di Sabino Cassese Corriere 8.12.14
Le
tensioni interne ai partiti (minacce di scissioni, richiami alla
disciplina interna, invocazione della libertà di coscienza, richieste di
maggiore democrazia) sono solo fatti passeggeri o sono, invece,
indicatori di una fase nuova della storia della «forma partito»? E quali
effetti producono i cambiamenti in corso sull’assetto dei poteri
pubblici?
I nomi dei partiti erano prima scelti per caratterizzarsi e
dividere (comunisti, socialisti, democristiani), ora sono sempre meno
identificativi (chi si dichiara contrario alla democrazia e alla
libertà?). I partiti stanno perdendo la loro base: gli iscritti si sono
dimezzati in mezzo secolo, e continuano
a diminuire, mentre la
popolazione è aumentata; si allarga, quindi, la forbice tra iscritti e
votanti. Anche questi ultimi diminuiscono: segno sia di sfiducia nei
partiti, sia del fatto che il sistema politico italiano si è allineato
alle altre democrazie mature. La capillare distribuzione dei partiti sul
territorio non c’è più e l’organizzazione diviene fluida. La militanza
volontaria scompare. Diventa determinante il ruolo del «leader». Il
finanziamento mediante il tesseramento viene sostituito dal
finanziamento con cene a pagamento e il microfinanziamento dal basso (
crowdfunding ). I partiti che ricorrono a primarie aperte a non iscritti
abbattono le mura che dividono iscritti e simpatizzanti.
La
«liquefazione» dei partiti li trasforma in aggregazioni elettorali,
attive al momento del voto. Lo stesso séguito elettorale si organizza
volta per volta, con travasi di voti da un partito all’altro. Questo
trasforma la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di
movimento, aumenta l’importanza del «mercato politico», consente ai
partiti di uscire dai loro fortini e di andare oltre il proprio
elettorato tradizionale, ma correndo maggiori rischi. I partiti sono
meno rigidi, meno chiusi. Minacciano meno
la democrazia a causa del
loro carattere autocratico ed oligarchico, come temeva Maurice Duverger
nel 1951. Corrispondono sempre meno al modello costituzionale di una
piramide che cresce dal basso (i cittadini si associano in partiti per
concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale,
secondo l’articolo 49 della Costituzione).
Antonio Gramsci ha
scritto, riferendosi a Machiavelli, che i partiti sono il «moderno
Principe», in quanto organismi che guidano
i processi politici e in
cui si concreta una volontà collettiva. Il «moderno Principe» ha due
funzioni, quella di formazione politica della società e quella di scelta
della rappresentanza parlamentare.
La destrutturazione in corso dei
partiti politici li fa divenire più leggeri, più capaci di conquistare
maggiore seguito elettorale, ma ne indebolisce l’azione educativa e la
forza selettiva. Dove potrebbe svolgersi la prima, se non esiste più la
«scuola» dei partiti, quella distribuita sul territorio, nelle sezioni e
nei circoli, nei quali ferveva la vita collettiva del partito -
organizzazione? Come possono essere selezionati gli eletti nel
Parlamento e nei consigli regionali e comunali, se manca la macchina del
reclutamento e della valutazione e si procede per nomina dall’alto?
Questo
indebolimento dei partiti come cinghia di trasmissione della domanda
politica si riflette sullo Stato e sui poteri locali, dove le esigenze
collettive arrivano sfocate e il personale elettivo è impreparato.
Dunque,
l’indebolimento della macchina del partito - organizzazione è forse un
passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni
erette intorno ad esso e di allargare la base elettorale, avviando la
formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono
far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica
e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio.
Istruzioni per l’uso dei fondi ai partiti
di Nadia Urbinati Repubblica 7.12.14
ALLA
domanda se sia vera la voce che circola sui media secondo la quale
Salvatore Buzzi o qualche altro indagato nell’inchiesta Mafia Capitale
abbia partecipato alla cena di finanziamento del Pd, Matteo Renzi ha
riposto che lui «non ne ha la più pallida idea». Una risposta molto
insoddisfacente. Se si vuole con coerenza gestire il sistema di
finanziamento privato dei partiti non si può non sapere; si deve fare in
modo di sapere bene e tutto, di conoscere uno per uno i contribuenti e i
donatori, anche qualora si tratti di avventori casuali di una cena per
la sottoscrizione. La responsabilità aumenta e chi dirige deve avere
idee chiare, non pallide. Se il solo modo che un partito ha per
finanziarsi è andare sul mercato libero alla ricerca di sostenitori,
allora occorre che i regolamenti dei partiti approntino delle norme di
sicurezza specifiche, un sistema di paratie adatto al regime
privatistico. Tutti i partiti hanno voluto immettersi in questo regime
proprio per rispondere all’ondata di indignazione popolare causata dai
ripetu- ti scandali. Ma per non cadere dalla padella alla brace occorre
prevedere nuovi livelli di responsabilità, di trasparenza, di controllo e
di repressione, se possibile ancora più severi di quelli in uso nel
sistema di finanziamento pubblico. Diversamente, non si comprende bene
quale utilità possa venire ai cittadini e al sistema politico.
