lunedì 8 dicembre 2014

E' l'omicidio della democrazia moderna e dei partiti politici a produrre corruzione strutturale: vandea e buon senso

Il lato debole dei partiti liquidi
di Sabino Cassese Corriere 8.12.14

Le tensioni interne ai partiti (minacce di scissioni, richiami alla disciplina interna, invocazione della libertà di coscienza, richieste di maggiore democrazia) sono solo fatti passeggeri o sono, invece, indicatori di una fase nuova della storia della «forma partito»? E quali effetti producono i cambiamenti in corso sull’assetto dei poteri pubblici? 
I nomi dei partiti erano prima scelti per caratterizzarsi e dividere (comunisti, socialisti, democristiani), ora sono sempre meno identificativi (chi si dichiara contrario alla democrazia e alla libertà?). I partiti stanno perdendo la loro base: gli iscritti si sono dimezzati in mezzo secolo, e continuano 
a diminuire, mentre la popolazione è aumentata; si allarga, quindi, la forbice tra iscritti e votanti. Anche questi ultimi diminuiscono: segno sia di sfiducia nei partiti, sia del fatto che il sistema politico italiano si è allineato alle altre democrazie mature. La capillare distribuzione dei partiti sul territorio non c’è più e l’organizzazione diviene fluida. La militanza volontaria scompare. Diventa determinante il ruolo del «leader». Il finanziamento mediante il tesseramento viene sostituito dal finanziamento con cene a pagamento e il microfinanziamento dal basso ( crowdfunding ). I partiti che ricorrono a primarie aperte a non iscritti abbattono le mura che dividono iscritti e simpatizzanti. 
La «liquefazione» dei partiti li trasforma in aggregazioni elettorali, attive al momento del voto. Lo stesso séguito elettorale si organizza volta per volta, con travasi di voti da un partito all’altro. Questo trasforma la lotta elettorale da guerra di posizione in guerra di movimento, aumenta l’importanza del «mercato politico», consente ai partiti di uscire dai loro fortini e di andare oltre il proprio elettorato tradizionale, ma correndo maggiori rischi. I partiti sono meno rigidi, meno chiusi. Minacciano meno 
la democrazia a causa del loro carattere autocratico ed oligarchico, come temeva Maurice Duverger nel 1951. Corrispondono sempre meno al modello costituzionale di una piramide che cresce dal basso (i cittadini si associano in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, secondo l’articolo 49 della Costituzione). 
Antonio Gramsci ha scritto, riferendosi a Machiavelli, che i partiti sono il «moderno Principe», in quanto organismi che guidano 
i processi politici e in cui si concreta una volontà collettiva. Il «moderno Principe» ha due funzioni, quella di formazione politica della società e quella di scelta della rappresentanza parlamentare.
La destrutturazione in corso dei partiti politici li fa divenire più leggeri, più capaci di conquistare maggiore seguito elettorale, ma ne indebolisce l’azione educativa e la forza selettiva. Dove potrebbe svolgersi la prima, se non esiste più la «scuola» dei partiti, quella distribuita sul territorio, nelle sezioni e nei circoli, nei quali ferveva la vita collettiva del partito - organizzazione? Come possono essere selezionati gli eletti nel Parlamento e nei consigli regionali e comunali, se manca la macchina del reclutamento e della valutazione e si procede per nomina dall’alto? 
Questo indebolimento dei partiti come cinghia di trasmissione della domanda politica si riflette sullo Stato e sui poteri locali, dove le esigenze collettive arrivano sfocate e il personale elettivo è impreparato. 
Dunque, l’indebolimento della macchina del partito - organizzazione è forse un passo avanti per la democrazia, consente di rompere le fortificazioni erette intorno ad esso e di allargare la base elettorale, avviando la formazione di corpi politici a vocazione maggioritaria, che non debbono far ricorso a coalizioni. Ma produce anche un vuoto di educazione civica e di selezione della classe dirigente, al quale bisogna porre rimedio. 



