martedì 27 gennaio 2015
È l’intelligenza e non l'affetto a unire l’umanità: una breve storia delle virtù intellettuali
Risvolto
«È un errore pensare che gli uomini siano uniti da elementi affettivi. I nostri affetti ci dividono. Noi amiamo il nostro localismo, i nostri costumi, le nostre lingue. È l’intelligenza a unire l’umanità, permettendoci di entrare in empatia con altri tempi, altri luoghi, altre tradizioni…»
“Se un uomo saggio chiedesse: quali sono
le virtù moderne? E rispondesse alla sua stessa domanda con un elenco di
cose che ammiriamo; se scartasse come “irrilevanti” gli ideali che per
tradizione insegniamo, ma che non si trovano se non al di fuori della
tradizione e dell’insegnamento – ideali come la mitezza, l’umiltà, la
rinuncia ai beni materiali; se dovesse citare solo quelle eccellenze
verso cui i nostri cuori sono quotidianamente portati, e dai quali è
mossa la nostra condotta… in una lista come questa, quali virtù
nominerebbe?”. Così inizia L’obbligo morale di essere intelligenti,
il pamphlet di John Erskine pubblicato nel 1915, che ha avuto enorme
influenza nel dibattito culturale americano della prima metà del secolo
scorso. Professore di letteratura inglese alla Columbia University,
Erskine ci racconta una breve storia dell’intelligenza, una storia di
paradossi, superstizioni, diffamazioni: dall’eredità anglosassone, che
la vedeva come un “pericolo”, a Milton, che senza troppi giri di parole
le attribuì il titolo di “maggior pregio del Diavolo”.
La tradizione letteraria inglese a lungo ha privilegiato la forza e la volontà rispetto all'ingegno. Eppure è la virtù che salva il mondo
Luigi Mascheroni - il Giornale Mar, 27/01/2015
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