L’intervista. Luciana Castellina
Il Secolo Breve non fu soltanto orrori e ora voglio fondare il partito dei nonni
di Silvia Truzzi il Fatto 7.12.14
Roma
Ne La prigioniera Proust sostiene che le “passioni politiche sono come
le altre, non durano” perché sopraggiungono nuove generazioni che non le
capiscono più e perché la stessa generazione che le ha provate cambia.
Se è una verità, non è universale, o almeno così sembra in questo
salotto ai Parioli, dove Luciana Castellina sta seduta su un divano,
dritta come un fuso. Attorno a lei, la luce che ancora oggi - le
primavere sono 85 - la bellezza diffonde. La sua è una storia tutta
sulla strada tra Roma, dove è nata, e Trieste, dove abitano le radici
più forti. “Mica tutti i pezzi di famiglia hanno lo stesso peso. La
parte importante per me è quella materna. Mio nonno era ebreo: gli ebrei
sono invadenti, arroganti e quindi hanno pesato di più. Mia madre e mio
padre si sono separati quando avevo quattro anni. L’avvocato Pacelli,
il fratello del Papa, dietro l’esborso di molti quattrini, aveva fatto
annullare il matrimonio davanti alla Sacra Rota, che in pratica non
c’era stato: e io non si capiva bene come avessi fatto a nascere. Mi
pareva molto strano da bimba, anche se loro sono sempre rimasti amici”.
Molte cose si spiegano già qui. “Il mio nonno Liebmann era un hippie
ante litteram, era scappato a 17 anni da Trieste insieme a Oberdan per
non fare il servizio militare nell’Impero austroungarico. Ho trovato un
libro, La vera vita di Guglielmo Oberdank di uno storico inglese, che
riporta tutta la corrispondenza con il nonno. In cui viene anche detto
che la famosa storia dell’incontro tra Oberdan e Garibaldi a Roma - in
cui Oberdan gettandosi ai piedi di Garibaldi gli chiede di liberare
Trieste - era una bufala, inventata di sana pianta da mio nonno. Aveva
fatto il pittore, poi è andato in Egitto, è tornato, ha conosciuto la
nonna che veniva da una famiglia di possidenti agrari di Tarquinia,
supercattolici. Non li fecero sposare. Per la disperazione il nonno andò
in Argentina. Dopo otto anni la nonna trovò il suo indirizzo, lo cercò e
lui la invitò a raggiungerlo, con un telegramma di una sola parola:
“Vieni”. Lei scappò con la nave da Genova. Era il 1890. Sono sempre
stati poveri, ma si amavano moltissimo”.
Lei è cresciuta a Roma, però.
Esattamente
qui. Ho frequentato il Tasso. I miei compagni erano Citto Maselli,
Carlo Bertelli, Lietta Tornabuoni. Ma io ero molto piccola, molto
ragazzina. Fino a 16 anni non mi erano neanche cresciute le tette, tutte
le mie amiche erano donne fatte, io ero magra come un chiodo e sembravo
una bambina: m’imbarazzava molto. Per tutti ero l’amico Lucianina, al
maschile.
Che ricordi ha del Fascismo?
Ero compagna di scuola di
Anna Maria Mussolini, con lei ho fatto tutte le elementari e le medie.
Andavo a giocare a Villa Torlonia. Il 25 luglio del ‘43, io stavo
giocando a tennis con Anna Maria a Riccione. A un certo punto la partita
fu interrotta, vennero due guardie del corpo e le dissero che doveva
andare via subito perché il padre era stato arrestato. Non avevo ancora
compiuto 14 anni. La mattina dopo, nel retro di un quaderno scolastico,
iniziai a scrivere il mio “diario politico”. Che comincia proprio così:
“Oggi è caduto il Fascismo. ” Registravo un evento misterioso, perché di
cosa fosse il non fascismo io non avevo minimamente idea. Questo diario
l’ho tenuto fino al ‘47, quando mi sono iscritta al Partito comunista.
A casa sua che aria tirava?