Istruzioni per l’uso dei fondi ai partiti

di Nadia Urbinati Repubblica 7.12.14

ALLA domanda se sia vera la voce che circola sui media secondo la quale Salvatore Buzzi o qualche altro indagato nell’inchiesta Mafia Capitale abbia partecipato alla cena di finanziamento del Pd, Matteo Renzi ha riposto che lui «non ne ha la più pallida idea». Una risposta molto insoddisfacente. Se si vuole con coerenza gestire il sistema di finanziamento privato dei partiti non si può non sapere; si deve fare in modo di sapere bene e tutto, di conoscere uno per uno i contribuenti e i donatori, anche qualora si tratti di avventori casuali di una cena per la sottoscrizione. La responsabilità aumenta e chi dirige deve avere idee chiare, non pallide. Se il solo modo che un partito ha per finanziarsi è andare sul mercato libero alla ricerca di sostenitori, allora occorre che i regolamenti dei partiti approntino delle norme di sicurezza specifiche, un sistema di paratie adatto al regime privatistico. Tutti i partiti hanno voluto immettersi in questo regime proprio per rispondere all’ondata di indignazione popolare causata dai ripetu- ti scandali. Ma per non cadere dalla padella alla brace occorre prevedere nuovi livelli di responsabilità, di trasparenza, di controllo e di repressione, se possibile ancora più severi di quelli in uso nel sistema di finanziamento pubblico. Diversamente, non si comprende bene quale utilità possa venire ai cittadini e al sistema politico.
Sembra essere ad ogni modo un segno di improvvida ingenuità pensare (come si è pensato sostenendo la legge votata dal Parlamento a fine febbraio 2014) che con l’abolizione dei finanziamenti pubblici il sistema dei partiti avrebbe guadagnato in onestà e le casse pubbliche subìto minori vessazioni. Le norme non cambiano il carattere morale degli attori, o comunque non repentinamente. E nella speranza che il cambiamento avvenga celermente è necessario predisporre norme severissime di controllo per disincentivare ex ante le tentazioni di abuso. Diversamente, non resterà che sperare nell’efficacia dell’azione repressiva dello Stato, una soluzione che, come si intuisce, non sposta di una virgola le cose. Come prima, quando c’era il finanziamento pubblico, anche ora si deve sperare nella repressione, che comunque arriverà sempre dopo che i fatti cri- minosi sono avvenuti. Stando così le cose, è davvero difficile comprendere quale sia la grande differenza tra il passato e il presente, e quale convenienza sia venuta alla legalità da questa legge che doveva bonificare la vita politica. Non vale il lamento per cui da noi si fanno riforme gattopardesche per non riformare nulla. Questo gesuitis modi comodo, mentre non spiega proprio nulla, serve in effetti a giustificare tutto. E a riempire le cronache quotidiane di scandalismo.
Abbiamo varie volte messo in dubbio la prudenza di una legge che privatizza completamente le risorse ai partiti. Il caso statunitense prova la ragionevolezza di questo scetticismo, come sanno bene i giuristi e gli opinionisti americani che da anni combattono inutilmente per limitare e meglio controllare l’uso di risorse private nelle campagne elettorali. La trasformazione della politica in una merce ha effetti che sono comunque di corruttela. In che senso? Esistono due forme di corruzione, una che deriva dalla violazione delle leggi e una che deriva dalla violazione dei principi democratici. Nel caso del finanziamento privato la seconda forma di corruzione si fa ancora più grave, perché lasciando che siano solo i privati a finanziare i partiti si finisce per dare alle differenze economiche la possibilità di tradursi direttamente in differenze di potere di influenza politica, anche quando i donatori non chiedono esplicitamente ai legislatori di operare per loro.
E che dire dell’altro argomento usato per giustificare l’abolizione del finanziamento pubblico, ovvero che se non altro avrebbe sgravato le finanze pubbliche di un peso ormai insopportabile? I recentissimi fatti romani sembrano smentire questo argomento in maniera evidente. Infatti, è comunque sempre a spese del pubblico che vengono fatti i calcoli affaristici. La borsa pubblica è quella che viene presa di mira; e la si può violare sia usando impunemente le risorse che contiene, sia servendosene per ripagare in qualche modo per i finanziamenti privati ricevuti (per esempio truccando gare di appalto, assegnando commesse, chiudendo il classico occhio, e così via). In tempi come il nostro di forte e persistente disoccupazione viene il sospetto che il mercato della politica sia il solo mercato in movimento, la sola azienda in attivo. Senza che questo porti giovamento al paese.



