspro del risveglio a caro prezzo degli italiani dall’attendismo, dalla torpida quiete ventennale del regime.
Quando i Gap cominciarono a uccidere non solo fascisti italiani ma anche soldati tedeschi si scatenò, come previsto, la reazione in forma di rappresaglie. E la popolazione italiana, duramente risvegliata dall’assuefazione al regime di occupazione tedesca apparentemente pacifica, pagò prezzi di sangue. Si aprirono da allora ferite difficili da rimarginare: sappiamo bene quale lunga scia di polemiche abbia lasciato l’episodio che portò alle Fosse Ardeatine e quanto inchiostro continui a scorrere ancora intorno all’uccisione di Giovanni Gentile. Da qui emerge un problema generale attualissimo, di cui Santo Peli illumina la natura tragica: la difficoltà di creare il terrorista come tipo umano capace di uccidere a freddo, di mettere nel conto il prezzo di vite innocenti che sarà pagato.
Leggendo le sue pagine viene in mente una scena del film di Gillo Pontecorvo, La battaglia di Algeri: quella della donna che mette la bomba in un mercato dove stanno entrando donne e bambini. Nella Resistenza italiana raccontata da Santo Peli incontriamo donne e uomini a cui si dovette insegnare a superare la repulsione istintiva a uccidere a tradimento persone sconosciute. Imparare ad ammazzare qualcuno senza l’impulso dell’offesa da risarcire o della necessità di difendersi voleva dire passare dal tipo del partigiano (il nemico assoluto, come l’ha definito Carl Schmitt) all’altro e ben diverso livello, quello del terrorista. E non fu facile creare questo nuovo tipo umano. Lo si vide ripetutamente nella storia delle azioni di quei mesi, quando i primi membri dei Gap non riuscivano a premere il grilletto; erano persone di indiscutibile valore e determinazione, ma nel momento decisivo li bloccava un istinto, un interdetto morale profondamente radicato.
Di fatto l’esperimento dei Gap fu breve, limitato a pochi gruppi o individui, minato da una incredibile povertà e precarietà di mezzi: si pensi che i gappisti che il 1° dicembre 1943 uccisero a Firenze Gino Gobbi, il comandante del distretto militare, avevano due biciclette in quattro e due pistole malandate di cui una si inceppò. Quelli che a Roma uccisero un militare tedesco dovettero servirsi di trincetti da calzolaio. La storia dei Gap ricostruita con una ricerca paziente e accurata da Santo Peli fu una successione di tentativi e di fallimenti, di piccoli gruppi presto disintegrati da errori e tradimenti; ma fu anche storia di eroismi straordinari, in cui brillarono specialmente le donne. E comunque la resistenza a uccidere i tedeschi rimase come un ostacolo difficile da superare anche quando la lotta dalle città si trasferì alle campagne. Il che avvenne nell’estate del ‘44 . Fu a questo punto che, conclusa la stagione dei Gap, entrò in scena un nuovo progetto strategico, quello delle Sap.
Per dare vita all’insurrezione di popolo come vero momento di liberazione nazionale il terrorismo non bastava. Bisognava estendere la rivolta, coinvolgere la popolazione. Questa l’idea di Togliatti nell’appello lanciato da Napoli il 6 giugno 1944. Fu la svolta che portò alla costituzione delle Sap: squadre reclutate dal proletariato di fabbrica delle città del triangolo industriale, o dalle masse contadine dell’Emilia Romagna. Queste squadre svolsero un’azione di attacco contro nemici fascisti e occupanti tedeschi legandola però a compiti di aiuto alla popolazione. A Torino, a Milano, vennero abbattuti alberi secolari per portare legname alle famiglie: e fu ancora a Torino che furono prelevati e distribuiti sei quintali di sale da parte dei sappisti.
I protagonisti cambiano, non sono più i vecchi militanti (trenta-quarantenni in realtà): i membri della brigata genovese dei Balilla sono ragazzi di vent’anni e anche meno. Quando il terrorismo si muove nelle campagne non è più quello delle piccole unità isolate che si muovono nel buio delle notti tra i vicoli cittadini: quello che nasce e si sviluppa con le Sap è una guerra contadina contro il nemico di classe, un fenomeno di massa dove chi agisce può contare sulla solidarietà e sull’aiuto della popolazione. Queste pagine ci guidano nelle campagne emiliane, distinguono con mano sicura le differenze tra il modenese, il ferrarese e il reggiano.
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