I lavoratori gridano per avere il paneI commercianti gridano per avere i mercatiIl disoccupato ha fatto la fame. Orafa la fame chi lavora.Le mani che erano ferme tornano a muoversi:torniscono granate (BB).
Bertolt Brecht:
Poesie politiche, a cura di Enrico Ganni, Einaudi
Risvolto
Bertolt Brecht non è stato solo uno dei piú importanti
uomini di teatro del Novecento, ma anche uno
dei massimi lirici di lingua tedesca. Lo dimostrano le
poesie politiche qui raccolte, in cui i versi del poeta
di Augusta si misurano con la dura realtà, prendendo
posizioni nette. E lo fanno attraverso una lingua che
non indulge mai a vuoti artifici retorici e che, invece,
è asservita al fine pratico della conoscenza. In netto
contrasto con le tendenze individualistiche dei suoi
contemporanei, Brecht trasforma ogni verso in strumento
di lotta e di persuasione, al servizio di una società
libera e democratica. Una società in cui nessuno,
neppure l'artista, può essere indifferente a ciò che appartiene
a tutti: la politica.
Bertolt Brecht, poesie per ribaltare il mondoIn
un secolo lacerato dalla crisi e dai conflitti, lo scrittore tedesco
torna in un’antologia con la forza e l’attualità dei suoi versi politicidi Luigi Forte La Stampa 2.1.15
Pubblicare, come fa Einaudi in questo inizio del 2015, una scelta di
Poesie politiche di Bertolt Brecht (curata da Enrico Ganni con una bella
prefazione di Alberto Asor Rosa, pp. 303, Є 12) può sembrare oggigiorno
piuttosto azzardato. E non certo perché lo scrittore bavarese, come
sostenne lo svizzero Max Frisch, è diventato un classico fino a perdere
la sua efficacia. Ma perché lo zelo e il rigore pedagogico che nel
dopoguerra gli attirarono i rimproveri di Adorno, per non aver
salvaguardato l’autonomia dell’arte inquinandola con la politica,
possono aver reso obsoleti molti di questi testi. Anche se in realtà
Brecht sa sempre sottrarsi all’angustia ideologica o al dogmatismo con
una piroetta irriverente o una buona dose di ironia.
Del resto basta
sfogliare quest’antologia per convincersi che la lezione morale, lo
slancio polemico, la coscienza politica di uno scrittore che ha
combattuto con fermezza l’arroganza e la violenza del potere possono
aiutarci a riflettere sia sulle incongruenze del presente sia sul
passato come prefigurazione delle nostre insolute contraddizioni. Sembra
un paradosso, se si pensa alla distanza abissale tra l’epoca di Brecht e
la nostra. La sua vita fu un’odissea fra i disastri del Novecento: due
guerre mondiali, il nazismo, l’esilio, la divisione della Germania e il
suo ritorno a Berlino Est, nel cosiddetto socialismo reale che egli
guardò sempre con sospetto, dopo un soggiorno americano non certo
esaltante da cui aveva tratto la convinzione che democrazia e
capitalismo erano difficilmente conciliabili.
Potenziale
rivoluzionario
Nei tardi Anni Venti i suoi testi teatrali furoreggiavano
in Germania, accompagnati dalle musiche di Kurt Weill, e la sua poesia
tradiva la voce ribelle e anarchica del figlio della borghesia che
rifiutava la propria classe consapevole che il mondo doveva essere
ribaltato. «Se chi è in basso non pensa / alla bassezza», scriveva nelle
Poesie di Svendborg del 1936, «mai / potrà venire in alto». Il bardo si
era inventato un personaggio cinico, disincantato, un outsider
corazzato contro ogni vacuo ottimismo e pronto a sublimare la precarietà
con l’atteggiamento un po’ altezzoso del saggio che dispensa
insegnamenti a futura memoria. Ma l’icona stilizzata del giovane
scrittore nella lirica Del povero B.B., che con il sigaro in bocca
acceso fino alla fine dei tempi osserva una modernità agonizzante,
diventa ben presto l’immagine del potenziale rivoluzionario, il tribuno
che nell’isolamento dell’esilio lancia appelli vibranti per smascherare
le menzogne dell’imbianchino Hitler, com’egli lo chiama. Nei tempi bui
in cui «discorrere d’alberi è quasi un delitto, / perché su troppe
stragi comporta silenzio», come si legge nella notissima poesia Ai
posteri, il suo talento poetico si converte in pedagogia politica e la
parola si solleva in uno spazio in cui sono coinvolte musica e
gestualità, in ritmi irregolari e sincopati.
