venerdì 9 gennaio 2015

Le poesie politiche di Bertolt Brecht


Poesie politicheI lavoratori gridano per avere il paneI commercianti gridano per avere i mercatiIl disoccupato ha fatto la fame. Orafa la fame chi lavora.Le mani che erano ferme tornano a muoversi:torniscono granate (BB).

Bertolt Brecht: Poesie politiche, a cura di Enrico Ganni, Einaudi

Risvolto
Bertolt Brecht non è stato solo uno dei piú importanti uomini di teatro del Novecento, ma anche uno dei massimi lirici di lingua tedesca. Lo dimostrano le poesie politiche qui raccolte, in cui i versi del poeta di Augusta si misurano con la dura realtà, prendendo posizioni nette. E lo fanno attraverso una lingua che non indulge mai a vuoti artifici retorici e che, invece, è asservita al fine pratico della conoscenza. In netto contrasto con le tendenze individualistiche dei suoi contemporanei, Brecht trasforma ogni verso in strumento di lotta e di persuasione, al servizio di una società libera e democratica. Una società in cui nessuno, neppure l'artista, può essere indifferente a ciò che appartiene a tutti: la politica.

Bertolt Brecht, poesie per ribaltare il mondoIn un secolo lacerato dalla crisi e dai conflitti, lo scrittore tedesco torna in un’antologia con la forza e l’attualità dei suoi versi politicidi Luigi Forte  La Stampa 2.1.15
Pubblicare, come fa Einaudi in questo inizio del 2015, una scelta di Poesie politiche di Bertolt Brecht (curata da Enrico Ganni con una bella prefazione di Alberto Asor Rosa, pp. 303, Є 12) può sembrare oggigiorno piuttosto azzardato. E non certo perché lo scrittore bavarese, come sostenne lo svizzero Max Frisch, è diventato un classico fino a perdere la sua efficacia. Ma perché lo zelo e il rigore pedagogico che nel dopoguerra gli attirarono i rimproveri di Adorno, per non aver salvaguardato l’autonomia dell’arte inquinandola con la politica, possono aver reso obsoleti molti di questi testi. Anche se in realtà Brecht sa sempre sottrarsi all’angustia ideologica o al dogmatismo con una piroetta irriverente o una buona dose di ironia.
Del resto basta sfogliare quest’antologia per convincersi che la lezione morale, lo slancio polemico, la coscienza politica di uno scrittore che ha combattuto con fermezza l’arroganza e la violenza del potere possono aiutarci a riflettere sia sulle incongruenze del presente sia sul passato come prefigurazione delle nostre insolute contraddizioni. Sembra un paradosso, se si pensa alla distanza abissale tra l’epoca di Brecht e la nostra. La sua vita fu un’odissea fra i disastri del Novecento: due guerre mondiali, il nazismo, l’esilio, la divisione della Germania e il suo ritorno a Berlino Est, nel cosiddetto socialismo reale che egli guardò sempre con sospetto, dopo un soggiorno americano non certo esaltante da cui aveva tratto la convinzione che democrazia e capitalismo erano difficilmente conciliabili. 
Potenziale rivoluzionario
Nei tardi Anni Venti i suoi testi teatrali furoreggiavano in Germania, accompagnati dalle musiche di Kurt Weill, e la sua poesia tradiva la voce ribelle e anarchica del figlio della borghesia che rifiutava la propria classe consapevole che il mondo doveva essere ribaltato. «Se chi è in basso non pensa / alla bassezza», scriveva nelle Poesie di Svendborg del 1936, «mai / potrà venire in alto». Il bardo si era inventato un personaggio cinico, disincantato, un outsider corazzato contro ogni vacuo ottimismo e pronto a sublimare la precarietà con l’atteggiamento un po’ altezzoso del saggio che dispensa insegnamenti a futura memoria. Ma l’icona stilizzata del giovane scrittore nella lirica Del povero B.B., che con il sigaro in bocca acceso fino alla fine dei tempi osserva una modernità agonizzante, diventa ben presto l’immagine del potenziale rivoluzionario, il tribuno che nell’isolamento dell’esilio lancia appelli vibranti per smascherare le menzogne dell’imbianchino Hitler, com’egli lo chiama. Nei tempi bui in cui «discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe stragi comporta silenzio», come si legge nella notissima poesia Ai posteri, il suo talento poetico si converte in pedagogia politica e la parola si solleva in uno spazio in cui sono coinvolte musica e gestualità, in ritmi irregolari e sincopati. 
