venerdì 5 dicembre 2014

Deplorare la favola della fine delle ideologie ma andare con chi organizza Human Factor...

Incomprensibile, da qualche tempo. La consueta profondità di analisi inciampa subito nei percorsi politici indicati e praticati [SGA].
Quando Berlinguer annunciava la palude 

Questione morale . Un ruolo-chiave, in questo disastro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedicente liquidazione delle ideologie

Alberto Burgio, il Manifesto 4.12.2014
«I par­titi di oggi sono soprat­tutto mac­chine di potere e di clien­tela. Gesti­scono tal­volta inte­ressi loschi, senza per­se­guire il bene comune. La loro stessa strut­tura orga­niz­za­tiva si è ormai con­for­mata su que­sto modello. Non sono più orga­niz­za­tori del popolo, for­ma­zioni che ne pro­muo­vono la matu­ra­zione civile: sono piut­to­sto fede­ra­zioni di cama­rille, cia­scuna con un boss e dei sotto-boss. Ecco per­ché dico che la que­stione morale è il cen­tro del pro­blema ita­liano. Se si con­ti­nua in que­sto modo, in Ita­lia la demo­cra­zia rischia di restrin­gersi e di sof­fo­care in una palude». A quanti sono tor­nate in mente in que­ste ore le parole di Enrico Ber­lin­guer nella famosa inter­vi­sta alla Repub­blica del feb­braio 1981? Sono tra­scorsi più di trent’anni e la palude ormai ci sommerge. 

