I
tre scrittori hanno firmato la richiesta insieme ad altri 800
israeliani tra cui premio Nobel Daniel Kahneman: «È un atto di
incoraggiamento soprattutto per il negoziato»
Con questa lettera, gli scrittori Amos Oz, David Grossman e Abraham
Yehoshua intervengono nel dibattito sul riconoscimento della Palestina Il testo, firmato da 850 personalità di spicco israeliane, è rivolto in
primis al Parlamento belga che in settimana voterà sullo Stato
palestinese
La Stampa 8.12.14
Petizione insieme ad altri 800 israeliani, tra cui il premio Nobel Daniel Kahneman «È un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato. E anche perché Abu Mazen continui nelle trattative»
Corriere 8.12.14
«Riconoscete lo Stato palestinese» L’appello all’Europa degli scrittori ebrei
Corriere 8.12.14
Forse
la storia, un pezzo grande di storia, si sta muovendo. E si sta
muovendo sulla scia della cultura. In Israele, gli scrittori Amos Oz,
David Grossman e Abraham Yehoshua hanno firmato una petizione che chiede
ai Parlamenti dell’Unione Europea di riconoscere la Palestina come
Stato, e auspica il blocco degli insediamenti dei coloni israeliani
oltre alle dimissioni di Benjamin Netanyahu. Ai 3 scrittori si sono
aggiunti circa 800 concittadini, fra cui il premio Nobel Daniel
Kahneman. Il dibattito divampa anche su Twitter, come rivela uno degli
ultimi messaggi: «Riconoscere la Palestina: giusta decisione, nel
momento sbagliato». Intanto alcuni Parlamenti europei, e i governi dei
loro Stati, già da settimane sembrano muoversi in questa direzione. Di
questo si parlerà probabilmente fra 4 giorni a Bruxelles, nel vertice
dei ministri degli Esteri dell’Unione.
La petizione degli scrittori, ha spiegato Abraham Yehoshua, va intesa come «un atto di incoraggiamento per il negoziato.
E
anche perché Abu Mazen continui nelle trattative». Non solo: alle
prossime elezioni, «Netanyahu lasci. È il momento che si formi un blocco
di centrosinistra per impedire uno Stato binazionale, e per dire basta
agli insediamenti». Anche in Europa, le parole «Stato palestinese»
stanno polarizzando opinioni e polemiche come forse mai negli ultimi
anni. Il Parlamento federale belga voterà a giorni sul riconoscimento:
atto solo formale, ma comunque significativo. Come le risoluzioni già
approvate dai Parlamenti in Svezia, Irlanda e Spagna. Gran Bretagna e
Francia sono sullo stesso binario. Circola qualche indiscrezione anche
sull’Italia. E su Danimarca, Grecia, Portogallo, Austria, Lussemburgo.
I
tre scrittori hanno sottoscritto un appello ai Parlamento europei
insieme ad altri 800 cittadini dello Stato ebraico tra i quali il Nobel
Daniel Kahneman "Un atto di incoraggiamento soprattutto per il negoziato"
Repubblica 8.12.14
Israele L’ultima guerra di Bibi
Tra
cento giorni si vota e sarà un referendum che il premier Netanyahu ha
voluto su se stesso Stretto tra l’ultradestra e i timori di una
rinascita del centrosinistra ha scelto di puntare ancora di più sulla
divisione tra ebrei e musulmani
di Bernardo Valli Repubblica 8.12.14
SHALTIEL
Abrabanel non credeva in nessun Stato. Né in uno Stato israeliano né in
uno Stato palestinese. Né in uno Stato binazionale israelo-palestinese.
Odiava l’idea in sé di un mondo frantumato in tanti Stati, con
frontiere, con muri di divisione, fili spinati, passaporti, eserciti,
bandiere e monete diverse. Gli sembrava assurda, arcaica, primitiva,
omicida, ormai superata. Per questo Abrabanel era definito traditore dai
suoi compatrioti israeliani come Giuda Iscariota lo fu per i cristiani.
L’apostolo tradì Gesù per eccesso di fede, perché era sicuro che una
volta sulla croce avrebbe resistito alla morte e dimostrato la sua
natura divina. In cui Giuda fermamente credeva, essendo il più cristiano
dei cristiani. Anzi il solo vero cristiano. Si impiccherà quando vedrà
Gesù agonizzare sulla croce, in apparenza abbandonato da Dio. La
Resurrezione avviene troppo tardi, quando lui, Giuda, si è già appeso al
ramo di un fico. Cosi passerà alla storia come un traditore. La stessa
sorte tocca all’israeliano Abrabanel che, solitario e odiato, affronta
l’ondata sionista e predica una società senza divisioni tra arabi ed
ebrei. Tanti traditori sono stati in realtà eroi misconosciuti dalla
Storia.
