Human Factor, a Milano kermesse della sinistrail Fatto 23.1.15
SI APRE OGGI a Milano, l’evento-congresso “Human factor” organizzato da Sel per far nascere la Syriza italiana. Alla vigilia delle elezioni in Grecia, quelle che potrebbero essere vinte da Alexis Tsipras, il laboratorio guidato da Nichi Vendola ospita anche la minoranza Pd, ormai apertamente in rotta con Matteo Renzi. Sul palco saliranno Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Sergio Cofferati (ancora in forse a causa di un problema ad una spalla). E poi ci saranno anche esponenti del neonato gruppo ex M5S al Senato, intellettuali, rappresentanti del mondo sindacale e gli amici della sinistra radicale “e vincente” europea (ovviamente Syriza ma anche gli spagnoli di Podemos).
Quasi trecento i relatori: la giornata clou sarà domenica quando prenderanno la parola Civati, Cuperlo, Fassina, il sindaco di Napoli de Magistris, gli ex cinquestelle Campanella e Mussini e, in chiusura, l’intervento di Nichi Vendola. “Ciascuno di noi sarà giudicato sulla base della coerenza dei propri comportamenti. Non si può più dire: ‘Vorrei ma non posso’ - ha detto il leader di Sel - Sfidare Renzi per batterlo è una necessità dell’Italia”.
Tsipras: «Da lunedì in Europa si volta pagina»Atene . Nel comizio di chiusura della campagna elettorale il leader di Syriza parla da vincitore. Sul palco l’abbrccio con lo spagnolo Iglesias. Attacchi alla Troika e Germania: «Gli chiederemo anche i crediti di guerra»Angelo Mastrandrea, il Manifesto INVIATO AD ATENE, 22.1.2015
«Cittadini di Atene, il dado è tratto. La Grecia si rialza in piedi, con orgoglio e dignità». Un abbraccio con Pablo Iglesias, che sussurra in rima «Syriza-Podemos, venceremos», e Alexis Tsipras, preceduto da Bella ciao in versione Modena City Ramblers, sale sul palco di piazza Omonia, davanti al suo pubblico, quello delle centinaia di manifestazioni che hanno percorso la capitale ellenica dall’inizio di un’incubo chiamato austerity e che ora vedono la possibilità di farla finita con un sistema che ha condotto il Paese alla rovina.
E’ da qui che di solito partono le grandi manifestazioni dirette a Syntagma, la piazza del Parlamento, ed è quest’ultima la piazza convenzionalmente riservata ai comizi di chiusura di quella che qui chiamano «opposizione di maggioranza».
Ma oggi, per la prima volta dal dopoguerra, non è accaduto: Syntagma è occupata con gran sfoggio di bandiere rosse e falci e martello dai cugini-coltelli del Kke, il Partito comunista che si gioca il ruolo di terza forza con To Potami (Il fiume), una neonata formazione centrista.
Poco male. La stampa di tutto il mondo è qui per vedere da vicino il fenomeno Syriza, da Exarchia arrivano in corteo urlando «né Venizelos (il segretario del Pasok, ndr) né Samaras» e Tsipras li accoglie con un «è arrivato il popolo». Ma la piazza è piena di gente comune, senza bandiere né slogan da urlare. Saranno loro il valore aggiunto della prima coalizione di sinistra radicale al governo in un paese europeo.
E’ un discorso da vincitore annunciato, quello di Tsipras.
L’ultimo sondaggio, pubblicato ieri, lo dà in vantaggio di quattro punti su Nea Democratia ma senza la possibilità di formare un governo monocolore. Dice che «l’ultima speranza di Samaras, la paura, è finita, sia fuori che dentro la Grecia» e chiede la maggioranza assoluta «non per ricreare il sistema bipolare che ha rovinato il Paese», ma per realizzare il «sogno» di cambiare radicalmente la Grecia e avere più forza anche dinanzi all’Europa.
