domenica 14 dicembre 2014

Parla Edgar Reitz


«La mia Germania vi fa paura? Siamo noi a temere il futuro»Edgar Reitz, il regista di Heimat, racconta un Paese «che ha perso le utopie»intervista di Valerio Cappelli Corriere 14.12.14
La Germania fa paura? No: è la Germania ad aver paura. Edgar Reitz, classe 1932, è uno dei maestri del cinema tedesco. Il regista che nella saga di « Heimat» ha raccontato il suo Paese, da metà 800 al 2000, attraverso la lente di un remoto villaggio dell’Hunsrück dove egli è cresciuto (per poi spostare la cinepresa a Monaco di Baviera e Berlino), rovescia il binocolo degli analisti. «La Germania ha paura del futuro. È straordinario come i miei connazionali, al profilarsi di una crisi, reagiscano con timore maggiore rispetto ad altre nazioni europee. Dopo il terremoto di Fukushima, fummo noi a essere subito presi dal panico, e spegnemmo le nostre centrali nucleari. Se si verificano atti di guerra in Ucraina, nel mio Paese si risvegliano antichi incubi». 

Questa paura ha un riflesso nell’attuale crisi economica? 
«La paura tedesca fa sì che in una situazione di crisi, come quella economica (che non deriva da noi o dai Paesi vicini ma dalle dinamiche del capitalismo e dalle banche), siano ricercate misure di stabilizzazione e austerity. Non esiste più una “utopia tedesca”. Tutti sanno che ogni utopia del XX secolo è tramontata. Non dobbiamo dimenticare che i tedeschi possono sentirsi ragionevolmente al sicuro nel loro territorio solo da un quarto di secolo, dalla caduta del Muro; vogliono preservare tutto ciò con la pace. Non c’è Paese in cui il desiderio di pace sia superiore a quello della Germania». 
Eppure l’Europa più povera teme il potere economico tedesco. 
«Sono sorpreso che siamo temuti. Noi percepiamo l’esatto contrario. Siamo sulla difensiva, cerchiamo solo di non lasciarci destabilizzare dall’esterno». 
Il passato nazionalsocialista ha un ruolo in tutto questo? 
«La memoria di un popolo è molto lunga. Nessuno oserebbe parlare ora di un Reich millenario. Siamo già felici di non perdere il nostro lavoro domani. Quando a 20 anni cominciai a viaggiare, in quanto tedesco, venivo considerato come un nazista. Non era d’aiuto dire che all’epoca ero un bambino. La mia generazione ha fatto qualunque cosa per porre fine all’eredità nazista. La Germania oggi è un Paese democratico che non ha soppiantato la sua storia. Non è solo Hitler, di cui dobbiamo vergognarci ancora, ma anche gli eccessi dell’Impero e i secoli di feudalesimo, ad aver gettato sfiducia. Insieme con Weimar, l’unica rivoluzione democratica del 1848 è fallita, dunque non abbiamo alcun mito positivo dalla fondazione dello Stato, come lo ebbero i francesi». 
«Heimat», il suo film in quattro cicli e 64 ore, è una parola intraducibile dai molti significati: nostalgia, luogo natio, patria. Come si è evoluto nel tempo il concetto di patria? 
«Il rapporto con lo Stato non è mai stato positivo in Germania, la gente non ha dimenticato che ha recato nei secoli disonore e disgrazie. Oggi differenziamo i concetti di patria e Stato. La patria è la terra materna dell’infanzia e la terra che lega le persone al territorio; lo Stato è un costrutto astratto, una terra “paterna”, campo d’azione dei politici e delle autorità. Nessuno di noi nutre amore per lo Stato, al contrario l’amore per la patria diverrà sempre più importante. Un crescente patriottismo regionale significa per molti tedeschi una nuova identità». 
Che impatto ebbe su di lei la vita «bohémienne» di Monaco, quando dalla provincia arrivò nel 1952? 
«Ero ragazzo, Monaco mostrava le ferite della guerra, rovine e case improvvisate appartenevano allo scenario quotidiano. La leggenda di città delle arti e dell’allegra vita notturna risaliva al periodo precedente la Prima guerra mondiale. Dopo due settimane mi resi conto di aver inseguito un’illusione. Ma la mia generazione, negli anni 60, riuscì a ridare slancio culturale a Monaco. Berlino, a quel tempo dietro la Cortina di ferro, era il luogo dei nostri sogni». 
Con l’ultimo capitolo della sua saga, «Die andere Heimat», ha girato la ruota della Storia all’indietro, nell’800. 