Contro tutti i
prepotenti
La scelta proposta da quest’antologia che in cinque sezioni
diverse accorpa testi su destini proletari, lotta di classe,
capitalismo, guerra e nazismo, con una breve galleria di ritratti di
amici e colleghi, sembra suggerire l’idea che la forza e l’attualità di
Brecht, ancora oggi, si nutra di ciò che Adorno gli rimproverava: l’aver
sacrificato l’autonomia dell’arte. Non per metterla banalmente al
servizio della politica, ma perché inscindibile dalle vicende umane,
dalle grandi catastrofi del Novecento. Non sempre il poeta ha potuto
evitare nelle sue invettive dall’esilio toni piattamente didascalici,
così come negli anni del socialismo l’enfasi e l’apologia superano
talvolta il livello di guardia.
Ma il punto di vista di fondo di cui
parla Asor Rosa nella prefazione, ricordando la marcata presenza di
Brecht nella cultura italiana, resta inalterato. Ed è ciò che ancora
oggi può offrire stimoli a un lettore alle prese con una profonda crisi
economica e morale in un mondo lacerato da miseria, guerre e terrorismo.
Brecht parla infatti di solidarietà tra diseredati, di lotta contro le
disuguaglianze, di disoccupazione, di prepotenza dei potenti e dei
politici. «Quelli che portano all’abisso la nazione /», si legge nel
Breviario tedesco, «affermano che governare è troppo difficile / per
l’uomo qualsiasi». Si lancia contro gli opportunisti pronti a ignorare
ogni infamia pur di trarre vantaggi, contro illusioni e fallaci
consolazioni nella poesia Contro la seduzione. Coglie le frodi e gli
inganni della grande finanza, mette al bando lo sfruttamento, ma
soprattutto esorta a trasformare il mondo con l’ottimismo della
volontà.
«Chi è vivo non dica: mai!»
«Elogio della dialettica» è il suo
grande slogan poetico. «Chi è ancora vivo, non dica: mai!». E l’arte
dell’impazienza diventa il suo credo di fronte a ogni ideologia. Incalza
anche il socialismo con il pessimismo della ragione di chi sa che il
potere azzera spesso ogni istanza di giustizia. Quest’antologia è un
livre de chevet per chi sogna una vera democrazia, è un sillabario
dell’emancipazione e del riscatto. Ci insegna a credere, come ha fatto
Brecht per tutta la vita, alla mutabilità delle cose, anche se la
realtà, di questi tempi, ci racconta una storia diversa.
Torna Brecht per dare voce agli sconfitti
Esce la raccolta delle poesie politiche composte dal grande autore tedesco del Novecento Conoscere i suoi testi negli anni ’50-’60 era come inghiottire un’intera biblioteca Sta dalla parte degli affamati, si sforza di dire quello che loro non possono
di Alberto Asor Rosa Repubblica 2.1.15
HO SENTITO parlare per la prima volta di Bertolt Brecht in un giorno
(indeterminato) dell’anno 1952 o 1953. «Bret?», avevo sussurrato,
voglioso di saperne di più, al compagno di studi che, nel corso di
un’animata conversazione, in un angolo di uno dei lunghi corridoi della
Facoltà di Lettere dell’Università di Roma, lo aveva improvvisamente
chiamato in causa: a sostegno della tesi, – che peraltro io ero
disponibilissimo a condividere, – che con la letteratura e la poesia si
poteva fare politica, a patto che questo non accadesse con i mezzi rozzi
e provinciali, piccolo-borghesi e spesso ostentatamente o mielatamente
pedagogici, della letteratura italiana di quegli anni.