Fa appello a più riprese all’unità dei greci («lasciamo a Samaras la retorica da guerra civile», «la gente ripone molte speranze nella sinistra, saremo patriottici») ma sa bene chi tenere fuori: le oligarchie che hanno fatto il bello e il cattivo tempo nel Paese, portandolo alla rovina. Ribadisce quello che ha sempre detto fin dal primo giorno, senza rispondere direttamente a Mario Draghi e alla Bce, che annunciano l’acquisto di titoli di Atene solo se la Troika rimarrà al suo posto: rinegoziazione del debito, cambiamento all’interno del perimetro comunitario («torneremo a essere un partner con pari diritti»), stop ai Memorandum firmati dai governi precedenti. Tradotto in pratica, sarebbe la fine del commissariamento della Grecia, ed è qui che rischia di aprirsi il primo vero scontro politico del suo governo.
Tsipras su questo punto non si tira indietro e neppure gioca di fioretto, anzi affonda il colpo: «La dirigenza tedesca non ha il diritto morale di negare quello che è stato concesso alla stessa Germania. Da lunedì rivendicheremo anche i crediti di guerra».
Al rivale Samaras, l’uomo di Juncker e della Troika, è riservata non più di qualche battuta, come quando dice che «Nea Democratia il prossimo mese avrà un problema, quello di dover cambiare leader» oppure quando lo attacca sulla campagna di demonizzazione che ha condotto: «Si sono attaccati al potere puntando sulla paura. Mai un premier greco era sceso così in basso, parlando male della sua patria». Syriza ha fatto un grande sforzo per tranquillizzare le persone, e Tsipras lo ricorda ancora una volta dal palco: «Ci impegniamo a garantire i depositi bancari, le pensioni e le sovvenzioni agricole, e a bloccare le aste per le prime case sequestrate».
Ma la gran parte del discorso è centrato sulle proposte di Syriza, quello che viene definito «programma di Salonicco» ed è diffuso a ogni comizio come un libretto rosso: la lotta alla corruzione («La paura si è ribaltata, ho saputo che nei ministeri hanno già dato ordine di distruggere tutti i documenti»), la riforma della macchina statale («Lo Stato sarà un motore di sviluppo e investimenti, produttore di ricchezza»), la guerra all’evasione fiscale («controlleremo tutte le liste di evasori che i precedenti governi non hanno verificato»), la tassazione della grande ricchezza, la rottura del legame tra politica, grandi interessi e media, un cavallo di battaglia dell’intera campagna elettorale.
Viceversa, ed è quel che lo rende popolare tra il ceto medio impoverito e le classi più disagiate, sogna con Martin Luther King che “nessuno debba rimanere al buio perché gli hanno staccato la luce, nessun giovane sia sfruttato, nessuno muoia di freddo, tutti gli individui abbiano pari diritti indipendentemente dal sesso o dalla religione”.
ATENE “We will, we will rock you”. La Troika è avvisata. A Omonia, nel centro di Atene, sventolano centinaia di bandiere di Syriza e risuonano le note dei Queen. «La Grecia e l’Europa stanno per vivere un momento storico!», dice dal palco Alexis Tsipras, favorito numero uno del voto ellenico. «Hasta la victoria, venceremos!», lo applaude alzandogli il braccio destro Pablo Iglesias, leader di Podemos, in testa a tutti i sondaggi in Spagna. «L’era del pensiero unico dei tecnocrati di Bruxelles è finito», esulta Kostas Douzinas, professore di legge alla Birbeck University di Londra («sono arrivato dalla Gran Bretagna assieme a 400 simpatizzanti!») in una piazza dove non entra più nemmeno uno spillo. Davos e le stanze ovattate della Bce sembrano davvero lontane mille miglia. «Domenica volteremo pagina e inizierà una nuova era — assicura la strana coppia (“Tsiglesias” la chiamano qui) che vuole rivoltare come un calzino le politiche d’austerity del Vecchio Continente — La paura è finita, è l’ora della speranza. E di un’Europa governata dai popoli e dalla democrazia e non dalle mail e dagli ultimatum di Ue, Bce e Fmi».