Corruzione, le troppe chiacciere degli smaliziati

di Ernesto Galli della Loggia Corriere 7.12.14

Non è più Tangentopoli, ormai. È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge (Mahagonny: e dunque chi se ne importa se il termine «mafia» non è proprio quello filologicamente più appropriato). Non è più, insomma, la collusione dell’epoca di Mani pulite tra industriali senza scrupoli e politici pronti a vendere e a vendersi. Ormai è l’intreccio sempre più organico tra politica, amministrazione e malavita. È — si direbbe — la fase immediatamente precedente la conquista del potere direttamente da parte del crimine. Chiamiamo le cose con il loro nome: almeno fino alla settimana scorsa a Roma, nella capitale d’Italia, non era proprio questo all’ordine del giorno? 
Non è vero che la politica, perlomeno quella nazionale — come ci viene detto — è sbalordita, è sconvolta, è pronta a correre ai ripari. Non ha forse il ministro dell’Interno Angelino Alfano detto l’altro ieri che«Roma non è una città marcia, Roma
non è una città sporca, è una citta sana»?
E come no, deve essere senz’altro così, visto che nessuno dei tanti personaggi importanti che si sono mossi per anni su quella scena — da Veltroni a Zingaretti, dalla Meloni a Tajani, da Gasparri a Sassoli — ha mai fatto una piega, si è mai accorto di nulla, ha mai detto qualcosa. 
E visto che in tutto questo periodo neppure ad uno dei tanti egregi procuratori della Repubblica succedutisi a Roma prima di quello attuale è mai capitato d’interessarsi
di quanto sta venendo fuori oggi. Così come del resto a nessuno, a Roma o fuori Roma, sembra che abbia mai interessato il fatto che da anni, ogni volta che c’è un caso di corruzione politico-affaristica (dall’Expo al Mose, a Roma, appunto), ogni volta spunta immancabile lo zampino di qualche società affiliata alla Lega delle cooperative. Chissà come mai. 
In Italia funziona così. Porre questioni scomode o guardare in fondo alle cose non usa, in politica meno che altrove. Ovvio dunque che di fronte all’arrembaggio capitolino di galantuomini come
«er cecato» e «er maialotto», si pensi che la risposta adeguata sia una manciata di autosospensioni e dimissioni o lo scioglimento di una federazione di partito (quella del Pd romano: peraltro già ridotta
da tempo a un Ok Corral per politicanti affamati di quart’ordine): misure già tutte viste e riviste mille altre volte in mille occasioni analoghe. E di cui tutti, quindi,
sono in grado di apprezzare l’efficacia.
L a verità è che finché al centro della scena c’era Berlusconi, ogni caso di pubblica corruzione suscitava, per ragioni ben note, un dibattito accesissimo tra presunti «garantisti» e presunti «giustizialisti», e rispettive vaste tifoserie, divenendo immediatamente un terreno di scontro politico. Oggi invece, tramontata la presenza dell’ex Cavaliere, e spappolatosi il centrodestra, di fronte a fatti come quelli di Roma non sembra esserci più posto, nel campo della politica, che per una maggioritaria tendenza alla sordità, a «ridimensionare», e per quanto riguarda il modo di reagire, ad attenersi, come si dice, al «minimo sindacale».
Prevale ormai tra gli addetti ai lavori il partito trasversale degli «smaliziati». Quelli che per l’appunto, di fronte a mezzo Comune di Roma al servizio del malaffare, irridono alla «Corleone dei cravattari», fanno un sorriso di sufficienza ogni volta che sentono risuonare dopo un sostantivo l’aggettivo «morale», e giudicano dall’alto in basso gli sprovveduti che di politica capendoci poco, sono solo capaci di augurarsi, molto banalmente, che ci sia in giro un minimo di decenza. Gli «smaliziati» di professione, i quali — mischiando l’ottimismo craxiano-berlusconiano di un tempo con l’antigufismo renziano attuale — non sopportano giustamente che si parli di declino dell’Italia, di crisi storica del Paese, facendosi beffa di qualunque ragionamento critico cerchi di guardare oltre l’oggi, di chiunque evochi i problemi antichi della Penisola. Perché conta solo la politica. Naturalmente la politica che c’è: cioè la politichetta de’ noantri , quella della chiacchiera non stop giornalistico-televisiva-romana, 24 ore su 24. 
Quella politica che si ostina a non capire che il Paese ha certo bisogno delle riforme istituzionali e della ripresa economica, del Jobs act, di un altro Parlamento, degli 80 euro e via di seguito. Ma che nulla di tutto ciò servirà minimamente, si può essere certissimi, se non ci sarà qualcosa d’altro. Chiamiamola come vogliamo — uno scatto morale, un nuovo sentimento nazionale, una voglia collettiva di riscatto — ma insomma qualcosa a cui la politica deve essere capace una buona volta di dare voce, un segnale da trasmettere alle menti e ai cuori di quei milioni di «sprovveduti» che pur con tutti i limiti e le contraddizioni che conosciamo costituiscono la maggioranza degli italiani. Un segnale forte di serietà, di decisione, e una buona volta di capacità di colpire per primi. Siamo stufi di vedere all’attacco sempre gli «altri» e «noi» colpire sempre di rimessa.

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