Contro tutti i prepotenti
La scelta proposta da quest’antologia che in cinque sezioni diverse accorpa testi su destini proletari, lotta di classe, capitalismo, guerra e nazismo, con una breve galleria di ritratti di amici e colleghi, sembra suggerire l’idea che la forza e l’attualità di Brecht, ancora oggi, si nutra di ciò che Adorno gli rimproverava: l’aver sacrificato l’autonomia dell’arte. Non per metterla banalmente al servizio della politica, ma perché inscindibile dalle vicende umane, dalle grandi catastrofi del Novecento. Non sempre il poeta ha potuto evitare nelle sue invettive dall’esilio toni piattamente didascalici, così come negli anni del socialismo l’enfasi e l’apologia superano talvolta il livello di guardia. 
Ma il punto di vista di fondo di cui parla Asor Rosa nella prefazione, ricordando la marcata presenza di Brecht nella cultura italiana, resta inalterato. Ed è ciò che ancora oggi può offrire stimoli a un lettore alle prese con una profonda crisi economica e morale in un mondo lacerato da miseria, guerre e terrorismo. Brecht parla infatti di solidarietà tra diseredati, di lotta contro le disuguaglianze, di disoccupazione, di prepotenza dei potenti e dei politici. «Quelli che portano all’abisso la nazione /», si legge nel Breviario tedesco, «affermano che governare è troppo difficile / per l’uomo qualsiasi». Si lancia contro gli opportunisti pronti a ignorare ogni infamia pur di trarre vantaggi, contro illusioni e fallaci consolazioni nella poesia Contro la seduzione. Coglie le frodi e gli inganni della grande finanza, mette al bando lo sfruttamento, ma soprattutto esorta a trasformare il mondo con l’ottimismo della volontà.
«Chi è vivo non dica: mai!»
«Elogio della dialettica» è il suo grande slogan poetico. «Chi è ancora vivo, non dica: mai!». E l’arte dell’impazienza diventa il suo credo di fronte a ogni ideologia. Incalza anche il socialismo con il pessimismo della ragione di chi sa che il potere azzera spesso ogni istanza di giustizia. Quest’antologia è un livre de chevet per chi sogna una vera democrazia, è un sillabario dell’emancipazione e del riscatto. Ci insegna a credere, come ha fatto Brecht per tutta la vita, alla mutabilità delle cose, anche se la realtà, di questi tempi, ci racconta una storia diversa. 



Torna Brecht per dare voce agli sconfitti


Esce la raccolta delle poesie politiche composte dal grande autore tedesco del Novecento Conoscere i suoi testi negli anni ’50-’60 era come inghiottire un’intera biblioteca Sta dalla parte degli affamati, si sforza di dire quello che loro non possono

di Alberto Asor Rosa Repubblica 2.1.15
HO SENTITO parlare per la prima volta di Bertolt Brecht in un giorno (indeterminato) dell’anno 1952 o 1953. «Bret?», avevo sussurrato, voglioso di saperne di più, al compagno di studi che, nel corso di un’animata conversazione, in un angolo di uno dei lunghi corridoi della Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, lo aveva improvvisamente chiamato in causa: a sostegno della tesi, – che peraltro io ero disponibilissimo a condividere, – che con la letteratura e la poesia si poteva fare politica, a patto che questo non accadesse con i mezzi rozzi e provinciali, piccolo-borghesi e spesso ostentatamente o mielatamente pedagogici, della letteratura italiana di quegli anni.