Un sogno? «No. Il futuro è nelle vostre mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita» chiede Tsipras dal palco dell’ultimo comizio della sua campagna elettorale. In molti sembrano pronti ad ascoltarlo: gli ultimi sondaggi (se sono attendibili) danno Syriza a un soffio da quel 35-37% che le garantirebbe la maggioranza assoluta. Un mandato fortissimo per presentarsi a Bruxelles e chiedere un taglio a quel debito «che soffoca l’economia del paese». Mettendo la parola fine alla via crucis lunga dodici finanziarie che ha ridotto di un quarto il Pil del paese e fatto schizzare la disoccupazione al 26% e aprendo uno spiraglio di flessibilità agli altri paesi, Italia compresa, schiacciati da una montagna di prestiti.
L’Europa per ora continua a fare orecchie da mercante: «Chiunque vinca dovrà mantenere gli impegni presi con i creditori» ha ripetuto ieri il presidente della Commissione Jean Claude Juncker. «Ma il clima sta cambiando, l’asse con Podemos sta ammorbidendo le resistenze dei falchi», assicura Dimitris Liakos, consigliere economico di Tsipras. E anche Mario Draghi — che negli ultimi mesi ha già incontrato due volte il leader di Syriza — ne ha preso atto a modo suo: «La Grecia non sarà sottoposta ad alcuna limitazione particolare nel piano di quantitative easing della Bce — ha detto ieri — : dovrà semplicemente rispettare alcune regole specifiche che valgono per i paesi sottoposti ai piani di ristrutturazione della Troika». Tradotto in soldoni: Eurotower non ha prevenzioni contro la sinistra greca. E comprerà titoli di stato ellenici se Tsipras riuscirà a raggiungere un’intesa con i suoi creditori.
Il premier Antonis Samaras non l’ha presa benissimo. Ieri, convinto che Francoforte avrebbe escluso Atene dal suo programma di sostegno all’economia del Vecchio continente, aveva convocato un conferenza stampa a reti unificate per calcare la mano sulle parole d’ordine della sua campagna elettorale («Syriza ci porterà fuori dall’euro e ci trasformerà in una Corea del Nord europea» l’ultima perla). Invece ha dovuto prendere atto del ramoscello d’ulivo di Draghi e fare una timida retromarcia: «Non buttate al vento cinque anni di sacrifici», ha detto davanti alle telecamere, provando a convincere quel 10% di indecisi che potrebbe ribaltare le certezze dei sondaggi.
La strada però è in salita. «Ho votato tutta la mia vita Nea Demokratia, il partito del premier — racconta davanti al palco Danai Dimitropoulou, dipendente del Comune di Atene — . E cosa ho avuto in cambio? Il mio stipendio è sceso da 1.400 a mille euro. Mio marito è rimasto senza lavoro due anni fa e da 12 mesi non ha più nemmeno l’assistenza sanitaria. Un disastro visto che è diabetico». Risultato: come molti ex elettori del centrodestra domenica prossima «farò quello che non avrei mai immaginato di fare in vita mia: mettere la croce sul simbolo di Syriza».
Tsipras e Iglesias sanno che certi treni passano una sola volta. E non vogliono sprecare il jolly che hanno in mano, sperando di trovare lungo il percorso alleati anche in Italia, Irlanda («oggi mi ha chiamato il presidente del Sinn Fein Gerry Adams», racconta il leader della sinistra ellenica) e persino in Germania. «Noi non siamo un pericolo per l’Europa e per la Grecia ma per quelli che hanno portato il nostro paese nel baratro — assicura Tsipras — . Non abbiamo paura di niente. Combatteremo l’evasione fiscale e l’economia in nero per trovare i soldi con cui ridare il lavoro alla gente». Musica per le orecchie di Omonia. «Nessuno perderà la sua prima casa se non riesce a pagare i debiti alle banche! — aggiunge — dobbiamo lavorare per un paese più giusto, più equo e più democratico».
L’obiettivo, in questa sera piena di ottimismo, è riuscire a conquistare la maggioranza assoluta in Parlamento per poter negoziare con la Troika da una posizione di forza e senza annacquare il programma elettorale in nome di un governo di coalizione. “We will, we will rock you”, canta la piazza di Atene. Qui, sei anni fa, è iniziata la crisi dell’euro. Ma da qui, sulle note dei Queen e della rivoluzione targata “Tsiglesias”, ha iniziato a soffiare il vento che rischia di cambiare di nuovo (da sinistra) la storia dei vecchio continente.
