giovedì 15 gennaio 2015

Charlie & la guerra: Agamben e altri

di Alberto Negri15 gennaio 2015 Sole 24 Ore

Agamben: “Non siamo in guerra con una religione”
intervista di I. V. Repubblica 15.1.15
GIORGIO Agamben, filosofo, studioso del potere, docente a Parigi, cosa pensa dei fatti francesi? Siamo davvero in guerra come sostengono molti?
«Mantenere la lucidità davanti a un delitto così atroce è difficile, ma non per questo meno necessario. Dunque mi sembra irresponsabile che alcuni abbiano potuto parlare apertamente di guerra. “Guerra” significa un conflitto fra Stati o potenze che si possono identificare e chiamare per nome, il che in questo caso, come in ogni atto di terrorismo, è ovviamente impossibile. Proprio noi in Italia — dove dopo decenni non conosciamo ancora chi siano i mandanti dell’attentato di piazza Fontana — dovremmo essere i primi a saperlo. Ed è proprio questo equivoco tra terrorismo e guerra che ha permesso a Bush dopo l’11 settembre di scatenare quella guerra contro l’Iraq che è costata la vita a decine di migliaia di persone e senza la quale forse non avremmo avuto la strage che la Francia sta oggi piangendo».
Eppure molti pensano che per l’Occidente il conflitto con l’Islam sia inevitabile.
«Invece io penso che sia non meno irresponsabile e odioso identificare genericamente nell’Islam il mandante e il nemico da combattere. Quelli che lo hanno fatto sono senza accorgersene solidali con coloro che vorrebbero condannare. Mi sembra che la manifestazione di domenica mostri che è possibile una reazione ferma e politicamente consapevole, ma che non cade in questi errori. Tanto più che occorre non dimenticare che in un atto di terrorismo, in cui a volte servizi segreti e fanatismo lavorano insieme, è sempre difficile accertare con chiarezza i responsabili ultimi».
Sta dicendo che c’è qualcosa che è stato tenuto nascosto?
«Non sono tra quelli che vedono ovunque possibili complotti, ma la versione dei fatti che è stata riferita presenta delle oscurità e delle incongruenze. E temo che ora diventi sempre più difficile accertare le responsabilità ».
Ma ci sono le telefonate registrate dalla tv francese e i video di rivendicazione che sembrano spiegare tutto in maniera inequivocabile.
«Si parla molto di libertà di stampa ma dovremmo parlare anche delle conseguenze che questo crimine avrà sulla nostra vita quotidiana e sulle libertà politiche, su cui, col pretesto del tutto illusorio di difenderci dal terrorismo, pesa già una legislazione più restrittiva di quella che vigeva sotto il fascismo. Anche perché dopo l’11 settembre in molti paesi, fra cui la Francia, i delitti di terrorismo sono stati sottratti alla magistratura ordinaria. Inoltre come si è potuto vedere in Francia con l’affare Tarnac e in Italia col processo No-Tav, il rischio è che ogni dissenso politico radicale possa essere classificato come terrorismo. Non tutti sanno che il Tulps, il Testo unico sulla pubblica sicurezza emanato sotto il fascismo, è per l’essenziale ancora in vigore, ma che le leggi contro il terrorismo, dagli anni di piombo a oggi, hanno sensibilmente diminuito e diminuiranno sempre più le garanzie che ancora conteneva ».
Ma se la società civile è così vulnerabile, a maggior ragione abbiamo bisogno di leggi che governino la nostra sicurezza.
«La sorveglianza quasi senza limiti che, grazie anche ai dispositivi digitali, vengono esercitate in nome della sicurezza sui cittadini sono incompatibili con una vera democrazia. Da questo punto di vista oggi senza accorgersene stiamo scivolando in quello che i politologi americani chiamano Security State, cioè in uno Stato in cui una vera esistenza politica è semplicemente impossibile. Di qui il progressivo declino della partecipazione alla vita politica che caratterizza le società postindustriali. Temo che, dopo quello che è successo a Parigi, questa situazione peggiorerà ulteriormente ». ( i. v.)