Sembra
essere ad ogni modo un segno di improvvida ingenuità pensare (come si è
pensato sostenendo la legge votata dal Parlamento a fine febbraio 2014)
che con l’abolizione dei finanziamenti pubblici il sistema dei partiti
avrebbe guadagnato in onestà e le casse pubbliche subìto minori
vessazioni. Le norme non cambiano il carattere morale degli attori, o
comunque non repentinamente. E nella speranza che il cambiamento avvenga
celermente è necessario predisporre norme severissime di controllo per
disincentivare ex ante le tentazioni di abuso. Diversamente, non resterà
che sperare nell’efficacia dell’azione repressiva dello Stato, una
soluzione che, come si intuisce, non sposta di una virgola le cose. Come
prima, quando c’era il finanziamento pubblico, anche ora si deve
sperare nella repressione, che comunque arriverà sempre dopo che i fatti
cri- minosi sono avvenuti. Stando così le cose, è davvero difficile
comprendere quale sia la grande differenza tra il passato e il presente,
e quale convenienza sia venuta alla legalità da questa legge che doveva
bonificare la vita politica. Non vale il lamento per cui da noi si
fanno riforme gattopardesche per non riformare nulla. Questo gesuitis
modi comodo, mentre non spiega proprio nulla, serve in effetti a
giustificare tutto. E a riempire le cronache quotidiane di scandalismo.
Abbiamo
varie volte messo in dubbio la prudenza di una legge che privatizza
completamente le risorse ai partiti. Il caso statunitense prova la
ragionevolezza di questo scetticismo, come sanno bene i giuristi e gli
opinionisti americani che da anni combattono inutilmente per limitare e
meglio controllare l’uso di risorse private nelle campagne elettorali.
La trasformazione della politica in una merce ha effetti che sono
comunque di corruttela. In che senso? Esistono due forme di corruzione,
una che deriva dalla violazione delle leggi e una che deriva dalla
violazione dei principi democratici. Nel caso del finanziamento privato
la seconda forma di corruzione si fa ancora più grave, perché lasciando
che siano solo i privati a finanziare i partiti si finisce per dare alle
differenze economiche la possibilità di tradursi direttamente in
differenze di potere di influenza politica, anche quando i donatori non
chiedono esplicitamente ai legislatori di operare per loro.
E che
dire dell’altro argomento usato per giustificare l’abolizione del
finanziamento pubblico, ovvero che se non altro avrebbe sgravato le
finanze pubbliche di un peso ormai insopportabile? I recentissimi fatti
romani sembrano smentire questo argomento in maniera evidente. Infatti, è
comunque sempre a spese del pubblico che vengono fatti i calcoli
affaristici. La borsa pubblica è quella che viene presa di mira; e la si
può violare sia usando impunemente le risorse che contiene, sia
servendosene per ripagare in qualche modo per i finanziamenti privati
ricevuti (per esempio truccando gare di appalto, assegnando commesse,
chiudendo il classico occhio, e così via). In tempi come il nostro di
forte e persistente disoccupazione viene il sospetto che il mercato
della politica sia il solo mercato in movimento, la sola azienda in
attivo. Senza che questo porti giovamento al paese.
Corruzione, le troppe chiacciere degli smaliziati
di Ernesto Galli della Loggia Corriere 7.12.14
Non
è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla
fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e
dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello
filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione
dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici
pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico
tra politica, amministrazione e malavita. È — si direbbe — la fase
immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte
del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla
settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo
all’ordine del giorno?
Non è vero che la politica, perlomeno quella
nazionale — come ci viene detto — è sbalordita, è sconvolta, è pronta a
correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino
Alfano detto l’altro ieri che«Roma non è una città marcia, Roma
non è una città sporca, è una citta sana»?
E
come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti
personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena — da
Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli — ha
mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa.
E
visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi
procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è
mai capitato d’interessarsi
di quanto sta venendo fuori oggi. Così
come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai
interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di
corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto),
ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata
alla Lega delle cooperative. Chissà come mai.
In Italia funziona
così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in
politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio
capitolino di galantuomini come
«er cecato» e «er maialotto», si
pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e
dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del
Pd romano: peraltro già ridotta
da tempo a un Ok Corral per
politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste
mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi,
sono in grado di apprezzare l’efficacia.
L
a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso
di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito
accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e
rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di
scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere,
e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma
non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una
maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto
riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo
sindacale».
Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito
trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a
mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone
dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono
risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto
in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo
capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di
decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali — mischiando
l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo
renziano attuale — non sopportano giustamente che si parli di declino
dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque
ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi
i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica.
Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri ,
quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24
ore su 24.
Quella politica che si ostina a non capire che il Paese
ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica,
del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma
che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi,
se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo — uno scatto
morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto
— ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona
volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di
quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le
contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli
italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta
di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco
sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.
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