Nel ven­ti­cin­que­simo della morte ci si ricorda final­mente di Leo­nardo Scia­scia. Anche Scia­scia lan­ciò l’allarme. «La palma va a nord», scrisse: mar­cia alla con­qui­sta del paese. Allu­deva al modello sici­liano d’impasto tra poli­tica e mafia. 
Un impa­sto nel quale dap­prin­ci­pio la mafia inti­mi­di­sce e cor­rompe, poi pene­tra le isti­tu­zioni e si fa Stato. Ripe­tu­ta­mente Scia­scia mise in guar­dia dal rischio che que­sto modello si gene­ra­liz­zasse. Oggi fin­giamo di sco­prire che mafia e ‘ndran­gheta si sono sta­bi­lite a Milano e con­trol­lano vasti set­tori dell’economia nazio­nale. E guar­diamo atter­riti al nuovo romanzo cri­mi­nale della mafia romana, edi­zione aggior­nata di quell’universo orrendo che ruo­tava intorno alla banda della Magliana, coin­vol­gendo anche allora mafia, poli­tica e ter­ro­ri­smo neofascista. 
In que­sti trenta-quarant’anni non solo non si è fatto argine con­tro il malaf­fare. Lo si è asse­con­dato, lo si è favo­rito. Gli anni Ottanta dell’«arricchitevi!» di cra­xiana memo­ria. Della Milano da bere e del patto scel­le­rato tra Stato e capi­tale pri­vato che aprì le vora­gini del debito pub­blico e dell’evasione fiscale. Poi venne l’unto di Arcore: la poli­tica usata (con la com­pli­cità di gran parte della «sini­stra») per sal­vare le aziende di fami­glia; la lega­liz­za­zione dei reati finan­ziari; l’esplosione delle ine­gua­glianze. E ven­nero le «riforme isti­tu­zio­nali» che, pro­prio per ini­zia­tiva della sini­stra post-comunista, die­dero avvio allo stra­vol­gi­mento maggioritario-presidenzialistico della forma di governo dise­gnata in Costituzione. 
Il pre­si­den­zia­li­smo negli enti locali ha reso le isti­tu­zioni più fra­gili e per­mea­bili ai clan anche per effetto di un appa­rente para­dosso. L’accentramento mono­cra­tico del comando è andato di pari passo con la disar­ti­co­la­zione dei par­titi poli­tici, cul­mi­nata nella farsa delle pri­ma­rie aperte. Que­sto pro­cesso ha da un lato azze­rato la dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e la fun­zione di orien­ta­mento cul­tu­rale svolta in pre­ce­denza dai par­titi di massa; dall’altro ha pro­mosso una sele­zione per­versa del ceto politico-amministrativo, pre­miando chi aveva le mani in pasta nel mondo degli affari. Così i par­titi – soprat­tutto i mag­giori – si sono ritro­vati sem­pre più spesso alla mercé delle con­sor­te­rie e delle cupole, secondo un mec­ca­ni­smo ana­logo a quello che in altri tempi per­mise a Cosa nostra di coman­dare nella Palermo di Lima, Cian­ci­mino e Gioia. 
Ma un ruolo-chiave, in que­sto disa­stro, lo ha svolto anche l’ideologia o, meglio, la sedi­cente liqui­da­zione delle ideo­lo­gie: l’avvento di una poli­tica che si pre­tende post-ideologica, che ha signi­fi­cato in realtà il con­gedo di gran parte della sini­stra ita­liana dalle lotte del lavoro e da una pro­spet­tiva cri­tica nei con­fronti degli spi­riti ani­mali del capi­ta­li­smo. Non è neces­sa­rio, certo, essere comu­ni­sti per com­pren­dere che mora­lità e buona poli­tica sono stret­ta­mente con­nesse tra loro nel segno del pri­mato della giu­sti­zia e del bene comune. Né in linea di prin­ci­pio ade­rire senza riserve alle ragioni del capi­ta­li­smo impe­di­sce di rico­no­scere l’importanza della que­stione morale e di essere «one­sti», per ripren­dere un lemma sul quale si è ancora di recente dibat­tuto. Ma se della mora­lità e dell’onestà non si ha una con­ce­zione povera e astratta, allora si com­prende facil­mente che entrambe coin­vol­gono diret­ta­mente il modo in cui si giu­di­cano l’ingiustizia sociale e il per­si­stere dei pri­vi­legi. Non è un caso che, riflet­tendo sulla que­stione morale, Ber­lin­guer in quella stessa inter­vi­sta parli pro­prio di que­sto. Della neces­sità di difen­dere «i poveri, gli emar­gi­nati, gli svan­tag­giati» e di met­terli dav­vero in con­di­zione di riscat­tarsi. Non è un caso che riven­di­chi le lotte del movi­mento ope­raio e dei comu­ni­sti, non sol­tanto con­tro il fasci­smo e con gli ope­rai, ma anche al fianco dei disoc­cu­pati e dei sot­to­pro­le­tari, delle donne e dei gio­vani. Né è casuale che insi­sta sulle gravi distor­sioni, gli immensi costi sociali, le dispa­rità e gli enormi spre­chi gene­rati dal «tipo di svi­luppo eco­no­mico e sociale capi­ta­li­stico». Per con­clu­derne che esso – «causa non solo dell’attuale crisi eco­no­mica, ma di feno­meni di bar­ba­rie» – deve essere supe­rato, pena il veri­fi­carsi di una cata­strofe sociale «di pro­por­zioni impensabili». 
Oggi come allora la que­stione morale inve­ste fron­tal­mente la poli­tica anche per que­sta via: è una fac­cia della sua com­ples­siva dege­ne­ra­zione. Non si tratta sol­tanto di ille­ga­lità, ma anche di irre­spon­sa­bi­lità di fronte alla deva­sta­zione sociale pro­vo­cata da trenta e passa anni di domi­nio del mer­cato, del capi­tale pri­vato, dell’interesse par­ti­co­lare. Que­stione morale e irre­spon­sa­bi­lità sociale della poli­tica non sono, qui e ora, feno­meni indi­pen­denti tra loro, bensì mani­fe­sta­zioni della stessa patologia.