«È un film indipendente dalla trilogia. Da 30 anni ai miei film metto la parola “Heimat” nel titolo, è un trucco con cui tendo la mano agli “heimatiani”, in realtà tratto temi molto diversi fra loro. Non c’è bisogno di vedere i capitoli precedenti per comprenderlo. Attraverso due fratelli racconto l’immigrazione, il desiderio di vivere in una società migliore. Volevo richiamare alla memoria di noi europei che circa 150 anni fa eravamo disperati e miserabili proprio come le persone che dall’Africa, dall’Asia o dall’Est si rivolgono a noi per condurre una vita libera. Ovunque si formi un divario economico, la gente cercherà l’uguaglianza, un processo che richiederà molto tempo e causerà nuove crisi fino al costituirsi di una sorta di unità planetaria. Rispetto alla trilogia ha una durata di soli 220 minuti, un cortometraggio al confronto. Nonostante il grande successo dei miei film in Italia, non ho ancora una distribuzione nelle sale. Amo il vostro Paese, il rispetto che avete per le arti. Non a caso “Heimat 2”, che parla di giovani artisti turbolenti, individualisti e dalla vita promiscua, in Germania fu visto con una certa diffidenza mentre in Italia ebbe molto più successo. La Mostra di Venezia nel 1967 premiò il mio debutto. Mi sento vicino e familiare ai vostri grandi maestri, Rossellini, De Sica, Visconti, che a differenza dei registi tedeschi incardinano le storie in un luogo preciso, come ho fatto io in “Heimat”. Spesso spettatori di terre lontane mi hanno detto che avevo narrato esattamente la loro storia. All’inizio ero molto stupito, perché racconto cose personali che riguardano miei ricordi ed esperienze. Il segreto sembra essere che quanto più veniamo compresi, tanto meglio capiamo noi stessi». 