«Bertolt Brecht», aveva sillabato, a conforto della mia ignoranza, il
compagno di studi, il quale rispondeva al nome di Paolo Chiarini, appena
un poco più anziano di me ma enormemente più colto e informato. La
difficoltà rappresentata per me dalla misconoscenza della lingua (solo
in parte superata quando, qualche anno più tardi, avrei osato scrivere
un libro su Thomas Mann), fu rapidamente compensata dal diluvio di
traduzioni e di interventi critici, che la figura e l’opera di Brecht
conobbero in Italia in quegli anni. La pubblicazione, ad esempio, appena
un anno o due dopo, della voce Brecht
nell’ Enciclopedia dello spettacolo , ad opera dell’enfant prodige
Chiarini. E, subito dopo, la scelta di poesie Io, Bertolt Brecht,
canzoni, ballate, poesie , un libro per più versi pioneristico, il quale
ebbe un vasto successo, e che io lessi da subito con entusiasmo.
C’era in quella scelta una poesia, forse, a me pareva, un po’ diversa
dalle altre, meno gridata, più sommessa, più personale, più intima, –
Del povero B. B.( 1921), – che a me piaceva enormemente, perché mi
faceva pensare che dietro l’agitatore e il rivoluzionario ci fosse tutta
la sostanza umana di cui io, ventenne, pensavo che ci fosse bisogno per
cambiare le cose del mondo, tenendo la ragione (non osavo pensare: il
sentimento) a portata di mano, anche nel diluvio allora incombente: «Nei
terremoti futuri io spero / che non si spenga il mio virginia per
l’amarezza, / io, Bertolt Brecht, sbattuto nelle città d’asfalto / dai
neri boschi, nel grembo di mia madre, in tenera età…».
Queste brevi note solo per dire, dal mio limitato angolo visuale di
allora, – e forse di ora, – che in quegli anni, fra la metà dei
Cinquanta e lungo tutto il corso dei Sessanta, la conoscenza di Brecht
rappresentò per noi – e per la intellettualità italiana di orientamento
progressista, – uno degli eventi culturali più rilevanti dell’intero
periodo. Culturali? Con questa approssimativa specificazione si può
cominciare a prendere migliore nozione di quel violento impatto che la
lettura e la conoscenza dell’opera di Brecht rappresentarono per le
generazioni venti-quarantenni di quella fase storica. Culturali, dunque,
certo: ma anche politici; e anche esistenziali, se per esistenziali
s’intende un rapporto con il mondo in cui ci si cambia, – ci si cambia
profondamente, – allo scopo fondamentalmente di poterlo cambiare.
Basti pensare all’enorme successo, – o, per meglio dire, alla
travolgente esperienza, – che produsse la messa in scena, per le cure,
egregie oltre ogni limite, del Piccolo Teatro di Milano e di Giorgio
Strehler, di due testi come L’opera da tre soldi ( 1956), con uno
spettacolare Tino Carraro, e Vita di Galileo ( 1963), dove un
efficacissimo Tino Buazzelli teneva testa a distanza a un attore del
calibro (anche dal punto di vista fisico) di Charles Laughton,
interprete della prima rappresentazione americana del testo.