«Bertolt Brecht», aveva sillabato, a conforto della mia ignoranza, il compagno di studi, il quale rispondeva al nome di Paolo Chiarini, appena un poco più anziano di me ma enormemente più colto e informato. La difficoltà rappresentata per me dalla misconoscenza della lingua (solo in parte superata quando, qualche anno più tardi, avrei osato scrivere un libro su Thomas Mann), fu rapidamente compensata dal diluvio di traduzioni e di interventi critici, che la figura e l’opera di Brecht conobbero in Italia in quegli anni. La pubblicazione, ad esempio, appena un anno o due dopo, della voce Brecht

nell’ Enciclopedia dello spettacolo , ad opera dell’enfant prodige Chiarini. E, subito dopo, la scelta di poesie Io, Bertolt Brecht, canzoni, ballate, poesie , un libro per più versi pioneristico, il quale ebbe un vasto successo, e che io lessi da subito con entusiasmo.

C’era in quella scelta una poesia, forse, a me pareva, un po’ diversa dalle altre, meno gridata, più sommessa, più personale, più intima, – Del povero B. B.( 1921), – che a me piaceva enormemente, perché mi faceva pensare che dietro l’agitatore e il rivoluzionario ci fosse tutta la sostanza umana di cui io, ventenne, pensavo che ci fosse bisogno per cambiare le cose del mondo, tenendo la ragione (non osavo pensare: il sentimento) a portata di mano, anche nel diluvio allora incombente: «Nei terremoti futuri io spero / che non si spenga il mio virginia per l’amarezza, / io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d’asfalto / dai neri boschi, nel grembo di mia madre, in tenera età…».
Queste brevi note solo per dire, dal mio limitato angolo visuale di allora, – e forse di ora, – che in quegli anni, fra la metà dei Cinquanta e lungo tutto il corso dei Sessanta, la conoscenza di Brecht rappresentò per noi – e per la intellettualità italiana di orientamento progressista, – uno degli eventi culturali più rilevanti dell’intero periodo. Culturali? Con questa approssimativa specificazione si può cominciare a prendere migliore nozione di quel violento impatto che la lettura e la conoscenza dell’opera di Brecht rappresentarono per le generazioni venti-quarantenni di quella fase storica. Culturali, dunque, certo: ma anche politici; e anche esistenziali, se per esistenziali s’intende un rapporto con il mondo in cui ci si cambia, – ci si cambia profondamente, – allo scopo fondamentalmente di poterlo cambiare.
Basti pensare all’enorme successo, – o, per meglio dire, alla travolgente esperienza, – che produsse la messa in scena, per le cure, egregie oltre ogni limite, del Piccolo Teatro di Milano e di Giorgio Strehler, di due testi come L’opera da tre soldi ( 1956), con uno spettacolare Tino Carraro, e Vita di Galileo ( 1963), dove un efficacissimo Tino Buazzelli teneva testa a distanza a un attore del calibro (anche dal punto di vista fisico) di Charles Laughton, interprete della prima rappresentazione americana del testo.
Mi rendo conto di non essere in grado di trasmettere ai lettori di oggi l’intensità e la profondità dell’esperienza che la visione di questi testi, – manifesti in movimento di un diverso modo d’intendere e rappresentare i rapporti sociali di forza e le tensioni umane individuali e collettive, – ebbe a procurare ai fortunati spettatori di quelle messe in scena. Era come se, nello spazio di due-tre ore, uno avesse ingoiato e digerito un’intera biblioteca e… ma no, di più, di più: era come se la dimostrazione artistica, cui avevamo assistito, ci avesse finalmente aperto gli occhi su di un universo in lotta perenne con se stesso, e, nella lotta, in una trasformazione perenne, sempre in atto, di se stessi e degli altri. [...] La mia tesi è che anche le poesie di Brecht, in particolar modo quelle politiche, possono definirsi teatrali. Ossia: esse presuppongono, – sempre, – l’esistenza di un pubblico. Non è quel che capita a ogni poeta e a ogni poesia? Sì, ma molto, molto più, secondo me, indirettamente. Certo, anche Leopardi, anche Montale, spiegano le loro vele allo scopo che, alla fine, siano da qualcuno avvistate. Ma quando, e come, questo si verificherà, non dipende da loro, e, a dire la verità, neanche molto gliene importa. In Brecht, no, in Brecht, nell’invenzione del testo e nella sua stesura, un interlocutore, individuo o massa che sia, è sempre presente. [...] La “posizione” di Brecht è la stessa del suo interlocutore proletario, diverge alle fondamenta da quella del proprio nemico, capitalista o ruffiano che sia. Qui è evidente, anche se non sempre strettamente essenziale, l’influenza che su di lui esercita il transito dall’avanguardismo ribelle degli anni Venti alla lettura dei testi marxiani e all’adozione della prospettiva comunista degli anni Trenta (e oltre). Nella fase cui io più direttamente riferisco la mia ricostruzione storica della fruizione di Brecht in Italia – e cioè dalla metà degli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta – non solo in alcune frange estremistiche ma in larghi settori della cultura progressista italiana avveniva frequentemente di sentir parlare di “punto di vista”. Cos’è il “punto di vista”? Il “punto di vista” è l’estrinsecazione intellettuale e/o politica della “posizione”. Non è necessario essere operai o proletari per assumere un “punto di vista” operaio o proletario. La dottrina, – ossia la teoria economico-sociale rivoluzionaria, – e il movimento organizzato, che muove e cambia le cose del mondo, – ossia il partito portatore degli interessi dei lavoratori, – sollecitano e interpretano quel “punto di vista”, ma non possono pretendere di governarne esclusivamente la condotta e le lotte. La dinamica delle forze, intellettuali e politiche, le voci in gioco, vanno al di là di questo orizzonte, anche quando ne tengono conto, – e Brecht, certo, ne ha tenuto conto (in taluni casi, qualcuno sarebbe tentato di dire, anche troppo). Ma al di là di questo tenerne conto, Brecht ha espresso la sua “posizione”, ha ritrovato ed espresso da sé la forza trascinante di quel rapporto. Rispetto ai suoi poveri eroi, – operai, proletari, déracinés, affamati, donne sfruttate e vilipese, – Brecht sta dalla loro parte: non fa loro la lezione; si sforza, se mai, di dire ciò che loro vorrebbero dire, se solo potessero.