Un
antifascismo da barzellette sui gerarchi, non molto di più. Nel ‘44
quando liberarono Roma, io decisi di saltare la V ginnasio e andare
direttamente al liceo. Non sapevo bene né il latino né la matematica: mi
consigliarono di andare a lezione a casa Apicella. Una mia compagna di
scuola, tra l’altro molto fascista, mi disse che c’era la madre che
insegnava matematica e la figlia Agata che insegnava latino: con un
viaggio solo in bicicletta risolvevo entrambe le questioni. Agata era la
mamma di Nanni Moretti: quando è morta ho fatto la sua commemorazione
in chiesa. Erano tutti antifascisti, gli Apicella, in un modo molto
consapevole: è stato un incontro importante.
La politica arriva subito.
Ho
finito il liceo nell'estate del ‘47, nel frattempo mi ero avvicinata al
Partito comunista. Nel ‘45, Roma era già stata liberata, fu organizzata
una grande manifestazione per Trieste italiana, una cosa che io avevo
succhiato con il latte. Alla manifestazione, arrivati in piazza Esedra, i
comunisti ci picchiarono di santa ragione. Noi non sapevamo che la
nostra manifestazione era stata promossa dai fascisti. Che infatti
dettero l’assalto a mano armata alla sede del Pci, allora nella vicina
via Nazionale. Mentre ero sui gradini di piazza Esedra, venne fuori
dalla sede del Pci un gruppo di persone. Tra cui un certo Iacchia,
triestino: fece un comizio improvvisato che mi colpì molto: disse tante
cose che non sapevo. Intanto perché a casa mia gli sloveni venivano
chiamati sciavì, cioé schiavi. La prima pulizia etnica ce la siamo
inventata noi, perché negli anni Venti i fascisti cacciarono tutti gli
sloveni dal Friuli. E ne ammazzarono moltissimi. M’incuriosì il Partito
comunista e andai a trovarlo a scuola: e così incontrai Citto e tutti
gli altri animatori del circolo Tasso. Che cominciai a frequentare:
allora volevo fare il pittore.
Perché il pittore, al maschile?
Non
so, pittrice non mi viene naturale. Comunque la prima cosa che il Pci
mi ha chiesto di fare era una conferenza sul Cubismo, e così attraverso
il Cubismo entrai in contatto con il comunismo. Finito il liceo andai al
Festival della gioventù a Praga e poi a vedere la Jugoslavia, visto che
nella mia vita era stata così importante la vicenda di Trieste. E andai
a costruire la ferrovia: sono udarnik, che è il diploma di stakanovista
perché avevo un alto livello di produttività. Sono stata un mese e
mezzo lì, con una brigata internazionale: ero l’unica italiana, c’erano
indiani, indonesiani, ragazzi da tutto il mondo. Paesi di cui io nemmeno
sospettavo l’esistenza. Sapevo il tedesco e il francese, l’inglese l’ho
imparato lì. Poi tornai, ripassai per Trieste con la tuta e il
distintivo. La zia Ester come prima cosa mi disse: “Vai a farti la
doccia e togliti quella roba di dosso”.
E quando s’iscrive al partito?
Nel
‘47, c’erano le prime elezioni amministrative a Roma. Alla vigilia, in
piazza Vittorio fu accoltellato un ragazzo, Gervasio Federici, mentre
appiccicava dei manifesti della Dc. Furono accusati dei giovani
comunisti, che si fecero un po’ di anni di galera. Questo episodio diede
inizio a tempi oscuri: il periodo delle speranze era finito, il mondo
si era richiuso. Entrare nel partito significava fare qualcosa di più.
Intanto mi sono iscritta a Legge, anche se non credo di aver mai
assistito a una lezione. All’università ci stavo sempre, perché ero
segretaria della sezione universitaria. Ho scelto Legge perché quando mi
sono iscritta al Pci avevo un grande complesso d’inferiorità: erano
tutti così colti... Avrei scelto Filosofia, ma non pensavo di essere
abbastanza intelligente. Volevo diventare economicamente autonoma, e
dunque ecco perché Legge. Ho fatto la pratica per un anno, ma ho sempre
lavorato per il partito.
Il partito di Togliatti.