Michele Prospero, 22.1.2015
Con l’approvazione dell’emendamento di un senatore giovin italico (non più turco) la partita delle riforme sembra procedere per il governo con la prevedibile speditezza.
La cosa più stravagante, sulla nuova legge elettorale, l’ha pronunciata proprio il presidente del consiglio. Davanti ai suoi senatori in subbuglio, ha detto che l’Italicum è così geniale, nella soluzione dell’enigma della governabilità, che il creativo congegno sarà presto imitato in tutta Europa.
I maldestri governanti inglesi, che non sempre riescono a garantire il valore costituzionale della governabilità, cioè ad ultimare gli scrutini con un vincitore sicuro riconoscibile la sera stessa dello spoglio, faranno subito la fila al Nazareno per comprare la ricetta miracolosa e archiviare il loro secolare, e piuttosto stupido al cospetto della singolare trovata toscana, formato maggioritario uninominale, che non sempre dà il volto del gran trionfatore.
E così si appresta a fare anche la cancelliera Merkel. Deposta la teutonica presunzione di sufficienza, per via di una decennale stabilità e governabilità superiori a quella di ogni altro sistema politico europeo, la politica tedesca freme per apprendere dalla premiata ditta Boschi-Verdini come si fa a vincere con certezza e a dormire tranquilli la sera stessa del voto, senza essere più appesi alle manovre per varare la grande coalizione e quindi indotti al fastidioso rito delle migliaia di iscritti della Spd che devono dare la loro approvazione al contratto di governo siglato.
Per non dire degli spagnoli o dei greci, che devono faticare sovente per raccapezzare singoli voti di sigle minori per garantire la fiducia a un governo malconcio.
O dei virtuosi statisti dei paesi nordici, che spesso dal conteggio dei voti non sanno a chi tocchi lo scettro e si affidano abitualmente a lunghi governi di minoranza.
E anche i francesi troveranno presto il modo per seppellire il loro incerto maggioritario uninominale a doppio turno e sostituirlo con il sensazionale maggioritario di lista escogitato al Nazareno.
Ora che l’Italicum ha svelato i sacri misteri della vittoria certa, l’Europa può voltare pagina nella storia delle istituzioni e acquistare a buon mercato il prezioso brevetto della governabilità.
La vittoria certa, da consegnare al calar della sera, nel timore che i deputati siano chiamati per esprimere una maggioranza tramite le dinamiche secolari che sorgono in aula, è però del tutto estranea alla logica del parlamentarismo.
Il vincitore è una possibilità, non un obbligo
La costruzione meccanica di un vincitore, altera a tal punto la struttura del parlamentarismo, che preferibile sarebbe passare, con il rigore necessario e soprattutto i contropoteri richiesti, all’incognita di una forma di governo presidenziale piuttosto che forzare in maniera così irrazionale e costosa le compatibilità del regime parlamentare sino a sfigurarlo.
L’obbligo della vittoria fa inclinare tutto il congegno competitivo nella direzione della governabilità come artificio e la rappresentanza perde qualsiasi rilievo fondativo del rapporto politico, è un mero contorno inessenziale.
Non è dalla rappresentanza che si esprime la funzione di governo ma è dalla postazione del governo, aggiudicata da un capo di coalizione, che si procede alla riempitura della rappresentanza con nominati ben retribuiti ma destinati a un ruolo passivo nella legislazione.
E’ evidente che una logica premiale, già di difficile comprensione nella sua configurazione sistemica, è comunque ammissibile come un eccezionale supporto forzoso ad una ricerca di governabilità (in paesi frantumati e bloccati, senza ricambio), altrimenti non garantita, solo se compare come una possibilità. Cioè, fissata al 40 per cento l’opportunità di ottenere un premio in seggi, se il bonus non scatta, perché nessuna lista ha varcato la soglia prevista, diventa una palese forzatura costringere l’elettorato ad una seconda tornata, dove l’entità della partecipazione peraltro sfuma.
