“Si annunciano punizioni, non ci sto. La contestazione di Bari? Infiltrati tra le bandiere rosse. Ma non mi tiro indietro. Faremo vedere al premier da che parte sta l’Italia. Nonostante i giornaloni”
intervista di di Carlo Tecce il Fatto 14.12.14
Massimo D’Alema è in campagna, nei suoi poderi, il vino di questi tempi va travasato, non ancora bevuto. Ci vuole pazienza, con l’uva. Ma per Matteo Renzi non aspetta, non fa deroghe, il Líder Máximo. Oggi sarà assente al raduno democratico di Roma. “Non vado all’assemblea nazionale del partito, non voglio assistere alle minacce. Per come si preannuncia, sarà una resa dei conti interni, una serie di punizioni. Non è una sede adeguata per affrontare il merito dei problemi, come la crisi economica che ci travolge o i limiti delle riforme”.
D’Alema reagisce a Renzi, non desiste mai, poi sottolinea che vuole riposare, che deve guidare. Ancora fanno rumore quegli insulti raccolti venerdì, mentre attraversava la piazza di Bari. C’era lo sciopero generale, bandiere e pettorine rosse, e D’Alema s’era immerso nella folla per percorrere il breve tratto che collega il Municipio, dove ha incontrato il sindaco Antonio Decaro, e l’albergo che ospitava una manifestazione di ItalianiEuropei, la fondazione che presiede. L’ex segretario dei Giovani comunisti ha rovistato nella memoria, gli sovviene una più tragica e concitata trasferta a Bari, nel ‘77, per la morte di Benedetto Petrone, un ragazzo antifascista ammazzato da una banda di missini. Non fa paragoni. Non mischia la storia. E rifiuta di passare per il grande vecchio politico, il rottamato che non si rassegna, ferito da un “vaffanculo”. Da Bari a Bari, s’arriva a Renzi con i ragionamenti di D’Alema.
C’è stata da sinistra una reazione di rabbia a un simbolo di sinistra. Cosa ha provato?
Io non mi spavento, ma i fatti vanno illustrati per bene.
Li illustri.
Ho salutato Decaro e sono sceso in strada, non sapevo in che spezzone di corteo mi trovassi. Le assicuro che in tanti mi hanno stretto le mani, mi hanno incoraggiato e poi sono incappato in un gruppetto. C’era una rappresentanza Ugl, non possiamo dire che siano compagni.
La passeggiata tra i fischi la poteva evitare?
Una piccolissima contestazione non può essere confusa con il sentimento dei cittadini. A differenza di chi non riconosce i sindacati e non rispetta la piazza, io sono sempre presente, non mi tiro indietro. Non voglio aggiungere ulteriori commenti, però. È un episodio limitato e superato. Non mi interessa.
Sarà impegnato a scardinare il governo, pare che sia fautore di una manovra per proporre un esecutivo tecnico con a capo il ministro Pier Carlo Padoan.
Queste sono fesserie che vengono divulgate per creare confusione, per distogliere l’attenzione sulle questioni serie e reali, ma le garantisco che non hanno fondamento. E non mi preoccupano le strumentalizzazioni, ormai le cose che scrivono i giornali le ignoro. In Europa, si fidi, la stampa italiana ha una credibilità molto bassa.
Sostiene che Palazzo Chigi
la utilizzi come un alibi, uno spauracchio?
Il gioco non funziona, è banale. D’Alema non occupa scranni, non muove truppe in Parlamento, ma non rinuncia all’attività politica. Mai. I cittadini non sono ingenui, non si fanno ingannare, capiscono le inefficienze di questo governo, gli errori che ha compiuto. E io mi premuro soltanto di spiegare quel che posso spiegare.
Non sarà in platea durante il discorso di Renzi?
No, no, no. La saluto.
IN EFFETTI, un rumore di automobile in marcia si avverte al telefono. È pomeriggio, D’Alema, versione viticoltore, è un po’ vago sull’evento democratico di oggi. In serata, fa sapere al Fatto: “Non partecipo, non accetto le minacce o le sanzioni, come viene prefigurato in questi giorni”. La nota in calce è per Matteo Renzi, che vuole regolare l’opposizione interna. E pure per Graziano Delrio. Il sottosegretario che ha avvisato perentorio: “Se la minoranza vuole il voto, lo dica”. D’Alema s’era immolato in difesa dei parlamentari dissidenti, stavolta lascerà un posto vuoto. E non sarà una protesta meno evidente.
di Paola Zanca il Fatto 14.12.14
Scene così, anche lui che è stato sindaco (a Venezia) e più volte parlamentare, non le aveva mai viste. E per questo, a Massimo Cacciari, la passeggiata in mezzo ai fischi e alle bandiere rosse di Massimo D'Alema l'altroieri a Bari, ha fatto una certa “impressione”. E anche qualcosa di più.