Era un uomo di
straordinaria intelligenza e di grande fascino. Basta pensare ai suoi
funerali: una cosa immensa, un oceano di folla. La prima volta che
arrivò a Roma quasi un milione di persone. Togliatti parlava come un
professore di liceo, il contrario del populismo, della demagogia. Faceva
dell’Unità un giornale di alta cultura: nonostante tutte queste cose,
era amatissimo. Il partito comunista, all’inizio, era una massa informe
di ribelli, soprattutto in Meridione. Fu Togliatti a trasformare questa
ribellione in un soggetto politico inserito nel processo democratico. La
democrazia in larga parte è stata costruita dai grandi partiti di
massa. E specialmente dal Pci.
Che militante era lei?
Io ho fatto
molta milizia bruta. Andavo nelle borgate. Il Pci ebbe l’intelligenza di
capire che a Milano c’erano gli operai, ma a Roma il popolo era il
sottoproletariato: le borgate erano piene di prostitute e ladri.
Andavate a galvanizzare le masse, direbbe Guareschi.
Si
trattava proprio di educarle, le masse: queste persone non sapevano
nulla, erano davvero ignoranti. La prima cosa della democrazia è
trasformare le persone da sudditi in cittadini. Adesso quando vedo la
democrazia ridotta agli I like it, o I don't like it…
Che pensa del partito di Matteo Renzi?
Non
mi piace innanzitutto perché ha ridotto la democrazia a un sondaggio su
quello che fa e decide lui. In questo Paese è stata cancellata la
memoria politica. Io voglio fondare il partito dei nonni, e ho già
trovato molte adesioni. C’è stata una rottura generazionale, più forte
in Italia che in qualsiasi altro Paese. E non è stata un'operazione
indolore. Mi riferisco allo scioglimento del Pci: la rimozione del
passato è stata un'abiura. Ed è rimasta un’idea falsa, cioè che tutto
ciò che si è fatto nel Novecento siano stati errori e orrori.
La Bolognina sembrava l’unica strada possibile.
Nessuno
si ricorda che ci fu un’opposizione fortissima! Il Pci fu sciolto in
due tempi: il primo congresso cui fu portata la proposta, a Bologna
nell’89, e poi dopo un anno di discussione, nel gennaio del ‘91, il
partito fu definitivamente sciolto. In quel periodo 800mila militanti se
ne andarono silenziosamente, perché gli era stata spezzata la spina
dorsale. Dicendo che tutto era stato sbagliato: non ce n’era bisogno,
non era vero. Senza il Partito comunista in Italia non ci sarebbero
state le conquiste operaie, il sistema sanitario nazionale, le pensioni,
la scuola. E anche la Resistenza è stata fatta largamente dai
comunisti. La vita sociale, poi: non c’era un paese in Italia la cui
piazza principale non ospitasse la sede del partito e del sindacato.
Questo ha voluto dire la crescita di una coscienza civica. Certo che gli
errori dell’Unione Sovietica erano stati terribili.
La rottamazione del Pci è stata l’inizio di tutti i
guai?
Non
solo questo. Anche il berlusconismo è stato un tentativo di cancellare
il passato. Berlusconi è riuscito a convincere la gente che i comunisti
fossero sempre stati al governo... invece la cosa straordinaria del Pci
era che era riuscito a cambiare il Paese stando all’opposizione, a
incidere sulla politica in modo profondo. È stato presentato un secolo
altro, diverso. Lo vedo anche con i miei nipoti: i giovani non sanno più
nulla. Se cancelli il passato, cancelli anche l’avvenire. Resta solo la
gabbia del presente.
Poi dal partito l’hanno cacciata.
Avevamo
praticato un atto d’indisciplina: fondare una rivista in dissenso non
solo sui rapporti con l’Unione Sovietica, quella fu una tra le ragioni.
Cioè dire non si tratta di errori, si tratta di rivedere criticamente
tutta questa storia. Cosa che Berlinguer ha fatto, dieci anni più tardi.