Giuda e Abrabanel sono i veri protagonisti (defunti)
dell’ultimo grande romanzo di Amos Oz: una fiction con una straordinaria
carica di attualità, anche se superbamente estranea alla cronaca e
discosta dalla storia conosciuta. La cronaca e la quasi storia da cui
straripano le nuove convulsioni politiche della società israeliana,
posta davanti a una prospettiva che la ragione ritiene incancellabile,
inevitabile e che al tempo stesso la paura e la diffidenza rendono
irrealizzabile. Comunque impossibile nel futuro scrutabile. L’utopistica
saggezza di Abrabanel, il traditore, è facilmente sconfitta dagli
irresistibili sentimenti di odio. Chi vi presta attenzione considera la
sua proposta blasfema e assurda. Ma quei sentimenti rendono impossibile
anche quel che appare ragionevole: impediscono la nascita di due Stati
sovrani affiancati, uno israeliano e l’altro palestinese, oppure uno
Stato binazionale israelo — palestinese.
Oltre alla spartizione della
Palestina sotto mandato britannico decisa dalle Nazioni Unite
(rifiutata dagli arabi come ingiusta settant’anni fa), centotrentacinque
Paesi hanno riconosciuto lo Stato palestinese, ed ora si accingono a
fare altrettanto anche i parlamenti europei. Quello di Svezia, Francia,
Gran Bretagna, Spagna si sono già pronunciati o stanno per farlo. Ma
sono legittimazioni simboliche che non impegnano i governi. La Palestina
è ancora occupata (o «contesa») e rosicchiata puntualmente dagli
insediamenti ebraici, che continuano imperterriti nonostante le
risoluzioni dell’Onu e i rimproveri degli americani, i fedeli e
imbarazzati protettori di Israele.
Le convulsioni della società
politica israeliana sono imputate ai normali problemi economici o
all’intolleranza nei confronti di leader impopolari. Ma sullo sfondo, in
profondità, c’è sempre il tormentato rifiuto di una convivenza alla
pari con i palestinesi. Ed è quello che congela gli animi e determina le
scelte politiche. Le crisi periodiche sono per non pochi aspetti simili
a quelle italiane (litigi tra partiti, scontri di personalità, dispute
sui testi dello Stato) ma il tutto avviene in un contesto assai più
drammatico, costellato di morti. E alle spalle c’è una storia che spinge
all’angoscia dell’insicurezza. Da qui il nostro riguardo: il nostro
inevitabile rispetto.
Tra cento giorni, il 17 marzo, gli israeliani
andranno a votare, benché i quattro anni dalla legislatura non siano
ancora trascorsi. La crisi esplode il 23 novembre quando il Consiglio
dei ministri approva e manda alla Knesset (il Parlamento) un documento
in cui si definisce Israele come uno «Stato nazionale del popolo
ebraico». Il testo rafforza il ruolo della tradizionale legge ebraica
che dà agli ebrei diritti particolari, privilegiati, e limita quelli
degli israeliani non ebrei. Non è una novità che la legge neghi i
“diritti nazionali” agli arabi come minoranza. Israele è stato creato da
ebrei per gli ebrei. Ad esempio la “legge del ritorno” garantisce la
cittadinanza agli immigrati ebrei, mentre i palestinesi emigrati nel
1948 non possono ritornare. I motivi sono evidenti: se i palestinesi
rifugiatisi nei paesi arabi rientrassero in quello che adesso è lo Stato
ebraico, gli equilibri di quest’ultimo verrebbero sconvolti. Le leggi
sono diverse per gli uni e per gli altri, ma la situazione si impone,
pur non rispettando il principio democratico dell’uguaglianza dei
diritti.
A Gerusalemme due dei cinque partiti della coalizione di
governo si sono opposti al testo di legge che rafforza i diritti
particolari degli ebrei, oltre quelli esistenti, e limita quelli degli
israe- liani non ebrei. Lo stesso nuovo presidente della Repubblica,
Reuven Rivlin, un religioso, avverte che la legge proposta discrimina
gli arabi come un tempo gli ebrei nel mondo. Protestano anche gli
americani ribadendo che tutti i cittadini devono avere gli stessi
diritti.