Se la previsione di un doppio turno è efficace nei singoli collegi per ampliare il radicamento territoriale del deputato che in astratto si separa dalla disputa nazionale per il governo, del tutto insensato diventa come cornice di una competizione tra liste.
La volontà del corpo elettorale, in merito al premio, può manifestarsi nel primo passaggio elettorale. Se gli elettori non hanno offerto un sostegno esplicito al partito maggiore, è una camicia di forza alquanto impropria prevedere la costrizione a dare comunque il premio attraverso un ballottaggio di lista.
Il premio può essere eventuale, non obbligatorio
Se poi il premio ottimale dal punto di vista numerico è stimato dal legislatore al 15 per cento dei seggi (perché non si può governare con il 50,1 per cento? Kohl aveva nel Bundestag un solo voto di scarto), salta ogni riferimento a un incentivo ragionevole se viene rapportato alla quantità di consenso riscossa nel primo turno. Alla luce dei sondaggi odierni, il Pd avrebbe, in caso di successo al ballottaggio, un premio di oltre il 20 per cento, il M5S del 35 per cento e Forza Italia del 40 per cento.
Le distorsioni del principio di rappresentatività, e la cancellazione della pari influenza delle singole espressioni di voto, restano evidenti. Nell’Italicum, le liste con ripartizione dei seggi stabilita a livello nazionale sono evocate per trascendere i collegi, e il capo di coalizione, investito del supremo comando, è introdotto per rendere irrilevanti le liste.
Nel modello persistente di una investitura del leader o sindaco d’Italia, il parlamento non deve in alcun modo esaltare la sua autonomia funzionale di organo di controllo e di indirizzo. Connessa a tale vocazione all’opacità del ruolo del parlamento, è la strozzatura di ogni nesso tra deputato ed elettori, tra collegi e territori.
Il capo vincitore crea la rappresentanza, e una schiera di nominati fa da scudo alla sua volontà di potenza. L’anomalia di un governo costituente, che si crea la legge elettorale per vincere, e la confeziona secondo un calcolo di immediata convenienza, è davvero un unicum in democrazie di un qualche pregio.
La gran fretta di approvare la legge elettorale prima dell’elezione del capo dello Stato (e quindi anche dell’opportunità di un suo preliminare vaglio di costituzionalità) svela una preoccupante caduta del rendimento democratico di istituzioni sfregiate a colpi di canguro.
I fantasmi del QuirinaleDemocrack. Tensione alle stelle nel Pd. Fassina accusa Renzi: «È il capo dei 101, lo sanno tutti». Rissa nel partito. Guerini: sciocchezze. Ma l’ex portavoce di Prodi: c’erano alcuni renziani
Daniela Preziosi, il Manifesto 23.1.2015
Un boato silenzioso, un ossimoro pericoloso per i fragili nervi del Pd alla vigilia del voto per il nuovo capo dello stato. Ieri a Montecitorio Stefano Fassina, ex viceministro del governo Letta e oggi dirigente in direzione ostinata e contraria a quella di Renzi, a chi gli chiedeva del voto sul Colle insinuando il dubbio che i prossimi franchi tiratori saranno quelli della minoranza Pd, risponde seccamente: «A differenza di quelli che oggi chiedono disciplina e due anni fa hanno capeggiato i 101, noi siamo persone serie. Nessuno deve temere da noi i franchi tiratori». Intende dire che Renzi ha guidato i 101 che bocciarono Prodi al Colle? «Non è un segreto», è la risposta.
Nel Pd cala il gelo. Il vice segretario Lorenzo Guerini sentenzia: «Una sciocchezza incredibile». Sui social network si scatenano gli insulti. «Aspetto le scuse di Fassina», twitta Angelo Rughetti, «accuse gravi e inopportune», il popolare Simone Valiante, «Ha perso lucidità, si riposi» attacca Edoardo Patriarca. Portaborse e ultrà renziani usano espressioni forti. Anche fra i bersaniani doc, all’epoca un gruppo compatto oggi sfilacciati in almeno tre correnti, come ha certificato la riunione di mercoledì sera alla camera, l’uscita non è apprezzata.