Quando la democrazia tedesca si vedeva soltanto al Kabarett 
Paola Sorge narra la storia della stagione del varietà in Germania da prima di Hitler fino alle due repubbliche del dopoguerra 
Che spasso dovevano essere il grande regista Max Reinhardt vestito da Pierrot e il drammaturgo Frank Wedekind con indosso una tunica rossa e una mannaia in mano. L’uno nel ruolo di conférencier davanti al pubblico esultante del cabaret berlinese Schall und Rauch inaugurato nel gennaio del 1901, pochi giorni dopo quello aperto dal barone von Wolzogen, l’Überbrettl, nei pressi di Alexanderplatz. L’altro, a Monaco, nel leggendario locale Undici boia nel quartiere bohémien di Schwabing, pronto a intonare le sue grottesche ballate come Brigitte B. o L’assassinio delle zie. 
Chansonnier
Quello chansonnier era in realtà il più rivoluzionario autore di teatro dell’epoca: Brecht impazziva per i suoi testi, Heinrich Mann lo venerava e Karl Kraus lo lanciò nella sua Vienna. Era un uomo con un grande carisma, ostile alla morale sessuale borghese, alla censura e al Kaiser che lo spedì in carcere. Un cantastorie irriverente e mordace che contribuì a fare del Kabarett (è d’uopo a quelle latitudini la cappa) uno spazio di libertà e critica sociale dove, più che altrove, affiorava lo spirito dell’epoca, come ci racconta con grande vivacità Paola Sorge nel suo libro Kabarett! Satira, politica e cultura tedesca in scena dal 1901al 1967 pubblicato dall’editore Elliot. Un Baedeker della risata, dello sberleffo, del ghigno satirico, in cui l’autrice invita non di rado il lettore a partecipare direttamente ad alcune serate. La sua ospitalità riserva infinite sorprese come i gustosi testi tradotti e i personaggi che si alternano sulla scena della «piccola musa» per la quale scrivevano poeti e artisti di primo piano: dal rivoluzionario Erich Mühsam a Walter Mehring, dal vagabondo Klabund allo scrittore Erich Kästner e al grande Tucholsky, uno degli spiriti più graffianti dell’epoca weimariana. Le musiche erano spesso di Friedrich Hollaender, autore di canzoni di successo come quelle lanciate da una provocante Lola Lola, cioè Marlene Dietrich, nel film L’angelo azzurro di von Sternberg. 
In quei locali, trasformati spesso in club privati per evitare le noie della censura, dove gli autori erano per lo più pagati con un pasto o con pochi spiccioli, nacquero grandi dive come Gussi Holl, che si esibiva allo Chat noir di Berlino nella centralissima Friedrichstrasse per un pubblico d’alto bordo, o la piccola e maliziosa Claire Waldoff che, poco lontano, al Linden-Kabarett, apostrofava con spavalderia l’imperatore. Era già una star prima dello scoppio della Grande Guerra e divenne un prototipo per le cantanti degli Anni Venti e Trenta come Blandine Ebinger e Trude Hestenberg. Quest’ultima aveva aperto il locale Wilde Bühne nella cantina del Theater des Westens dove esordì con un paio di ballate il giovane Brecht e dove si esibì anche Josephine Baker, ingaggiata nel 1925 al Café Sanssouci dal musicista Rudolf Nelson che aveva un debole per le chanson piccanti.
La satira politica
Sono gli anni ruggenti in cui la scena del Kabarett mostra sempre più il volto d’una Germania democratica, antimilitarista e antifascista. E trova accoglienza nei caffè, mentre vanno di moda le riviste in celebri locali come il Wintergarten e il Metropol, dove furoreggia la maliarda Fritz Massary che stregava gli uomini con la sua voce. Col tempo poi il Kabarett si trasforma, la satira tagliente lascia spazio a spassose canzoni e storielle, mentre la scena è sempre più occupata da avvenenti soubrettes. Tuttavia quel luogo di impertinenti utopie resta ancora negli anni weimariani il «campo di battaglia - come sognava Hollaender - su cui con le sole armi pulite delle parole giuste e della musica si possono distruggere le armi d’acciaio». John Heartfield, membro del gruppo dadaista berlinese, ci aggiungeva dell’altro: per lo Schall und Rauch in versione postbellica disegnava marionette e manifesti, poi in esilio, creerà fotomontaggi contro Hitler, Göring e perfino il «superuomo» Mussolini. 
I figli di Mann
Ormai il Kabarett era sempre più subissato dal vociare nazista; lontani erano i tempi in cui la brutta, rossa Rosa Valetti voleva cambiare il mondo con le sue canzoni politiche al Café Grössenwahn sul Kurfürstendamm, mentre a Monaco il clown metafisico Karl Valentin scatenava risate con i «drammi in dieci minuti». Proprio nella capitale bavarese alla vigilia dell’avvento di Hitler al potere, i figli di Thomas Mann, Erika e Klaus, con la grande diseuse Therese Giehse, aprono il Macinapepe, che mette alla gogna le false illusioni e la violenza del nazismo. Un tentativo temerario che segnò la fine di un’epoca. 
Il dopoguerra è un’altra storia. Ma non mancano i talenti né le voci controcorrente, come quella affilata e inesorabile di Wolfgang Neuss, che non risparmiava nessuno, nemmeno Heinrich Böll e i socialdemocratici. Mentre a Berlino Est risuona la chitarra di Wolf Biermann, che fustiga i burocrati e invoca libertà. L’uno boicottato dalla stampa nazionale, l’altro bandito dal proprio Paese. Ancora una volta il Kabarett immagina una Germania diversa e sogna l’impossibile. 

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