Padre Pizzaballa, il Custode di Terrasanta
«Non esiste lo scontro di civiltà Questa è una guerra interna all’Islam»
intervista di Marco Garzonio Corriere 15.1.15
«Gli atti di terrorismo che insanguinano il Medio Oriente e l’Europa non sono frutto di uno scontro di civiltà. Questa è innanzitutto una guerra interna all’Islam. È inoltre la risposta sbagliata e drammatica di una parte dell’Islam alla modernità, ai problemi economici, morali, culturali che lo sviluppo pone. Nel mondo musulmano questa riflessione non è ancora stata fatta». Parla padre Pierbattista Pizzaballa, 50 anni ad aprile, il francescano Custode di Terra Santa da undici, cioè l’erede della capacità di incontro instaurata dal Santo di Assisi con il Saladino: l’altra faccia rispetto alle Crociate.
Netanyahu e Abu Mazen in prima fila nella marcia di Parigi. Una circostanza dettata da un evento particolare o l’indizio di un cambiamento nei rapporti tra Israele e i Palestinesi?
«Non mi sembra che spirino venti di cambiamento. La forza degli eventi li ha obbligati ad essere a Parigi. Ma le relazioni tra Israele e palestinesi non sono cambiate, purtroppo. Le elezioni che ci saranno tra un paio di mesi impongono un’attesa. Si capirà dopo».
Hamas ha condannato gli attacchi terroristici in Francia: una presa di distanza dopo il plauso all’assassinio di 4 rabbini in sinagoga?
«È una presa di posizione curiosa. Solo il tempo dirà se è mutata la strategia o se è stato un episodio. Resto un po’ freddo. Spesso in Medio Oriente ci sono due facce: una politica interna e la necessità di guadagnarsi credito internazionale».
Gli attacchi di Parigi cambieranno il modo di pensare occidentale verso i conflitti che insanguinano il Medio Oriente?
«Non sono i primi attacchi terroristici di matrice islamica in Europa. Si pensi a Madrid, a Londra, nella stessa Francia. La novità è l’impatto sull’opinione pubblica. Si stanno determinando le condizioni perché l’Europa compia un’opera di chiarimento su alcune parole lasciate nell’ambiguità. La parola integrazione. Cosa significa? Ci sono valori al centro della convivenza. I diritti fondamentali della persona: libertà di coscienza, uguaglianza uomo-donna, dignità e ruolo della donna, libertà di cultura, di espressione, legislazione sul lavoro, distinzione tra politica e religione e così via. Chi viene in Europa non può metterli in discussione. L’Europa deve chiarire la propria identità, sapendo che per poter integrare devi definire con chiarezza i punti fermi irrinunciabili».
Diceva Martini che ci sarà pace nel mondo quando ci sarà pace a Gerusalemme. Solo un paradosso?
«Gerusalemme ha un valore simbolico altissimo e, insieme, una rete di relazioni e interdipendenze molto strette col mondo. Le tensioni qui sono espressione di quelle mondiali. E viceversa. Se qui si dialoga si può riverberare sul pianeta una capacità di incontro».
Nella mobilitazione di Parigi c’è solo l’Europa dei Lumi che difende la libertà di manifestare le proprie idee, o anche l’Europa che si ispira al solidarismo cristiano dei grandi leader nel dopoguerra?
«L’Europa di oggi è diversa dai momenti che l’han vista nascere. Non so quanto il solidarismo di ispirazione cristiana animi oggi il Vecchio Continente. Basta guardare a come si è affrontato il tema dell’immigrazione, i salvataggi in mare e le politiche collegate. Certo, ciò che è accaduto a Parigi ha mosso nuove dinamiche, a partire dalla necessità di coordinarsi per rispondere al terrorismo».
Quindi si è messo in moto solo un meccanismo che garantisca l’ordine pubblico?
«Questa è una parte. C’è un’Europa che non fa notizia e lavora per l’integrazione, una rete di movimenti, volontari, iniziative. Guardiamo a tale Europa, che conta più di quanto non si creda».
Lei è a contatto con i cristiani di tutte le confessioni in Israele, Egitto, Siria, Giordania, Iraq, Libano. Che situazioni incontra?
«Sono Paesi diversissimi tra loro. Israele non è come la Siria e l’Iraq. L’Egitto, oggi più tranquillo, offre aspetti e dinamiche interessanti e vivaci. Penso all’importante discorso del presidente Sisi dell’università Al Azhar. In generale vedo una debolezza istituzionale diffusa. Certo, incontro situazioni umane drammatiche, ma scopro anche tanta solidarietà, oltre a un’umanità negativa. Sono stato ad Aleppo. È una città da due anni sotto assedio. C’è rimasto chi non sa dove andare. Non c’è acqua e la concessione di un po’ di elettricità dipende dai ribelli. Eppure, imam e parroco si aiutano. I gesuiti distribuiscono 10 mila pasti al giorno e giovani volontari, cristiani e musulmani, li portano a chi ha bisogno. Ci sono tante realtà di cui i media non parlano. Sono il contraltare al fanatismo e alle decapitazioni».
Molti cristiani affermano che stavano meglio sotto Saddam e Mubarak, che godevano di maggior libertà e protezione: ha fondamento tale giudizio?
«Si trattava di regimi dittatoriali, che non sarò io certo a difendere. Ma ad essi sono subentrate dittature peggiori, a cominciare dal fondamentalismo».