Il 2 dicembre, Benjamin Netanyahu, in politica da ventisei
anni, al governo per quattordici anni di cui quasi nove come primo
ministro, destituisce due leader centristi: dal dicastero della
giustizia Tzipi Livni e da quello delle finanze Yair Lapid. Netanyahu
teme un complotto ai suoi danni. Sospetta che Yair Lapid, capo del
partito “C’è un futuro”, stia tramando con Yitzhak Herzog, capo del
partito laburista, per formare un governo di centro sinistra. Nonostante
le smentite di Lapid e di Herzog, Netanyahu persiste e il 3 dicembre la
Knesset vota la dissoluzione.
Netanyahu è un uomo controverso,
ambizioso, arrogante, deciso, abile, capace di dosare la propria
intransigenza di leader di destra. A non pochi esponenti del Likud, il
suo partito, appare troppo moderato, mentre soprattutto non appare
abbastanza forte, quindi vulnerabile, al suo alleato — concorrente
Naftali Bennet, capo del “Focolare ebraico”, un miliardario religioso di
estrema destra, espressione dei coloni ebrei nei territori occupati.
Netanyahu si sente stretto da tutte le parti. Gli estremisti, come
Avigdor Liberman, il ministro degli Esteri, leader dei russi immigrati
negli ultimi decenni, gli rimprovera di non essere stato abbastanza
deciso durante la guerra d’agosto, a Gaza. Moshe Kahlon, ex ministro
delle comunicazioni ed ex esponente del Likud, ha conquistato una certa
popolarità chiedendo un forte ribasso dei telefoni cellulari, forte di
questa notorietà progetta un proprio partito che potrebbe ridurre la
forza del Likud. Alcuni membri del Likud, tra i più decisi, non esitano
nel frattempo a organizzare preghiere sulla spianata delle Moschee a
Gerusalemme, considerate provocatorie dagli arabi. Anche se gli ebrei
considerano sacra la spianata, sotto la quale ci sono le rovine del
grande Tempio di Gerusalemme. Netanyahu non manca dunque di guai. Le
vampate di terrorismo palestinese mettono in discussione la sua capacità
di assicurare la sicurezza.
Proponendo uno Stato nazionale del
popolo ebraico Netanyahu si è rivolto a un elettorato in cui prevale una
maggioranza di destra. Destra e centrodestra raccolgono il 51 per cento
dei consensi stando ai sondaggi. E da questa area elettorale Netanyahu
deve raccogliere i voti che gli consentirebbero di prolungare il suo
potere (secondo per durata soltanto a quello di Ben-Gurion, il fondatore
di Israele). L’accentuazione dei diritti per i cittadini ebrei e la
limitazione di quelli per gli israeliani arabi (un milione seicentomila
con i drusi) dovrebbero contenere il successo del partito estremista di
Bennet e attenuare le intemperanze dei disciplinati membri del Likud,
per i quali il primo ministro è un moderato. Ma la svolta a destra
comporta dei rischi per Natanyahu. La legge discriminatoria, che
approfondisce ancora di più la divisione tra ebrei e musulmani, ha
suscitato accuse severe al governo. Si è parlato di apartheid. Non sono
mancati coloro che hanno assimilato l’Israele preconizzato da Netanyahu
ai Paesi arabi circostanti in cui non prevale certo la democrazia. E
dove dominano i principi religiosi, sia pure a scopo nazionalista.
In
sostanza Benjamin Netanyahu, anticipando le elezioni, ha indetto un
referendum sulla propria persona. Persona controversa anche per uno
stile di vita dispendioso in un paese in cui le differenze economiche
non sono trascurabili. Soprattutto in una stagione di crisi. Gli
israeliani dovranno decidere: ancora Netanyahu? Il partito centrista di
Lapid, il giornalista autore di romanzi gialli, potrebbe riscuotere lo
stesso successo dello scorso anno nelle classi medie laiche di Tel Aviv.
Le agevolazioni fiscali per la nuova casa e la riduzione dei sussidi
alle comunità religiose gli consentirono allora di raccogliere molti
voti. In tal caso potrebbe riaffiorare la possibilità, in verità non
facile, di un centro sinistra. Non facile perché il paese si sbilancia a
destra.
Comunque Netanyahu, stretto dai numerosi avversari stanchi,
esausti del suo interminabile governo, non ha la rielezione a portata di
mano. Sciogliendo la Knesset ha forse sventato i complotti, ma gli
ostacoli restano. E sullo sfondo c’è sempre l’irrisolta convivenza con i
palestinesi, che ormai il mondo giudica severamente. E il giudizio del
mondo, nonostante l’orgoglio, pesa sulla pelle di Israele e dei suoi
abitanti.
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