Fassina è un dirigente appassionato e impulsivo, ma è difficile che una battuta così gli sia sfuggita. Quel 19 aprile 2013 i renziani appena eletti erano meno di 50, quindi aritmeticamente non possono portare da soli la responsabilità di quell’episodio. Che infatti fu messo in capo, sempre rigorosamente a microfoni spenti, ai popolari infuriati per il precedente affossamento di Marini (a cui Renzi contribuì apertamente) e ai dalemiani maltolleranti verso il professore sin dal ’98.
È vero però che nel pomeriggio di quel 19 aprile, appena consumata la votazione, mentre la camera era nel caos e il Pd nel panico, fu proprio Renzi, da Firenze, a dichiarare: «La candidatura di Prodi non c’è più». Una conclusione curiosamente frettolosa: giudicata una firma sul delitto.
Stavolta neanche Bersani difende il suo ex braccio destro: «È la sua opinione», dice, del resto «allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Bersani. L’importante è che quella cosa non la facciamo più».
In questi giorni fra Palazzo Chigi e la camera circolano liste di ’inaffidabili’ sull’elezione del Colle, la prova del nove della leadership (e della premiership) di Renzi. E per chi non è in linea con il capo, il rischio di essere bollato del marchio d’infamia dei nuovi 101 c’è: «Io che una slealtà l’ho subita, pratico lealtà», conclude l’ex segretario. «L’unica cosa che tanti di noi chiedono è che non si pensi mai di preparare la minestra con la destra e farla bere con forza a un pezzo del Pd».
L’ex portavoce di Prodi Sandra Zampa, oggi molto vicina a Renzi, non smentisce del tutto Fassina: «Immagino che intendesse dire che anche la componente renziana, o meglio alcuni renziani, hanno partecipato all’ affossamento». Un solo capo «non c’è stato», ricostruisce, «non dico che Renzi non c’entrasse, però non credo che lui avesse dato indicazioni ai suoi per non votare Prodi. Di alcuni renziani sicuramente c’è stata la regia, ma anche Bersani è stato tradito dai suoi. Poi hanno partecipato quelli che erano arrabbiati per la vicenda Marini».
All’epoca — altri tempi — i renziani erano una cinquantina. Per arrivare ai 101, o forse ai reali 121 (contando i voti che sul Professore arrivarono dai 5 stelle) ne mancano altrettanti. Quel voto fu insomma una specie di «Assassinio sull’Orient Express», quello che si consuma nel giallo di Agatha Christie in cui tutti i passeggeri di un treno partecipano ad un omicidio con la loro personalissima coltellata.
Un delitto da cui «ha tratto vantaggio chi voleva far fuori Bersani e il suo no alle larghe intese. Non c’è stata una regia unica, ma certo ci fu un obiettivo comune», ricorda Chiara Geloni, all’epoca stretta collaboratrice di Bersani che poi, con Stefano di Traglia ha raccontato quella vicenda nel libro Giorni Bugiardi.
Per questo sull’episodio il Pd non volle mai affrontare una discussione aperta. Invece la letteratura su quel delitto è sterminata. «Fu il collasso della classe dirigente di centrosinistra», ha scritto Walter Tocci in Sulle orme del gambero. Il giornalista dell’Espresso Marco Damilano, in Chi ha sbagliato più forte, trascrisse un’intervista a uno dei 101, una confessione anonima di un dirigente dalemiano.
Ma è l’anno zero della storia recente del partito e rischia di restare il fantasma, il buco nero delle origini dell’era Renzi.
