L' utopia di Fidelio cantore della libertà
martedì 2 dicembre 2014
Beethoven contro la Rivoluzione o contro l'aggressione napoleonica? Isotta legge il Fidelio in chiave di teoria del totalitarismo
Fidelio eroe della libertà
L’opera di Beethoven denuncia l’età del Terrore e ricorda Silvio Pellico
di Paolo Isotta Corriere 2.12.14
Se
il Parsifal è la più grande Opera mai scritta, se i Maestri cantori ,
il Falstaff e Il cavaliere della rosa sono le più deliziose Commedie
musicali (con profonda riflessione sulla tragedia della vita) mai
scritte, il Fidelio è l’Opera più celestiale mai scritta. Non ripeterò
che si tratta del più potente documento artistico contro il Terrore
giacobino pur se ripeterlo giova oggi che si tenta di contrabbandarlo
siccome parto rivoluzionario. D’altronde rimandare ai miei minuziosi
articoli pubblicati sul tema per i lettori del «Corriere» è poca cosa:
intendo invece consigliare di nuovo il più bel libro mai scritto su
Beethoven, quello monumentale di Piero Buscaroli che la Rizzoli ha per
fortuna, dopo la prima edizione di dieci anni fa, ripubblicato nella
Bur. È un’opera che onora la cultura italiana, che non ne è degna e non
ha saputo recepirla; ma lo stato della cosiddetta musicologia è
miserabile anche all’estero.
Nessuno come il Buscaroli ricostruisce
la storia della composizione, del fatto storico che ne è all’origine,
degli antecedenti operistici francesi e italiani. Io mi permetto di
ricordare che per comprendere come il Terrore sia stato la più perversa
macchinazione contro l’uomo mai escogitata occorre conoscere un’opera
storica di Manzoni quasi sottaciuta e occultata, La rivoluzione francese
del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Saggio comparativo .
Non
ripercorrerò antologicamente le bellezze della suprema partitura che
resta tale a onta dell’appartener il Fidelio all’ibrido genere della
Commedia musicale ( Singspiel ), con dialoghi parlati. Ma questi non
preponderano e vanno rarefacendosi a grado che l’Opera prosegue. E, per
ciò che attiene al Recitativo, Beethoven, con Abscheulicher, wo eilst du
hin , nel primo atto, offre uno dei più potenti Recitativi accompagnati
mai composti, direttamente rifacentesi alla Scena e Aria italiana Ah,
perfido! che il giovane aveva scritta nel 1796 su versi di Metastasio.
Ma avviene nel passaggio all’Opera qualcosa di magico: dal Mi bemolle
maggiore della composizione giovanile il Sommo trascorre al Mi maggiore,
ch’è il tono delle due più incantate Sonate pianistiche, l’op. 90 e
l’op. 109, e del sublime Lied corale Opferlied . Leonora canta poi
l’Aria con i tre corni soli che, nelle due sezioni, invocando la
Speranza, è invocazione sì alta che dal lirico passa all’epos
vergiliano; e tale invocazione possiede un inequivocabile accento
religioso.
E infatti adesso giova dire che il testo drammatico del
Fidelio , basato su di un avvenimento effettualmente svoltosi in
Francia, spesso dileggiato dai musicologi e invece di grande qualità e
intensità drammatica, viene accolto da Beethoven in una prospettiva che
potremmo chiamare solo religiosa. Il Fidelio è il dramma della lotta per
la libertà. Non si vuol negare il suo aspetto di viva attualità
politica; e tuttavia i prigionieri che vengon portati alla luce dalla
segreta nella quale giacciono (e Beethoven introduce il coro con vaganti
accordi di dominante su pedale di tonica, giacché i prigioni sono
abbacinati e non vedono) anelano alla libertà spirituale, e le catene,
come quelle di Florestano, sono loro allestite dal peccato e
dall’ignoranza. Il coro dei prigionieri ha inequivocabile carattere
religioso; come lo hanno il duetto tra Florestano e Leonora quando ella
ha messo in fuga il tiranno Pizarro; e tutto l’ultimo quadro del Fidelio
.