Corsa di Renzi per l’Italicum
A rischio le ferie dei senatori Il traguardo del 7 gennaio Civati e Fassina potrebbero lasciare
di Maria Teresa Meli Corriere 5.12.14
ROMA Matteo Renzi passa tutta la giornata a Palazzo Chigi, tra telefonate e riunioni ristrette con i fedelissimi. Il commissariamento del Pd romano non ha chiuso definitivamente la questione. Mancano le ultime direttive: «Non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, però non dobbiamo negare che ci sono stati atteggiamenti inquietanti. Ci sono realtà che superano l’immaginazione e non possiamo fare finta di niente».
Ma Renzi è Renzi. E la vicenda romana non lo ferma. Sulla sua scrivania ci sono altri dossier aperti. Primo tra tutti quello della legge elettorale. Il presidente del Consiglio spinge per fare in fretta. Più in fretta di quanto si pensa. La legge dovrebbe essere approvata in Commissione in tempi rapidi, entro il 23 dicembre. Tutti, a Palazzo Madama, sono convinti che la riforma passerà in Aula il 15 gennaio. In realtà, il premier avrebbe dei progetti più ambiziosi, che dimezzerebbero le vacanze dei senatori: «Volendo, potremmo mandarla in porto entro il 7», ha confidato a pochi fedelissimi. Dopodiché, secondo Renzi, il resto del cammino sarebbe una passeggiata: «Alla Camera non abbiamo problemi di numeri».
Tanta fretta mette in allarme quelli che hanno paura delle elezioni anticipate, nonostante Renzi abbia assicurato che una clausola di salvaguardia ci sarà. I ribelli di Forza Italia cercano di convincere Berlusconi che questa accelerazione del premier conferma la sua voglia di andare al voto anticipato. E lo stesso leader di FI è dubbioso in proposito: «Certo, lui può rappresentare un pericolo per la democrazia se va alle elezioni anticipate».
Ma la realtà è un’altra. Renzi è riconoscente a Napolitano per il fatto di aver sottolineato che non sarà certo l’elezione del suo successore a bloccare le riforme. Per questa ragione vuole premere sull’acceleratore. Non intende fare nessuno sgarbo istituzionale al capo dello Stato, non vuole metterlo nelle condizioni di dover decidere di andare via in un momento delicato, in cui la riforma elettorale, a un passo dalla meta, non è ancora chiusa. Basta farla approvare dal Senato e poi, almeno di questo è convinto Renzi, il gioco è fatto.
Certo, bisogna raggiungere questo obiettivo senza lasciare morti e feriti — politicamente, ben si intende — sul campo, perché c’è un’altra partita, ancora più importante,che incombe. Quella del Quirinale. E Renzi intende giocarla di fino. Solo il cammino è più periglioso, perché la questione va trattata in Parlamento. Con Berlusconi, innanzitutto (i contatti tra Palazzo Chigi e via del Plebiscito, tramite i soliti ambasciatori, non si sono mai interrotti). E poi c’è anche la minoranza pd. Nel Partito democratico danno ormai per imminente, se non proprio una scissione, certamente l’uscita di Civati e Fassina . L’approdo successivo è pronto e si chiama Sel. Tutto è già stato più o meno approntato per l’operazione fuoriuscita. Ci sono almeno due tappe che scandiranno l’operazione: il 13 dicembre, a Bologna, Civati ha convocato la sua area, appuntamento cui assisterà e interverrà Vendola, oltre a Fassina. Poco più di un mese dopo, dal 23 al 25 gennaio, sarà Vendola a ospitare i due dissidenti del Pd, questa volta a Milano, alla conferenza «Human factor», una versione contemporanea delle antiche conferenze programmatiche di comunista memoria. Nell’ultima giornata sono previsti gli interventi del duo Civati-Fassina e, a quel che circola negli ambienti della sinistra, dovrebbe arrivare l’annuncio della fuoriuscita del tandem dal Pd e dell’ingresso in Sel (di Civati si dice da tempo che diventerebbe il vice di Vendola).
Se questo è il timing della separazione, ci sono però delle incognite costituite da alcuni passaggi politici importanti che potrebbero non inficiare l’operazione, ma forse ritardarla o cambiarne i percorsi. Come, appunto, l’elezione del nuovo inquilino del Colle, innanzitutto, prevista per la metà di gennaio: lo strappo dei due potrebbe anche prodursi in quell’occasione, se non dovessero apertamente votare il candidato deciso dal vertice del Pd.
Per ora, comunque, Renzi adotta il suo metodo: lasciare che alleati e avversari si scannino tra di loro. E fare il «suo» nome all’ultimo momento. Sarà un politico di lungo corso, sarà un pd, ma non di sinistra (come ha chiesto Berlusconi), sarà un cattolico, sarà un esponente di fronte al quale anche ai prodiani sarà difficile dire di no, assicurano dall’entourage del segretario. Sarà Pierluigi Castagnetti, sussurra qualcuno. Ma senza conferma alcuna. 

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