Se l'avesse fatto prima, quando la sinistra era molto forte, avrebbe
acquistato il significato di una critica da sinistra. La critica fatta
nell’81, quando era già in atto la controffensiva delle destre -
thatcheriana, reaganiana - ha assunto un significato pesante: il
socialismo non è possibile. Ma le nostre critiche erano anche su un
altro terreno, e non secondario: dicevamo che ormai l’Italia era un
Paese a capitalismo avanzato dove si erano create nuove contraddizioni. E
così vennero fuori la questione ecologica, il consumismo, l’alienazione
del lavoro. Essere radiata fu un trauma enorme per me, come se mi
avessero gettato dalla finestra. Ma c’era il ‘68 tutto attorno e non mi
ritrovai nel vuoto. A me sembrava impossibile fare politica al di fuori
del Pci. Per fortuna, cadendo dalla finestra atterrai su un terreno
molto coinvolgente, quello del movimento.
Il manifesto di oggi?
Ci
scrivo ancora, è fatto da una generazione - a parte direttore e
condirettore - giovane, che ha perso un po’ di memoria. Questa
generazione è più fragile, noi avevamo un’esperienza politica molto
coinvolgente, strutturata. Il manifesto non è nato come giornale, è nato
come iniziativa politica. Adesso è un giornale.
La vita pubblica si è intrecciata anche alla vita privata in quegli anni.
Con
Alfredo Reichlin, il padre dei miei due figli, ci siamo separati
all’inizio degli anni Sessanta. Siamo rimasti molto amici. Alfredo mi ha
insegnato molte cose: lui era già un intellettuale, io ero una
ragazzina militante di base. Quando era direttore dell’Unità andavamo
qualche volta a cena da Togliatti. Era un uomo simpatico, colto,
gradevole, ironico. Dopo una vita di esili, clandestinità, guerra di
Spagna, dopo un’esistenza difficile, in Nilde aveva trovato una donna
normale. Gli piaceva aiutare ad apparecchiare, perché voleva una casa in
ordine, una bella tavola dove accogliere gli amici. Gustava la
normalità di un rapporto che non aveva mai avuto e lei è stata molto
intelligente perché ha liberato l’immagine delle donne comuniste, viste
come delle erinni. La militanza si poteva conciliare con l’idea di
femminilità, di accoglienza.
E Lucio Magri?
L’ho incontrato
all'inizio degli anni Cinquanta. Siamo stati insieme molti anni. Lui ha
avuto una grande influenza politica su tutti noi. Ho cercato di
impedirgli in tutti i modi di suicidarsi: quel gesto è stato il frutto
di una depressione fortissima. Una depressione politica - dal 2004 la
sinistra ha cominciato a degenerare - e lui si è chiuso a casa in un
rifiuto totale, assoluto. Poi la morte di Mara è stata molto dolorosa.
Noi due ci siamo visti e sentiti fino alla fine. Sono sempre rimasta
legata ai miei ex compagni: non ho una famiglia ma una tribù, una
relazione molto più interessante e varia.
Con Magri siete stati anche deputati insieme.
Ho
fatto una prima legislatura con il PdUP. Cioè Dp, la sigla collettiva
con cui ci presentammo alle elezioni del ‘76 con Lotta continua e il
gruppo di Vittorio Foa, i socialisti dello Psiup, la sinistra del
partito socialista. Io ero presidente del gruppo parlamentare, eravamo
pochi, bisognava occuparsi di tutto. E imparare tutto: sanità, scuola,
politica estera. Quando noi entrammo, il Parlamento non aveva mai visto
un gruppo così piccolo, non sapevano che farsene di noi. Non c’erano
nemmeno i locali. Ci dissero di andare con i radicali, che erano stati
eletti in quattro. E noi: con i radicali mai!
In quegli anni i rapporti con gli ex compagni del
Pci com’erano?
Violentissimi.
Ci dicevano: ma chi vi paga? Poi hanno chiesto scusa. Giorgio
Napolitano è stato uno dei nostri principali oppositori, perché noi nel
Pci eravamo parte dell’ala ingraiana. Berlinguer era più possibilista.
Tanto è vero che Enrico nel 1984 venne al nostro congresso, ci chiese di
rientrare visto che molte delle ragioni che ci avevano diviso erano
state superate. Lui aveva operato lo strappo con l’Urss e abbandonato la
linea che aveva portato ai governi di unità nazionale. Aveva, insomma,
operato una svolta a sinistra. Accettammo. Erano passati 15 anni, pochi
mesi dopo Berlinguer purtroppo è morto. E noi rientrammo in un Pci che
aveva preso una deriva di destra. Tanto è vero che qualche anno dopo si è
sciolto.