La Brigata Kalimera, dall’Italia con furoredi E. L. Repubblica 23.1.15
ATENE . La sirena di Alexis Tsipras chiama. La Brigata Kalimera (come si sono auto-battezzati con un filo d’ironia) risponde. «Abbiamo cominciato quasi per scherzo per sostenere i nostri vecchi amici di Syriza – racconta Raffaella Bolini, l’organizzatrice di questo strano viaggio della speranza della sinistra italiana. Poi tutto è andato oltre le nostre previsioni». Sotto lo striscione “Kalimera Grecia, Kalimera Europa” in piazza Omonia, di fronte al palco da cui parla il favorito numero uno delle elezioni elleniche, si sono trovati in duecento. Politici d’esperienza come l’ex ministro Paolo Ferrero («E’ la prima volta da Maastricht che c’è una vera alternativa nel Vecchio continente»). Volti storici come quello di Luciana Castellina e facce più giovani come Eleonora Forenza, parlamentare europea della Lista per Tsipras. Ma anche decine di ragazzi e diversamente ragazzi arrivati qui – come dice Carlo, studente di 23 anni di Perugia – «perché guidati dalla certezza che il voto in Grecia è l’unica occasione per cambiare». E perché qui - come ammette Bolini - «si sta mettendo un piccolo mattone per provare a costruire la nuova casa comune della sinistra italiana».
In piazza risuonano le note di “O Bella Ciao”, versione rock dei Modena City Rambler. «Tsipras? Mi ricordo di lui nel 2001, quando ha cercato di arrivare a Genova per il G8 ed è stato fermato a manganellate ad Ancona dalla polizia », racconta Bolini. «Allora noi eravamo più avanti, ora ripartiamo da zero», ammette Ferrero. Qui sotto lo striscione in Omonia, sono convinti tutti che a sinistra di Renzi ci sia spazio per creare una Syriza tricolore. C’è il caso Cofferati, ci sono i venti di scissione nel Pd. Il toto-Brigata Kalimera dà in arrivo tra oggi e domani sotto il Partenone Stefano Fassina e Beppe Civati. «Nei prossimi due mesi la sinistra si ricomporrà – è convinto Ferrero – arriveranno in tanti e metteremo sotto la Merkel».
Facile dirlo nella tiepida serata ateniese. Con migliaia di persone che applaudono il tandem anti-troika “Tsiglesias”, come qui chiamano Tsipras e Pablo Iglesias, leader di Podemos. «La lezione di Syriza è che per vincere bisogna rimanere uniti» dice Bolini, che non ha dimenticato le mille scissioni e i partitini personali che hanno segnato la storia recente della sinistra tricolore. Intanto si riparte dalla Brigata Kalimera. «Domenica – conclude Carlo sfidando la scaramanzia– sarà davvero una buona giornata per la Grecia e per l’Europa ».
Cuperlo al leader “Muta noi democratici nella balena centrista che guarda a destra”“Non me ne vado, ma voglio anche capire che partito è diventato il Pd: discutiamo di come siamo cambiati”intervista di Francesco Bei Repubblica 23.1.15
ROMA Gianni Cuperlo, sinistra dem. Alla vigilia delle votazioni per il Quirinale è tra i critici più duri delle scelte di Renzi. Fino all’accusa di voler dar vita a un nuovo partito con Berlusconi.
Forza Italia è entrata in maggioranza?
«Lo chiedo io. Mai contestato il principio che le riforme si fanno assieme ma qui si dice che da quell’accordo deriverebbe la scelta sul Quirinale e non solo. Serve chiarezza ».
Seguiamo una logica aristotelica: se è vero, come dite voi, che è cambiata la maggioranza di governo, significa che la minoranza dem che ha votato contro l’Italicum va considerata all’opposizione?
«L’abbinamento tra Esposito e Aristotele è suggestivo ma ci svia. Il punto è che la riforma elettorale e della Costituzione dovrebbero osare di più. Io voglio superare il bicameralismo ma si è blindato un Senato che sarà un ibrido. Un po’ Camera delle garanzie, un po’ delle autonomie. La conferenza Stato-Regioni difenderà le sue prerogative e aumenteranno i contenziosi davanti alla Consulta. La vivo come un’occasione sciupata e comunque la battaglia continua».
Ogni Ditta ha le sue regole. Sull’Italicum si sono riuniti gli organi direttivi del Pd, ma al dunque la minoranza si è sentita legibus soluta, sciolta da ogni vincolo. Come fate a invocare la libertà di coscienza per una materia così squisitamente politica come la legge elettorale?