La libertà prima di tutto, vero Brecht?
di Roberto Galaverni Corriere La Lettura 25.1.15
Una nuova edizione dei versi politici dell’autore tedesco, cantore del comunismo
Josif Brodskij riteneva Wystan Auden la mente più grande del XX secolo. Solo su un punto pensava che Auden fosse caduto in errore: nel considerare Bertolt Brecht (Augusta, 1898-Berlino Est, 1956) uno dei tre-quattro poeti maggiori del secolo. Senza dubbio Brodskij, prima internato poi espulso dalla Russia sovietica, aveva buoni motivi storici e biografici per avversare un poeta difensore e, in alcuni casi, celebratore del comunismo come Brecht.
Ma è vero che, anche più profondamente, la distanza tra i due si deve ricollegare a due diverse, forse inconciliabili concezioni della poesia, a due diverse estetiche, insomma. Una, quella a cui appartiene Brodskij, che vede nel procedimento creativo e nella poesia un momento d’indipendenza, diciamo pure di libertà, rispetto a qualsiasi predeterminazione ideologica; l’altra, quella di cui Brecht è stato il principale interprete novecentesco, che considera invece la poesia come un mezzo, una possibilità strumentale a cui si può ricorrere per contribuire a portare l’eguaglianza tra gli uomini.
Sto semplificando parecchio, ma se per Brodskij la libertà nasce con la poesia, per Brecht, diciamo, non si può parlare di libertà finché è necessario un intervento attivo anche della poesia in vista della sua costruzione.
Credo che questa alternativa torni ad affacciarsi ogni volta che si rilegge un poeta come Brecht. O così, almeno, è capitato a me nel rileggere le poesie che Enrico Ganni ha raccolto nelle Poesie politiche , uscite da poco per Einaudi. La poesia di Brecht, questa almeno è la mia esperienza, si fa leggere con una specie di spia d’emergenza accesa, come non capita con altri poeti. Non della sua statura, almeno. E questo di per sé dice già qualcosa della natura sui generis della sua poesia: l’insistenza ideologica, la divisione del mondo tra oppressori e oppressi, le affermazioni categoriche, senza mezze misure e senza ritorno, la voluta eliminazione della complessità psicologica e della particolarità individuale in favore di categorie e unità di misura sovra-personali, e via dicendo.
Se la veglia critica è una delle finalità che i versi di questo poeta si propongono, va riconosciuto allora che Brecht coglie molto spesso nel segno. Tanto più che questo suo verso che non vuol mai essere fine a se stesso, va di pari passo con alcune tra le sue qualità più riconosciute: il senso lungo del tempo, l’accordo dell’uomo coi ritmi della natura, lo stupore per la gentilezza degli uomini, la semplicità e insieme l’evidenza dei particolari — oggetti, situazioni, gesti — che costellano la sua poesia. In pochi poeti la materia, gli elementi, quelle che potremmo indicare genericamente come le cose, pesano così tanto.
A me pare, insomma, che tanto più nelle sue poesie più efficaci l’ideologia venga riportata, o meglio ancora nasca come a un livello elementare (così penso che Asor Rosa sia nel giusto quando nella sua introduzione sostiene che la visione di un mondo diviso tra sopra e sotto precede comunque la lezione del marxismo), quasi corrispondesse a una condizione di natura: «Io, Bertolt Brecht, vengo dai boschi neri./ Mia madre mi portò nelle città/ quand’ero nel suo grembo. E il freddo dei boschi/ fino a che morirò non m’abbandonerà».