Torniamo indietro di qualche anno. Suscitò molto clamore il suo arresto in Grecia, nel ‘67.
Sono
stata la prima giornalista arrestata dai colonnelli. Collaboravo con
Paese sera, dove avevo già lavorato. Arrivai ad Atene e il colpo di
Stato non si vedeva, avevano messo duemila persone arrestate nello
stadio. Furio Colombo era disperato: era lì per la Rai e mentre i
giornalisti potevano scrivere, lui doveva mandare delle immagini. E non
ce n’erano. Io avevo contatti riservati con le famiglie di alcuni
arrestati. Mi dissero che non sapevano dove si trovavano i loro
familiari, ma che era stata data indicazione di un commissariato dove si
potevano portare dei pacchi. Andammo con Furio e il cameraman al
commissariato, riuscimmo a filmare qualcosa. La pellicola uscì dalla
Grecia nella valigia di una turista americana che andava a Roma: furono
le prime immagini trasmesse del colpo di Stato. La polizia greca sapeva
benissimo che io avevo dei contatti. La mattina dopo andai a colazione
con i colleghi, a tavola dissi che avevo trovato una telefonata di Pino
Rauti, che era lì per il Tempo. “Naturalmente non ho richiamato”. Igor
Man mi rimproverò: “Hai fatto male, i colleghi si richiamano sempre”. E
aveva ragione: Rauti voleva avvisarmi. Tornai in camera a fare la
doccia, uscii dal bagno in accappatoio e trovai la stanza piena di
poliziotti. Siccome avevo visto molti film, dissi subito: “Voglio
parlare con la mia ambasciata”. Ma il telefono era già stato staccato.
Tornai in bagno e mangiai tutti gli indirizzi. Passando per la hall
dell’albergo c’era Bernardo Valli, che mi ha seguita fino alla sede
della polizia di via Bouboulinas con un tassì. Ci fu subito una protesta
di tutti gli inviati che si trovavano ad Atene. Il ministro degli
esteri era Fanfani e riferì in Senato della Grecia, tuonando contro il
mio arresto. Cosa vuole, tutti in quel momento si volevano rifare una
verginità antifascista... E Fanfani ordinò di farmi liberare
immediatamente. L’ambasciatore ottenne di trasformare l’arresto in
espulsione immediata, con il primo aereo. Ma trattò: “Non il primo,
l’ultimo aereo”. Così la dignità dell’antifascismo era salva.
Era già stata in carcere.
Tre
volte. La quarta, nel ‘63, ci restai per quasi due mesi: ho ancora le
lettere dei miei figli. C’era stata una manifestazione di edili, era
l’epoca del sacco di Roma. Mi trovavo a Botteghe oscure, uscii e andai a
vedere. C’era uno che strillava, io cercai di liberarlo e portarono via
anche me. Resistenza aggravata: minimo cinque anni di galera. A scuola,
la maestra chiese a Lucrezia di alzarsi e dire perché la sua mamma era
stata arrestata. Siccome avevano detto che io avevo picchiato un
poliziotto con un ombrello, Lucrezia disse che non era vero. Prima di
tutto perché non possedevo ombrelli. E perché ero “disombrellata di
natura”.
Che effetto le fa che sua figlia Lucrezia scriva sul Corriere della Sera?
Negli
anni Sessanta il Corriere era un giornale violentemente reazionario. Le
cose sono cambiate: quando è uscito un mio libro, qualche anno fa, ho
chiesto a Ferruccio de Bortoli di presentarlo. Cosa che ai tempi non
avrei mai fatto. I miei figli sono parte di una generazione che ha fatto
il Sessantotto molto da dentro. Entrambi hanno studiato in America,
un’esperienza che li ha molto cambiati anche culturalmente. Sono parte
di quella generazione di mezzo che ha conservato pochi legami con quella
esperienza. Loro si sentono di sinistra, intendiamoci bene. Io penso
che non lo siano.
Cosa vuol dire essere di sinistra?
Che la libertà non può essere disgiunta dall’uguaglianza, un valore completamente naufragato. Questo è il primato.
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