venerdì 21 novembre 2014

Un'antropologia politica foucaultiana


Come facevamo, quando non esisteva la "biopolitica"?  [SGA].

Didier Fassin: Ripoliticizzare il mondo. Studi antropologici sulla vita, il corpo e la morale, Ombre Corte
Risvolto
In un tempo in cui, ovunque nel mondo, i cittadini esprimono in maniera crescente il loro disincanto nei confronti della politica, è necessario reinterrogarne il senso non dal punto di vista delle istituzioni, dei partiti e dei programmi che le danno forma, ma di ciò che ne costituisce la sostanza stessa, ciò a cui essa rimanda e mette in gioco. Poiché studia il vicino e il lontano, si occupa del locale e del globale, e riunisce in uno stesso progetto etnografico l'attenzione per il quotidiano e l'ambizione di comprendere il contemporaneo, l'antropologia offre una risposta originale alla questione politica.
Nutriti da ricerche condotte nei tre continenti, i saggi presentati in questo volume affrontano tale questione attraverso tre dimensioni fondamentali: la vita degli esseri umani che insieme costituiscono la società, una vita sulla quale si imprimono le disuguaglianze sociali; il corpo, che subisce le violenze e le sofferenze, ma attraverso il quale si rivendicano dei diritti; e la morale, che serve a distinguere l'intollerabile dall'accettabile e a fondare delle comunità di valori e di affetti. Queste politiche della vita, del corpo e della morale, analizzate alla luce di ricerche sulla povertà e l'immigrazione, l'asilo e la malattia, la giustizia sociale e la ragione umanitaria, disegnano così il progetto di ripoliticizzare il mondo.
l'autore
Didier Fassin è professore all'Institute for Advanced Study di Princeton e all'École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi. È autore e curatore di numerosi lavori, tra cui: La forza dell'ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane (La Linea, 2013).



La politica sulla vita non fa ostaggi 
Tempi presenti. Finalmente Tradotto «Ripoliticizzare il mondo» dell’antropologo Didier Fassin. Un importante saggio per mettere a fuoco le politiche sociali dominanti. E per cogliere il nesso tra precarietà e svuotamento della democrazia

Giso Amendola, il Manifesto 21.11.2014 

La rela­zione tra vita e poli­tica ha costi­tuito, almeno dalla fine degli anni Ottanta in poi, il tema cen­trale del dibat­tito teorico-politico, e in par­ti­co­lare di quello ita­liano. Non a caso, la bio­po­li­tica è stata indi­vi­duata come una sorta di mar­chio di fab­brica della cosid­detta Ita­lian Theory, Pro­prio in Ita­lia, però, si è spesso corso il rischio che la gene­ri­cità di un ter­mine come vita finisse per affo­gare in una peri­co­losa indi­stin­zione l’intera que­stione della bio­po­li­tica. Si può dire, anzi, che la «vita» sia spesso ser­vita, nel nostro dibat­tito teo­rico, per neu­tra­liz­zare dif­fe­renze e scelte poli­ti­ca­mente impe­gna­tive: un bel richiamo a un gene­ri­cis­simo vivente, spe­cie in una cul­tura come quella ita­liana nella quale vita­li­smi e idea­li­smi si sono intrec­ciati con mal­fa­mati esiti poli­tici, può in fondo sem­pre ser­vire a scac­ciare dalla rifles­sione poli­tica sog­getti e con­flitti reali, e a rimet­tere in cir­colo con il vestito nuovo meta­fi­si­che tra­di­zio­na­lis­sime. Ciò non toglie, però, che attra­verso la bio­po­li­tica sono state nomi­nate que­stioni seris­sime, e mal si rea­gi­rebbe agli abusi e alle gene­ri­cità archi­viando sia il ter­mine che la questione. 
Molto utile, allora, disporre di que­sto Ripo­li­ti­ciz­zare il mondo. Studi antro­po­lo­gici sulla vita, il corpo e la morale (ombre corte, pp. 177, euro 18, cura e tra­du­zione di Chiara Pilotto) dell’antropologo fran­cese Didier Fas­sin, già ben noto in Ita­lia per le sue ricer­che su sicu­rezza e poli­zia (di recente è stata tra­dotta, da La Linea, La forza dell’ordine. Antro­po­lo­gia della poli­zia nelle peri­fe­rie urbane). Il libro è appunto un intenso corpo a corpo con il pro­blema della bio­po­li­tica, intesa, con Fou­cault, come nesso tra poli­tica, corpo e verità. Oltre la crisi degli alfa­beti tra­di­zio­nali della poli­tica moderna, sostiene Fas­sin, una ripo­li­ti­ciz­za­zione, la rico­stru­zione di un senso com­ples­sivo dell’azione poli­tica, è ancora pos­si­bile, ma deve calarsi nel vivo delle sog­get­ti­vità, dei corpi e degli affetti. 