Brecht rovinato dall’ideologia e dalla prefazione d’Asor Rosa
19 feb 2015 Libero VITO PUNZI
Frutto di una selezione effettuata da Enrico Ganni tra quanto già edito, le Poesie politiche di Bertolt Brecht ( Einaudi, pp. XXII-304, euro 12, con traduzioni dello stesso Ganni, di Claudio Groff, Ruth Leiser, Paola Barbon, Roberto Fertonani, Emilio Castellano, Olga Cerrato, Giorgio Cusatelli e Franco Fortini), diciamolo subito, non meritavano un’introduzione di Alberto Asor Rosa. Fin troppo banale, per esempio, la sua tesi: «Anche le poesie di Brecht, in particolar modo quelle politiche, possono definirsi teatrali», cioè «presuppongono - sempre - l’esistenza di un pubblico». Banale perché è lui stesso, due righe dopo, a riconoscere che questo «capita a ogni poeta».
Un’introduzione che ha anche la pretesa di chiamare in causa la verità: Verità e poesia, ovvero: verità è poesia, come intendesse trattare questioni estetico-metafisiche. In realtà gli serve solo per ricordare che «costitutiva dell’universo poetico-teatrale brechtiano» è la «divisione netta, in larga misura fondativa, tra chi “sta in alto” e chi “sta in basso”». E con una simile semplificazione non poteva non sottolineare come la posizione di Brecht sia stata «la stessa del suo interlocutore proletario, diverge alle fondamenta da quella del proprio nemico, capitalista o ruffiano.

Bertolt Brecht: contro l’approvazione del mondo, poesie da leggere ad Atene
Una nuova antologia delle liriche, a cura di Alberto Asor Rosa, da Einaudidi Marco Bascetta il manifesto Alias 1.3.15

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