Cacciari, cosa ha pensato guardando quel video?
Non nutro nessuna simpatia per D'Alema, non ci sopportiamo da quando avevamo i calzoncini corti. Ma quelle immagini, certo, mi hanno fatto impressione. Avrà anche diecimila peli sullo stomaco, ma per uno con la sua storia, quei fischi da parte del sindacato devono essere stati duri da digerire. Dico la verità, il compagno D'Alema mi ha fatto un po' pena.
Troppe colpe sulle sue spalle?
La situazione è drammatica. Le persone stanno sempre peggio e giustamente se la prendono con chi in questi anni ha gestito la baracca e ha ridotto il Paese in questo stato. La questione è delicatissima: non ci sono più punti di riferimento, né a destra né a sinistra né al centro. Nessuno ha più autorevolezza.
Quei fischi quindi non erano solo contro D'Alema?
Macché! Non è una questione personale. Non c'entra niente D'Alema. Poteva passare Bersani, Renzi, Alfano... è la rivolta contro una classe dirigente che non sa trovare soluzioni credibili ai problemi della gente. Anche voi giornali, smettetela di guardare al contingente: questa è una situazione che andrebbe studiata in termini di sistema, e invece noi continuiamo a stare qui a commentare fatti e fatterelli.
D'Alema ha preso i fischi, eppure è uno che critica Renzi un giorno sì e l'altro pure.
Nel Pd ci si avvia verso un divorzio lacrime e sangue. Lo dico da mesi, che era meglio procedere a una separazione consensuale: invece finirà a coltellate, ormai è inevitabile.
È preoccupato?
L'aria che tira è pericolosissima: la crisi peggiora e nessuno sa più a chi credere.
Che conseguenze immagina?
Finirà che verremo commissariati. Se non siamo in grado di cavarcela con le nostre forze, faremo la fine della Grecia. Se non la smettiamo di discutere per mesi di riforma del Senato, di legge elettorale e di altre cose che non cambiano una virgola della vita delle persone non ci sarà alternativa. Adesso ci mancava solo Napolitano...
Che c'entra?
A mio avviso è l'unico che ci ha fatto rimanere in piedi. Senza di lui la situazione può soltanto peggiorare.
Riforme e democrazia interna, lo scontro tra le anime del Pd alla vigilia dell’Assemblea nazionale Per la resa dei conti in Assemblea bisogna essere in due, ma chi dissente vuole solo migliorare le riformeintervista di Giovanna Casadio Repubblica 14.12.14
ROMA «Renzi sta drammatizzando lo scontro interno perché vuole andare a votare al più presto». Stefano Fassina, uno dei leader della sinistra dem, lancia accuse durissime alla maggioranza renziana nel giorno dell’Assemblea del partito.
Fassina, nel Pd siete a un passo dalla scissione?
«Spero che nessuno dei dirigenti dem, né Civati né altri, abbiano davvero questo obiettivo. Ma rispondo per me. Il mio impegno rimane nel Pd e per correggere la rotta del partito e del governo».
Però i toni sono di sfida tra Renzi e voi della sinistra dem?
«Mi pare che il presidente del Consiglio voglia andare al voto e cerchi ogni giorno di costruire alibi per giustificare il suo obiettivo, ma scaricando la responsabilità sulle spalle degli altri. I termini utilizzati in questi giorni come “imboscata”, “rivincita congressuale”- dopo un passaggio in commissione Affari costituzionali di Montecitorio assolutamente fisiologico e su un punto secondario, cioè l’eliminazione dei senatori a vita nel nuovo Senato federale - mi pare siano finalizzati a una drammatizzazione politica per creare uno showdown verso le elezioni».
Nell’Assemblea ci sarà quindi una resa dei conti?
«Per fare la resa dei conti bisogna essere in due, ma da parte di chi in questi mesi ha dissentito, l’obiettivo è stato di migliorare le riforme. È surreale ad esempio, che il giorno del successo dello sciopero generale, Renzi e i suoi invece di capire come ricostruire un rapporto con una parte fondamentale del popolo del Pd, continuino a delegittimare sul piano morale e politico chi tra i dem tiene faticosamente aperto il dialogo. Dove vogliono portare il Pd?».
La minoranza dem per la verità ha messo in difficoltà il governo in commissione facendolo andare sotto.
«Il governo è andato sotto dopo essere stato ripetutamente informato della posizione di dissenso e invitato ad accantonare un punto che era secondario».
