martedì 11 novembre 2014

Vladimiro Giacché sul Muro di Berlino. A sinistra un autolesionismo che merita il tramonto

Giacché ci aiuta a ragionare, mentre in questi giorni la sinistra appare per lo più in preda a un cupio dissolvi autolesionistico che conferma quanto essa - per parafrasare Nietzsche - meriti il tramonto. E quanto tutto questo tempo sia passato invano, senza che nessuna analisi realistica sia stata condivisa. Ragion per cui ogni prospettiva di ricostruzione teorica e politica si fa sempre più infondata e lontana.

Una totale incapacità di apprendere, bisognerebbe dire. Nonostante la lezione della storia, gli eventi del periodo 1989-1991 continuano ad essere letti per lo più come un momento di potenziale emancipazione o al massimo come un'occasione perduta per circostanze sfortunate e imprevedibili. I protagonisti di questa lettura, all'epoca entusiasticamente convinti che proprio dalla caduta del Muro passasse l'edificazione del socialismo dei loro sogni, conservano tutt'ora questa felice certezza a scorno di ogni realtà. Ciechi all'epoca, di fronte agli immani processi regressivi che si stavano svolgendo, neppure adesso sembrano davvero comprendere che ciò che hanno scambiato per una rivoluzione era sin dall'inizio - e in maniera anche piuttosto esplicita- una vera e propria restaurazione.

Dunque, da un lato c'è stata una tragedi epocale oggettiva, una sconfitta netta nell'ambito di un conflitto storico-politico di lunga durata. Qualcosa che spinge a volte persino loro ad ammettere che la caduta del campo socialista - certo, intesa come un "collasso" implosivo che rimuove il conflitto e per assurdo l'esistenza della stessa Guerra Fredda - sono stati in fondo "catastrofici" anche per l'Occidente. Dall'altro lato c'è la rappresentazione immaginaria di un socialismo ideale, che è stato tradito nella sua purezza e bontà ma che si sarebbe senz'altro realizzato se i dittatori sovietici o realsocialisti avessero seguito a tempo debito i loro consigli. Ovvero le preferenze personali di una parte di una generazione. Ovvero ancora, un'idea o una speranza altrettanto soggettiva e idealistica di socialismo.

Alla fine dei conti, la catastrofe oggettiva e la sofferenza che questa catastrofe ha comportato in Oriente e in Occidente sembrano tutt'ora essere ben poca cosa di fronte alla soddisfazione che quelle preferenze personali si sono prese, assaporando una rivincita post mortem con la caduta del Muro. Una soddisfazione così profonda che nemmeno l'attuale ammissione obbligata di una "catastrofe" può mettere in discussione. Una soddisfazione profondamente immorale, perciò. Che si accontenta di veder trionfare il nemico, con il dolore che questo ha comportato e comporta, pur di riaffermare la propria superiorità su ciò che tanto rozzo e volgare si è dimostrato. Con ciò, proprio i più accesi critici della filosofia della storia progressista si sono dimostrati succubi di una filosofia della storia non meno progressista ma enormemente più ingenua.
Come sia possibile poi dirsi di sinistra, voler difendere le ragioni delle classi subalterne, criticare il neoliberalismo, ma rimuovere proprio uno dei momenti fondamentali della sconfitta di queste classi e del trionfo di questo sistema, è mistero. Tutto sembra praticabile però, pur di conservare intatte le proprie certezze.

Insomma, il rapporto con la realtà è oggi certamente problematico presso le frange nostalgiche che trasfigurano un'epoca tragica in termini romantici, transitando inevitabilmente dall'ambito della politica a quello del folclore. Ma un rapporto problematico con la realtà c'è in primo luogo presso la sinistra che in qualche modo conta ancora qualcosa o che comunque ha maggiori responsabilità. Soprattutto - la tradizione dell'ex Pci transitata nel Pd non fa più testo, a questo punto - presso i continuatori della sinistra sessantottina, con la variante ingraiano-manifestina, che rivendicano tutt'ora la loro superiorità morale.

In passato e per altri soggetti e interessi le cose sono andate diversamente. Per grande fortuna del capitalismo, non tutti coloro che, pur riconoscendone gli oggettivi vantaggi rispetto al feudalesimo, erano disturbati dagli inevitabili orrori del suo avvento e della sua affermazione erano anche così spiccatamente sensibili da pretenderne e favorirne la caduta dopo appena alcuni decenni. E' una fortuna che il socialismo non ha avuto.

Resta una domanda: perché mai un processo storico complesso come la costruzione del socialismo avrebbe dovuto costare meno lavoro del negativo della transizione capitalistica, durata secoli e secoli?
Vi sarebbe piaciuto vincere facile. Invece la storia funziona così: non esistono quelli che sono solo buoni e di solito ci si sporca le mani, a volte anche di sangue [SGA].


Tg2 Mizar 9 11 2014

2 commenti:

  1. Ma esistono esperienze di socialismo,democratico,che si sono sviluppate in maniera molto meno tragica dell'esperienza sovietica.Saluti

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  2. Forse non ho chiarito bene cosa significhi una transizione storica, ovvero il passaggio da una formazione economico-sociale o addirittura da un modo di produzione a un altro.

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