Il rapporto stretto tra il Fidelio e la Nona Sinfonia non sfugge
ovviamente a nessuno. Ma ciò assevera il mio asserto. Il carattere
religioso (e non solo nazionalistico, come vuole il Buscaroli) della
Nona Sinfonia mi pare palese: secondo me l’ultimo movimento è il vero e
proprio Magnificat di Beethoven. Scrive Wagner: «Non sono le idee
espresse dalle parole di Schiller che attirano la nostra attenzione ma
il timbro cordiale del coro che ci attrae a unire la nostra voce a
partecipare come comunità a un ideale servizio divino, quel che accade
all’entrata del Corale nelle Passioni di Sebastian Bach».
Ciò
tuttavia non toglie che a me la Missa solemnis paia artisticamente ancor
più alta: Beethoven stesso la definisce «la mia opera più perfetta».
Ma
carattere religioso e chiave dell’intera opera (torno al Fidelio ) è in
un brano breve, prima facie un mero Recitativo, che però i sommi
direttori d’orchestra ben hanno compreso affidandolo a cantanti di prima
grandezza. Voglio citare soprattutto l’incisione meravigliosamente
diretta da Karl Böhm che, se ha come Rocco Gottlob Frick, fa intervenire
quale Don Fernando un sontuosissimo Martti Talvela. Del pari fa Karajan
che nella sua incisione (uno dei punti più alti della storia del disco)
affida il ruolo a Franz Crass. Don Fernando è il ministro di Stato che
giunge in apparenza per ispezionare il carcere, in realtà per far
trionfare ex alto la libertà: il suo Recitativo Des besten Königs Wink
und Wille ( Per cenno e volere dell’ottimo de’ Regi ), che approda a
elisia melodia ove si parla dell’umana fratellanza, ce lo mostra siccome
autentico inviato divino; e la fratellanza alla quale egli accenna è
evidentemente quella in Cristo: significativo, e particolare da solo
bastevole a mostrare il continuo sforzo di perfezionamento di Beethoven
nella costruzione, che nella Leonore esso manchi.
Di quest’incisione
diretta da Böhm esiste un «video»: la regia di Rudolph Sellner ottiene
una tale recitazione dagl’interpreti che, anche a non conoscere il
tedesco, si comprende ogni parola. Un sol difetto possiede, e purtroppo
gravissimo: tra il I e il II atto non fa la necessaria pausa e
addirittura durante l’introduzione orchestrale assistiamo alla ridiscesa
dei cattivi nelle segrete: anche i grandi commettono leggerezze
inspiegabili. Tanto Böhm quanto Karajan non eseguono l’Ouverture Leonora
n. 3 prima dell’ultimo quadro: quest’abitudine che io approvavo e venne
seguita anche da Muti alla Scala oggi più matura riflessione m’induce a
condannare: giacché anche questa grandiosa composizione contiene una
tale sintetica rappresentazione drammatica dell’intera Opera da
confliggere colla sua rappresentazione drammatica effettuale; né giova a
difendere la prassi tedesca, risalente alla seconda metà dell’Ottocento
e mettente capo a Hans von Bülow, il fatto che l’Ouverture venga
collocata, si dichiara, dopo che tutti i conflitti drammatici sono
risolti : ciò è mera apparenza: la risoluzione viene con il Recitativo
di don Fernando e lo scioglimento delle catene.