Mi rendo conto di non essere in grado di trasmettere ai lettori di oggi
l’intensità e la profondità dell’esperienza che la visione di questi
testi, – manifesti in movimento di un diverso modo d’intendere e
rappresentare i rapporti sociali di forza e le tensioni umane
individuali e collettive, – ebbe a procurare ai fortunati spettatori di
quelle messe in scena. Era come se, nello spazio di due-tre ore, uno
avesse ingoiato e digerito un’intera biblioteca e… ma no, di più, di
più: era come se la dimostrazione artistica, cui avevamo assistito, ci
avesse finalmente aperto gli occhi su di un universo in lotta perenne
con se stesso, e, nella lotta, in una trasformazione perenne, sempre in
atto, di se stessi e degli altri. [...] La mia tesi è che anche le
poesie di Brecht, in particolar modo quelle politiche, possono definirsi
teatrali. Ossia: esse presuppongono, – sempre, – l’esistenza di un
pubblico. Non è quel che capita a ogni poeta e a ogni poesia? Sì, ma
molto, molto più, secondo me, indirettamente. Certo, anche Leopardi,
anche Montale, spiegano le loro vele allo scopo che, alla fine, siano da
qualcuno avvistate. Ma quando, e come, questo si verificherà, non
dipende da loro, e, a dire la verità, neanche molto gliene importa. In
Brecht, no, in Brecht, nell’invenzione del testo e nella sua stesura, un
interlocutore, individuo o massa che sia, è sempre presente. [...] La
“posizione” di Brecht è la stessa del suo interlocutore proletario,
diverge alle fondamenta da quella del proprio nemico, capitalista o
ruffiano che sia. Qui è evidente, anche se non sempre strettamente
essenziale, l’influenza che su di lui esercita il transito
dall’avanguardismo ribelle degli anni Venti alla lettura dei testi
marxiani e all’adozione della prospettiva comunista degli anni Trenta (e
oltre). Nella fase cui io più direttamente riferisco la mia
ricostruzione storica della fruizione di Brecht in Italia – e cioè dalla
metà degli anni Cinquanta all’inizio dei Settanta – non solo in alcune
frange estremistiche ma in larghi settori della cultura progressista
italiana avveniva frequentemente di sentir parlare di “punto di vista”.
Cos’è il “punto di vista”? Il “punto di vista” è l’estrinsecazione
intellettuale e/o politica della “posizione”. Non è necessario essere
operai o proletari per assumere un “punto di vista” operaio o
proletario. La dottrina, – ossia la teoria economico-sociale
rivoluzionaria, – e il movimento organizzato, che muove e cambia le cose
del mondo, – ossia il partito portatore degli interessi dei lavoratori,
– sollecitano e interpretano quel “punto di vista”, ma non possono
pretendere di governarne esclusivamente la condotta e le lotte. La
dinamica delle forze, intellettuali e politiche, le voci in gioco, vanno
al di là di questo orizzonte, anche quando ne tengono conto, – e
Brecht, certo, ne ha tenuto conto (in taluni casi, qualcuno sarebbe
tentato di dire, anche troppo). Ma al di là di questo tenerne conto,
Brecht ha espresso la sua “posizione”, ha ritrovato ed espresso da sé la
forza trascinante di quel rapporto. Rispetto ai suoi poveri eroi, –
operai, proletari, déracinés, affamati, donne sfruttate e vilipese, –
Brecht sta dalla loro parte: non fa loro la lezione; si sforza, se mai,
di dire ciò che loro vorrebbero dire, se solo potessero.
La libertà prima di tutto, vero Brecht?
di Roberto Galaverni Corriere La Lettura 25.1.15
Una nuova edizione dei versi politici dell’autore tedesco, cantore del comunismo
Josif Brodskij riteneva Wystan Auden la mente più grande del XX secolo.
Solo su un punto pensava che Auden fosse caduto in errore: nel
considerare Bertolt Brecht (Augusta, 1898-Berlino Est, 1956) uno dei
tre-quattro poeti maggiori del secolo. Senza dubbio Brodskij, prima
internato poi espulso dalla Russia sovietica, aveva buoni motivi storici
e biografici per avversare un poeta difensore e, in alcuni casi,
celebratore del comunismo come Brecht.
Ma è vero che, anche più profondamente, la distanza tra i due si deve
ricollegare a due diverse, forse inconciliabili concezioni della poesia,
a due diverse estetiche, insomma. Una, quella a cui appartiene
Brodskij, che vede nel procedimento creativo e nella poesia un momento
d’indipendenza, diciamo pure di libertà, rispetto a qualsiasi
predeterminazione ideologica; l’altra, quella di cui Brecht è stato il
principale interprete novecentesco, che considera invece la poesia come
un mezzo, una possibilità strumentale a cui si può ricorrere per
contribuire a portare l’eguaglianza tra gli uomini.