Tec­ni­che di governo 
La bio­po­li­tica resta quindi un pas­sag­gio obbli­gato e cru­ciale. Per Fas­sin, però, il discorso fou­caul­tiano è insuf­fi­ciente: Fou­cault enun­cia come deter­mi­nante il tema della poli­tica della vita, ma, in fondo, lo lascia cadere quasi subito. In Fou­cault, scrive Fas­sin, dopo i rife­ri­menti a una bio­po­li­tica in senso stretto con­te­nuti alla fine del corso del 1977, Biso­gna difen­dere la società, o in La volontà di sapere, l’attenzione fini­sce per con­cen­trarsi piut­to­sto sulle tec­ni­che di governo delle con­dotte (il tema della gover­na­men­ta­lità) che sul senso e sul valore delle con­crete poste in gioco oggetto di quelle tec­ni­che. I rife­ri­menti al potere della vita in quanto tale spa­ri­reb­bero, e il Fou­cault gover­na­men­tale pro­dur­rebbe infine una «bio­po­li­tica senza vita»: più pre­ci­sa­mente, una poli­tica sulla vita piut­to­sto che una poli­tica della vita. 
Pro­ba­bil­mente, que­ste obie­zioni risen­tono di un certo clima inter­pre­ta­tivo, simile a quello che ricor­da­vamo con rife­ri­mento al dibat­tito ita­liano: let­ture che ridu­cono il tema della gover­na­men­ta­lità ad una sorta di ana­li­tica delle tec­no­lo­gie di governo, in verità, non man­cano. L’impressione è che, quando Fas­sin in sostanza obietta che l’analisi del potere mar­ce­rebbe astrat­ta­mente sepa­rata da quella del nesso soggetto/verità, col­pi­sca effet­ti­va­mente un punto cri­tico di molte inter­pre­ta­zioni, ma lasci fuori invece let­ture più intrec­ciate e sti­mo­lanti del per­corso fou­caul­tiano, quelle appunto che hanno rifiu­tato di sepa­rare sog­get­ti­vità e gover­na­men­ta­lità, sog­get­ti­va­zione e potere, etica e poli­tica. Del resto lo stesso Fas­sin ricorda come ecce­dano ogni pre­sunta «bio­po­li­tica senza vita» sia l’impegno per­so­nale di Fou­cault nelle lotte dei movi­menti sociali, sia «il suo orien­ta­mento teo­rico più tardo, rivolto alla dimen­sione etica del governo di sé e degli altri»: il che con­ferma l’idea che la scelta come obiet­tivo cri­tico di un Fou­cault che ridur­rebbe la bio­po­li­tica a tec­nica di governo sia debi­trice a una let­tura un po’ troppo com­par­ti­men­tata del per­corso foucaultiano. 