La prima versione
del Fidelio è la Leonore , o ur-Fidelio , in tre atti. Occorrerebbe
fosse conosciuta assai di più essendo anch’essa celestiale. Il confronto
col Fidelio è illuminante; a principiare dalle Ouvertures: quella in Mi
maggiore, concentrata e veloce, è davvero l’introduzione in medias res ;
quella oggi denominata Leonora n. 2 è un capolavoro d’invenzione,
costruzione e ampiezza: è più che un tempo di Sinfonia; ma Beethoven,
che non sbaglia mai, ben ha fatto a metterla da banda esaurendo essa in
parte l’interesse drammatico medesimo. Dicevo, è celestiale la Leonore :
contiene una profluvie di meraviglie che Beethoven, dramatis causa , ha
espunte dal Fidelio e che vanno conosciute di per sé, a prescindere
dalla posizione drammatica loro. V’è il Terzetto Ein Mann ist bald
genommen e il delizioso duetto tra Marcellina e Leonora Um in der Ehe
froh zu leben , con violino solo; e una pagina che piangiamo noi per
primi a calde lacrime è poi il sublime Recitativo di Florestano con oboe
solo (nella Leonore - Fidelio l’oboe sembra avere una funzione
d’incarnazione salvifica), prima del Duetto O namenlose Freude (III
nella Leonore e II nel Fidelio ), Ich kann mich noch nicht fassen . Più
in generale nella Leonore vi è una rifinitura musicale straordinaria: i
brani in comune delle due Opere vi durano assai di più ( per esempio, il
finale del I atto – II nella Leonore , che diverrà completamente
diverso nell’Opera definitiva; e la stessa introduzione del II – III
nella Leonore ) e duole che si perdano; ma la scorciatura drammatica del
Fidelio è unica.
Una cosa fondamentale mi resta da dire. La Leonora
e il Fidelio (le date estreme sono il 1805 e il 1814) in realtà
principiano nel 1790, a Bonn, Beethoven ventenne. I musicologi, che
capiscono pochissimo, giudicano opere d’occasione i due straordinarî
capolavori di quell’anno, i quali dimostrano come non sempre il genio
sia pazienza e accumulo ma possa apparire già tutt’intero
all’improvviso. Precocità simile fa pensare più a Alessandro Scarlatti
che a Mozart (a non considerare l’esplosione del genio quattordicenne
con il Mitridate, Rè di Ponto , splendente anticipazione dell’ Idomeneo
); e il fatto che tali opere fossero scritte quando Mozart era ancor
vivo mostra il divario fra i due Sommi. Si tratta della Cantata per la
morte di Giuseppe II (che ascoltai per la prima volta in un’alatissima
interpretazione di Franco Mannino), monumentale, e di quella, di poco
successiva, più breve ma pur elisia, per l’intronizzazione di Leopoldo
II. Ai nostri fini ci occuperemo della prima. Il testo si deve a uno
sventurato di nome Averdonk che ricorda Giuseppe II, in realtà un
sovrano meschino e tirannico, quale nemico dell’idra del fanatismo.
L’indagine storica del Buscaroli ha chiarito perché l’opera, a causa del
disprezzo onde Giuseppe II era universalmente avvolto, venne eseguita
solo nel 1885, auspice Brahms. L’introduzione orchestrale già
contrappone gli accordi che, in Fa minore e con anticipazione di Wagner,
daranno inizio al II atto del Fidelio colla disperazione di Florestano
nelle tenebre. Ma quando il testo dice «Allora salirono gli uomini alla
luce» si ode una sublime melodia dell’oboe in Fa maggiore: essa tornerà
identica al vero scioglimento del Fidelio , quando don Fernando avrà
fatto liberare dalla stessa Leonora Florestano dalle catene e verrà
cantato O Gott! Welch ein Augenblick! : ossia O Dio! Quale istante!
Quest’articolo
si chiuda col ricordare un umile e grande libro che la Scuola italiana
aveva quelli della mia generazione indotto a disprezzare senza conoscere
per l’enfatico panegirico che ne faceva; un libro nato dalla lotta per
la libertà e risalente alla considerazione religiosa della prigionia in
quanto tale; di pochi anni al Fidelio posteriore (1832): Le mie prigioni
di Silvio Pellico. Ivi la tirannia è absburgica, ma è tirannia non
meno.
L' utopia di Fidelio cantore della libertà
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