Ma può la sinistra dem andare avanti con il dissenso continuo sulle riforme da quelle costituzionali al lavoro?
«No, non si può andare avanti così. Siamo di fronte a un bivio: da un lato il premier può continuare a cercare lo scontro per giustificare la sua scelta di andare al voto; dall’altro la strada del contributo che tutti vogliamo dare nel Pd. Renzi la smetta di fare ridicoli ritratti sulle poltrone e sulle candidature, che forse funzionano per chi lui ha attorno, ma per quanto mi riguarda producono il risultato opposto».
In un partito non ci vuole disciplina?
«La disciplina in un partito del XXI secolo si costruisce non attraverso maggioranze blindate che procedono come schiacciasassi, ma con il dialogo».
di Stefano Folli Repubblica 14.12.14
POCHI credono che l’assemblea di oggi risolverà qualche problema all’interno del Partito Democratico. Le divisioni interne ci sono e continueranno a esistere anche domani. Del resto, nonostante Civati che si è preso i titoli della vigilia, la prospettiva non è una scissione in grande stile, ma un calcolo di convenienza la cui posta in gioco è Renzi: la sua leadership, la sua filosofia politica. La possibilità di condizionarlo quando si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica.
Non sarà quindi una rituale occasione di partito, con la passerella degli oratori dai tempi contingentati, a ratificare la frattura. Non siamo a Livorno nel ‘21 e Civati non è Bordiga, così come senza dubbio Renzi non è Turati. Più che nel fuoco di un grande scontro ideologico, il Pd si consuma in un gioco tattico abbastanza estenuante, dove contano di più i successi o i passi falsi in Parlamento dei discorsi nelle assemblee interne.
Questo non significa che la riunione odierna sia poco significativa. Al contrario, è un passaggio carico di tensione e in effetti Civati ha buttato altra benzina nel camino acceso. Ma un punto è chiaro: oggi all’orizzonte non c’è una scissione, quanto meno non una scissione in tempi brevi. Non è il luogo né il momento. Prima vengono altri nodi assai insidiosi per il presidente del Consiglio: la fronda sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato e soprattutto sull’elezione del capo dello Stato. La minoranza non dispone di numeri notevoli, però è in grado di mettersi di traverso, facendo saltare qualsiasi strategia renziana. E poiché l’accordo del premier con Berlusconi non è di ferro, come tutti hanno ormai compreso, il risultato è che si naviga al buio in un mare pieno di scogli.
Acosa può servire allora l’assemblea di Villa Borghese? Forse a rispondere all’interrogativo che da tempo aleggia sulla Roma politica: Renzi intende umiliare la minoranza interna fino alle estreme conseguenze o al contrario è pronto a sancire un compromesso? Ben sapendo che tale compromesso, per essere credibile, non può essere una semplice tregua, ma deve comportare un’intesa sul nome del capo dello Stato e sulla riforma elettorale (in questo ordine). Finora il premier ha evitato di prendere posizione in merito. Ma il tempo passa e ci si avvicina alle scadenze decisive. Al netto delle feste di fine anno, manca circa un mese al momento in cui il Parlamento si riunirà in seduta comune, quindici giorni dopo le formali dimissioni di Napolitano.
Forse converrebbe a Renzi diradare la nebbia che avvolge le sue intenzioni. Un punto a suo vantaggio è che la minoranza è suddivisa in almeno tre segmenti. Ci sono gli irriducibili come Civati, appunto, e Fassina, testimoni di una linea dura e massimalista che può persino far comodo al premier. Poi c’è D’Alema che mette sul piatto il peso di una storia, ma il cui presente è segnato da una relativa debolezza. E infine viene Bersani, in fondo il più dialogante e al tempo stesso il più rappresentativo: Renzi fino ad ora ha esitato ad assumerlo come interlocutore, rinunciando quindi a dividere il fronte avversario più di quanto già non sia.
Potrebbe tuttavia essere giunto il momento di mettere le carte in tavola, in modo che sia chiaro cosa si vuole a Palazzo Chigi. Se il premier si sente in grado di far passare il suo candidato al Quirinale senza una vera trattativa interna, imponendolo quindi alla minoranza, allora ci si può aspettare oggi un discorso perentorio e al limite sprezzante, di quelli a cui Renzi ha abituato i giornali e i Tg. Se invece questa certezza non c’è (e oggi un certo pessimismo è d’obbligo), allora il presidente del Consiglio potrebbe cogliere l’occasione dell’assemblea per trasmettere qualche segnale di disponibilità. Probabilmente troverà qualcuno all’ascolto.
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