La scom­parsa dei soggetti 
Ma lasciamo pure agli stu­diosi fou­caul­tiani que­ste, comun­que rile­vanti, que­stioni inter­pre­ta­tive, e veniamo a cosa Fas­sin intenda poi, dal canto suo, per poli­tica della vita. Qui lo sguardo antro­po­lo­gico offre molti mate­riali per un approc­cio alla bio­po­li­tica che superi deci­sa­mente ogni ambi­gua gene­ri­cità dei rife­ri­menti alla vita e al vivente. Non per nulla, Fas­sin cri­tica con deci­sione un altro dispo­si­tivo attra­verso il quale i discorsi sulla vita rischiano di vedersi neu­tra­liz­zata la loro pre­cisa por­tata poli­tica: quello che separa di netto vita bio­lo­gica e vita sto­ri­ca­mente qua­li­fi­cata, il fatto di soprav­vi­vere, la vita in sé e la «vita che si vive attra­verso un corpo e come società». È alle moda­lità di impli­ca­zione reci­proca e com­plessa delle diverse dimen­sioni che invece biso­gne­rebbe guar­dare: in altri ter­mini, ogni vita è sem­pre una forma di vita sto­ri­ca­mente pro­dotta, con­tro ogni taglio tra forma di vita ed ele­mento bio­lo­gico, quale può emer­gere per esem­pio nell’approccio di Han­nah Arendt, almeno quando separa di netto lo spa­zio poli­tico da quello della vita natu­rale (e riduce a quest’ultima dimen­sione tutto lo spa­zio dell’economico-sociale) o in quello di Agam­ben, in cui l’insistenza sulla nuda vita rischia di pro­durre «indif­fe­ren­zia­zione del poli­tico» e, soprat­tutto, «la scom­parsa dei soggetti». 
Niente nuda vita e niente vita in sé, quindi, non bìos con­tro zoè, ma vite sto­ri­ca­mente qua­li­fi­cate e corpi sui quali poteri sto­ri­ca­mente e poli­ti­ca­mente pre­ci­sa­bili inci­dono la pro­pria azione. 
Poli­tica della vita signi­fica, per Fas­sin, che il fatto di vivere, nel senso di con­ser­vare la vita, di soprav­vi­vere, si impone come cri­te­rio di legit­ti­mità ultima dell’azione poli­tica. Se i domi­nati, durante il capi­ta­li­smo indu­striale, usa­vano il pro­prio corpo essen­zial­mente come fonte di forza lavoro, ora il corpo, la sua stessa esi­stenza in vita, si trova ad essere gio­cato diret­ta­mente come fonte di diritti. L’economia poli­tica clas­sica dello sfrut­ta­mento del lavoro si intrec­cia così pro­fon­da­mente con un’economia morale, in cui si viene chia­mati ad esporre il pro­prio corpo, a rac­con­tarlo, a cer­ti­fi­carne con­ti­nua­mente il disa­gio e le sof­fe­renze come titolo legit­timo per recla­mare diritti o almeno assi­stenza. Le inda­gini sul campo pre­sen­tate da Fas­sin illu­strano con straor­di­na­ria con­cre­tezza l’affermarsi di que­sta nuova bio­le­git­ti­mità e delle nuove disu­gua­glianze, delle nuove gerar­chie che attra­verso que­sta nuova «cit­ta­di­nanza bio­lo­gica» si producono. 
La bio­le­git­ti­mità è, per esem­pio, l’anima pro­fonda della ragione uma­ni­ta­ria (tema cui Fas­sin ha dedi­cato uno dei suoi libri più noti) che si è impo­sta nelle poli­ti­che migra­to­rie. Quanto più il senso poli­tico del diritto d’asilo viene neu­tra­liz­zato dalle poli­ti­che secu­ri­ta­rie, tanto più avanza la logica uma­ni­ta­ria: non a caso, il sistema dei per­messi di sog­giorno tem­po­ra­nei per l’accesso a cure medi­che indi­spen­sa­bili viene a sosti­tuire pro­gres­si­va­mente la pos­si­bi­lità, sem­pre più ardua, di otte­nere asilo poli­tico. La pro­ce­dura ammi­ni­stra­tiva costringe ad un’esposizione sem­pre più indi­vi­dua­liz­zata della pro­pria sto­ria: inve­ste la sog­get­ti­vità, richie­dendo il sup­ple­mento d’anima di una nar­ra­zione il più pos­si­bile pate­tica e per­sua­siva; allo stesso tempo, obbliga all’oggettività del docu­mento, all’esibizione con­ti­nua di certificati. 
Sul ver­sante della pre­ca­rietà eco­no­mica ed esi­sten­ziale, le cose non vanno diver­sa­mente: la piega com­pas­sio­ne­vole e cari­ta­te­vole assunta da sistemi di wel­fare sem­pre più con­di­zio­nati costringe a rac­con­tare e a docu­men­tare la pro­pria dif­fi­coltà estrema, per riu­scire a sfrut­tare le resi­due elar­gi­zioni di un’amministrazione sem­pre più discre­zio­nale, che mescola con­ti­nua­mente giu­sti­zia e pietà nelle pro­prie gri­glie di valutazione. 
Nel gioco con­ti­nuo di «costru­zione di sé e di sot­to­mis­sione allo Stato», nel «dop­pio pro­cesso di sog­get­ti­va­zione e assog­get­ta­mento», la vita diventa così il ter­reno sul quale si gioca la legit­ti­mità morale e poli­tica della pro­pria pre­senza. Una gio­vane donna hai­tiana può rac­con­tare l’uccisione del padre mili­tante poli­tico, il rapi­mento della madre, lo stu­pro col­let­tivo che ha subito: ma tutto que­sto non le varrà, nella stroz­za­tura gene­rale del diritto d’asilo, quanto la deci­siva cer­ti­fi­ca­zione della pro­pria sie­ro­po­si­ti­vità. I corpi sono così affer­rati in un gioco di vio­lenza poli­tica espli­cita, in cui lo Stato costringe ad esi­birsi con­ti­nua­mente come vit­tima, e di vio­lenza strut­tu­rale impli­cita, attra­verso «l’incorporazione di un pas­sato e di un pre­sente violenti». 