Sto semplificando parecchio, ma se per Brodskij la libertà nasce con la
poesia, per Brecht, diciamo, non si può parlare di libertà finché è
necessario un intervento attivo anche della poesia in vista della sua
costruzione.
Credo che questa alternativa torni ad affacciarsi ogni volta che si
rilegge un poeta come Brecht. O così, almeno, è capitato a me nel
rileggere le poesie che Enrico Ganni ha raccolto nelle Poesie politiche ,
uscite da poco per Einaudi. La poesia di Brecht, questa almeno è la mia
esperienza, si fa leggere con una specie di spia d’emergenza accesa,
come non capita con altri poeti. Non della sua statura, almeno. E questo
di per sé dice già qualcosa della natura sui generis della sua poesia:
l’insistenza ideologica, la divisione del mondo tra oppressori e
oppressi, le affermazioni categoriche, senza mezze misure e senza
ritorno, la voluta eliminazione della complessità psicologica e della
particolarità individuale in favore di categorie e unità di misura
sovra-personali, e via dicendo.
Se la veglia critica è una delle finalità che i versi di questo poeta si
propongono, va riconosciuto allora che Brecht coglie molto spesso nel
segno. Tanto più che questo suo verso che non vuol mai essere fine a se
stesso, va di pari passo con alcune tra le sue qualità più riconosciute:
il senso lungo del tempo, l’accordo dell’uomo coi ritmi della natura,
lo stupore per la gentilezza degli uomini, la semplicità e insieme
l’evidenza dei particolari — oggetti, situazioni, gesti — che costellano
la sua poesia. In pochi poeti la materia, gli elementi, quelle che
potremmo indicare genericamente come le cose, pesano così tanto.
A me pare, insomma, che tanto più nelle sue poesie più efficaci
l’ideologia venga riportata, o meglio ancora nasca come a un livello
elementare (così penso che Asor Rosa sia nel giusto quando nella sua
introduzione sostiene che la visione di un mondo diviso tra sopra e
sotto precede comunque la lezione del marxismo), quasi corrispondesse a
una condizione di natura: «Io, Bertolt Brecht, vengo dai boschi neri./
Mia madre mi portò nelle città/ quand’ero nel suo grembo. E il freddo
dei boschi/ fino a che morirò non m’abbandonerà».
Brecht rovinato dall’ideologia e dalla prefazione d’Asor Rosa
19 feb 2015 Libero VITO PUNZI
Frutto di una selezione effettuata da Enrico Ganni tra quanto già edito,
le Poesie politiche di Bertolt Brecht ( Einaudi, pp. XXII-304, euro 12,
con traduzioni dello stesso Ganni, di Claudio Groff, Ruth Leiser, Paola
Barbon, Roberto Fertonani, Emilio Castellano, Olga Cerrato, Giorgio
Cusatelli e Franco Fortini), diciamolo subito, non meritavano
un’introduzione di Alberto Asor Rosa. Fin troppo banale, per esempio, la
sua tesi: «Anche le poesie di Brecht, in particolar modo quelle
politiche, possono definirsi teatrali», cioè «presuppongono - sempre -
l’esistenza di un pubblico». Banale perché è lui stesso, due righe dopo,
a riconoscere che questo «capita a ogni poeta».
Un’introduzione che ha anche la pretesa di chiamare in causa la
verità: Verità e poesia, ovvero: verità è poesia, come intendesse
trattare questioni estetico-metafisiche. In realtà gli serve solo per
ricordare che «costitutiva dell’universo poetico-teatrale brechtiano» è
la «divisione netta, in larga misura fondativa, tra chi “sta in alto” e
chi “sta in basso”». E con una simile semplificazione non poteva non
sottolineare come la posizione di Brecht sia stata «la stessa del suo
interlocutore proletario, diverge alle fondamenta da quella del proprio
nemico, capitalista o ruffiano.
Bertolt Brecht: contro l’approvazione del mondo, poesie da leggere ad Atene
Una nuova antologia delle liriche, a cura di Alberto Asor Rosa, da Einaudidi Marco Bascetta il manifesto Alias 1.3.15