Che cosa dell’Isis attrae i giovani europei?
«Non so spiegarmi come il fanatismo possa attrarre. Molti parlano di giovani disperati che vengono dalle periferie dove non c’è nulla. Ma poi vedi che accorrono anche persone istruite e ti chiedi se non vi sia un problema di formazione, l’incapacità di abituare fin dalla scuola i giovani a pensare, confrontarsi, problematizzare. L’Europa e soprattutto il Medio Oriente devono affrontare il tema dell’educazione».
In Medio Oriente, tra la gente, non si avvertono reazioni di tipo umano a torture ed esecuzioni?
«Sì, una reazione c’è, ma negli incontri personali. Mi aspettavo più fermezza da parte dei media in Medio Oriente. Forse qualcosa si muove. Penso alla reazione agli attentati di Parigi e al mondo che li esprime da parte di Al Azhar, l’università religiosa del Cairo, riferimento importante per l’Islam».
Il Papa è stato il primo ad evocare l’immagine di «terza guerra mondiale». Quali elementi hanno suggerito al Pontefice quell’intuizione?
«Il Papa ha uno sguardo d’assieme sulla realtà mondiale che pochi altri possono avere. Ha colto il cambiamento epocale e, in esso, la violenza che lo abita come nocciolo. Il fanatismo, il dire io sono nel giusto; o diventi come noi, o devi sparire. Poi, a seconda delle situazioni, si avrà in Medio Oriente l’Isis e in Africa Boko Haram. È un ritorno al punto più buio di secoli passati».
Il Papa ha invitato alla preghiera comune in Vaticano ebrei, cristiani, musulmani. Dicono che lei sia stato regista. Possono fare qualcosa per la pace le tre religioni del Libro?
«Possono fare tantissimo. Ma parliamo di religiosi, non di religioni, parola astratta. I religiosi all’interno dei loro mondi devono aver chiaro il ruolo dell’esperienza religiosa, le relazioni con Dio e tra questi e l’uomo e tra gli uomini, evitando assolutizzazioni che portano ai fanatismi. In questo contesto è soprattutto l’Islam che ha un grosso lavoro da fare in proposito. L’immagine di religiosi che dialogano tra loro è essenziale oggi. Non possiamo restare solo con l’immagine che ci trasmettono i fondamentalismi».
L’Europa deve ora a fare i conti con la deriva antisemita. La comunità ebraica francese si è dimezzata, le comunità cristiane del Medio Oriente emigrano. In alcuni Paesi d’Europa i musulmani raggiungono la metà della popolazione. Che cosa sta accadendo?
«Occorre guardare al mondo in trasformazione e a questi spostamenti senza spaventarsi. Finisce un’epoca, non il mondo. Le discriminazioni contro le minoranze sono la cartina di tornasole della nostra cecità e delle nostre paure. Credevamo che l’antisemitismo fosse finito dopo le efferatezze del nazismo e abbiamo allentato l’attenzione. Purtroppo c’è ancora il pregiudizio antiebraico e va combattuto. Bisogna distinguere aspetto politico e religioso. Si può non condividere la politica dello Stato di Israele, ma tale valutazione non può assumere connotazioni antiebraiche o diventare il pretesto per alimentare forme di antisemitismo».
C’è un Islam moderato o parlarne esorcizza la paura?
«Islam moderato è un’espressione molto europea. Risponde ai nostri bisogni di semplificazione. Dobbiamo imparare a conoscere meglio l’Islam, che è una realtà molto complessa. In quella galassia non tutto è fanatismo, non tutto è Isis: per carità. Certo, ci vuole un grande sforzo da parte dell’Occidente».
Cosa non ha capito l’Occidente delle Primavere Arabe?
«L’Occidente non ha compreso molto la complessità del Medio Oriente. Prima l’ha visto sotto il profilo dell’occupazione coloniale. Poi per soddisfare i propri bisogni economici ed energetici. Risultato? In Iraq e Libia si son fatti errori. Si volevano fermare dei dittatori, con i quali s’erano avuti rapporti di convenienza? Ci poteva stare, ma le iniziative si prendono se si ha in mente cosa può accadere. Le primavere arabe hanno espresso un cambiamento, ma quando s’è trattato di definire il dopo movimenti spontanei sono stati sequestrati dai fanatismi. I cambiamenti non sono finiti, ci aspetta un periodo di trasformazioni. Per esempio l’Isis non proseguirà nel tempo. Dobbiamo sapere che non si può puntare alla situazione precedente, che non ci saranno un Iraq o una Siria stati nazionali come in passato».
Il leader della Lega afferma che milioni di musulmani son pronti a ucciderci e fa breccia in molte periferie...
«Non dobbiamo rispondere a chiusure con altre chiusure. Il fanatismo si ferma con la prevenzione, combattendo l’ignoranza. I fanatici ci vogliono contro per giustificare i loro attacchi».
Padre Pizzaballa, lei è ottimista?
«Nel breve no. Sul lungo periodo sì. C’è una guerra in corso, ma le guerre finiscono. E allora c’è solo da ricostruire. Oggi magari non si intravvede una soluzione politica, ma non è finita la missione del Cristianesimo in Medio Oriente. Molto è distrutto, il seme è rimasto. Quello di Gesù, figlio dell’uomo».
 

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