Una tra­gica lettura 
La poli­tica della vita, letta in que­sto senso, segna evi­den­te­mente un ulte­riore avan­za­mento della forza dei pro­cessi di pre­ca­riz­za­zione, insieme morale e poli­tica, delle esi­stenze, sot­to­messe con­ti­nua­mente all’obbligo di esporre la pro­pria estrema fra­gi­lità per mostrare la pro­pria legit­ti­mità. E fin­ché l’analisi si incen­tra sui gio­chi di potere incen­trati sul corpo, una visione ultra­di­sci­pli­nare della bio­po­li­tica non può che pre­va­lere. Del resto, lo stesso Fas­sin non lo nasconde: la sua let­tura della bio­po­li­tica resta una let­tura segnata dal tra­gico. Ma i testi di Fas­sin offrono chiavi di let­tura che vanno oltre un’analisi dell’intensificazione bio­po­li­tica delle forme dell’assoggettamento. 
Per com­pren­dere la poli­tica della vita e le con­trad­di­zioni di fondo della ragione uma­ni­ta­ria e com­pas­sio­ne­vole, è fon­da­men­tale l’uso, ricorda Fas­sin, del con­cetto di eco­no­mia morale: quel tes­suto di norme ed obbli­ghi, di valori e di affetti, che defi­ni­sce ciò che si può tol­le­rare e ciò che intol­le­ra­bile, ciò che si può fare e ciò che non si può fare, e che è indi­spen­sa­bile per cogliere lo spes­sore etico, irri­du­ci­bile alle spie­ga­zioni mec­ca­ni­ci­sti­che ed eco­no­mi­ci­sti­che, della sto­ria di classe. L’attenzione alle eco­no­mie morali nasce appunto den­tro la sto­ria sociale delle rivolte con­ta­dine prima e ope­raie poi: Edward Pal­mer Thomp­son, lo sto­rico sociale che espli­citò que­sta idea, la uti­liz­zava pro­prio per valo­riz­zare, all’interno della for­ma­zione della classe ope­raia inglese, un mondo di pas­sioni e di usi, di sim­boli e lin­guaggi, che nes­suna let­tura deter­mi­ni­stica sarebbe stata in grado di cogliere. 

Esi­stenze coatte 
In que­sto senso, l’attenzione alle eco­no­mie morali può rom­pere la male­detta cir­co­la­rità del «dop­pio pro­cesso» di assog­get­ta­mento e di sog­get­ti­va­zione, e per­met­terci di sco­prire, anche nelle zone dei subal­terni e dei mar­gi­nali, le mille stra­te­gie della pro­du­zione di sog­get­ti­vità. E pro­prio in que­ste stra­te­gie, pre­ca­rie ma costanti, spesso di sot­tra­zione e di sus­si­stenza, ma anche di rifiuto e di rivolta, le poli­ti­che della vita incon­trano con­ti­nua­mente la pos­si­bi­lità di una rottura. 
Così, anche la ragione uma­ni­ta­ria si mostra con­ti­nua­mente attra­ver­sata da sto­rie col­let­tive che la modi­fi­cano con­ti­nua­mente; resi­stenze che pos­sono for­zarla dall’interno e tra­sfor­marla radi­cal­mente, rica­lan­dola nel fuoco dei con­flitti pol­tici, pro­prio facendo leva su quel sen­ti­mento dell’intollerabile che lo stesso uma­ni­ta­ri­smo mobi­lita con­ti­nua­mente. Pro­prio per­ché la vita non è mai nuda, ma sem­pre sto­ri­ca­mente qua­li­fi­cata, i campi dell’umanitario, del wel­fare cari­ta­te­vole, della pro­du­zione di mar­gi­na­lità, sono più che mai campi deci­sivi di inter­vento poli­tico: l’affermarsi sem­pre più intenso delle poli­ti­che della vita, in fondo, signi­fica anche una sem­pre pos­si­bile inten­si­fi­ca­zione, diret­ta­mente poli­tica, delle micro­stra­te­gie di sus­si­stenza e di resi­stenza che attra­ver­sano con­ti­nua­mente i luo­ghi dell’assistenza e del ser­vi­zio sociale. 
L’umanitarismo può gestire le vite, gerar­chiz­zarle e pre­ca­riz­zarle nei modi più pene­tranti, ma lo stu­dio delle «eco­no­mie morali» ci ha sem­pre messo davanti momenti deci­sivi in cui il sen­ti­mento etico dell’intollerabile si fa motore di resi­stenza poli­tica, di sog­get­ti­va­zione, e le stra­te­gie di soprav­vi­venza e di sot­tra­zione agli obbli­ghi e ai con­di­zio­na­menti si rive­lano, al fondo, forme della lotta di classe e della pos­si­bi­lità di «ripo­li­ti­ciz­zare il mondo».

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