«Certo che la materia è politica ma le regole raccontano la tua concezione della democrazia. Le proposte fatte potevano migliorare i testi sia dell’Italicum che del futuro Senato. Invece si è abbassata la saracinesca e le sole correzioni sono transitate dal famoso patto. Avrei dato più fiducia al Parlamento invece di spostare il processo costituente in una sede extra parlamentare. Per altro senza streaming».
Non legittimate in questo modo l’accusa renziana di essere un partito nel partito?
«A parte che il primo a dotarsi di un partito nel partito è stato il premier, io so che esiste un’alternativa all’idea di partito di Renzi e ad alcune sue scelte di governo. Questo pluralismo è l’anima del Pd e non può che avere lo scopo di cambiare quell’idea di partito e quelle scelte».
Adesso considerate le preferenze come la panacea dei mali della democrazia. Eppure nell’ottobre 2012, a Youdem, Bersani disse che “in Italia le preferenze portano a situazione patologiche”...
«Resto affezionato ai collegi uninominali. Ma sto con chi si batte contro un Parlamento fatto ancora in prevalenza di nominati».
Da mesi ormai alcuni esponenti della minoranza trattano Renzi come il principale nemico. Avete la sindrome di chi non si rassegna ad aver perso il congresso e cerca la rivincita?
«Per me il congresso è finito un anno fa. Sostengo il governo, Renzi è il mio segretario e credo di dovergli la lealtà di chi difende e argomenta le proprie idee. Se rinunciamo a questo perdiamo tutti».
Quindi si sente ancora del Pd?
«Sì ma voglio capire che partito è. Perché, tornando all’Italicum, la novità non è il tentativo di spingere verso due grandi partiti ma il fatto che uno dei due col 13% dei voti non ha alcuna chance di vittoria. Allora delle due l’una. O Berlusconi consegna i suoi a una resa preventiva oppure si immagina che il partito della Nazione debba risolversi in una balena centrista relegando ai margini chi non si omologa».
E il Pd che fine farebbe?
«In quel caso il nostro destino sarebbe diventare un partito moderato che guarda a destra. È anche in questo la mutazione d’identità del Pd renziano, e io vorrei discuterne. Per capire se abbiamo ancora la stessa visione della sinistra, del bipolarismo, della democrazia».
Quanto peserà lo strappo sull’Italicum nelle scelte relative al Quirinale? C’è da immaginare imboscate di franchi tiratori?
«Ma naturalmente. Ho appena ricevuto la convocazione per una riunione in un luogo segreto dove ordiremo trame diaboliche. Altre domande?» Fassina accusa Renzi di essere stato il mandante dei 101? Ha dei sospetti anche lei?
«No e non mi sono mai appassionato al tema ».Quella guerra tra bande e le accuse incrociate nel giorno più nero del Pddi Monica Guerzoni Corriere 23.1.15
ROMA Il Parlamento (e i gruppi del Pd) non sono cambiati dal giorno livido dell’agguato contro Romano Prodi, il frutto avvelenato di vecchi rancori, tradimenti e vendett e incrociate che innescarono una catena di lutti politici. Il 19 aprile 2013 è una data che il Pd porta impressa nel suo dna, severo monito degli errori da non ripetere. I 101 franchi tiratori che affossarono l’ex premier — incoronato di fresco con una standing ovation al teatro Capranica — sono ancora a volto coperto e la loro identità resterà celata dal voto segreto.
Dopo venti mesi di tormenti la dolorosa autoanalisi non è finita. Chi furono i registi del trappolone ai danni dell’intero Pd? «Il capo dei 101 è Renzi», accusa a sei giorni dal voto Stefano Fassina. E la ferita mai suturata riprende a sanguinare. L’unico farmaco è «la lealtà» suggerisce Bersani, colui che ha pagato il prezzo più alto. E la domanda che assilla i protagonisti di quella pagina nera è se il Grande Complotto possa vedere un remake, magari a parti invertite. Silvio Sircana, storico portavoce di Prodi, si augura che i grandi elettori «riescano a trovare un candidato forte e credibile e che non si facciano invischiare in questo tipo di inciuci». L’ex senatore del Pd resta convinto che l’obiettivo dei cecchini fosse «radere al suolo Bersani». L’ordine di eseguire la sentenza non arrivò però da un solo capocorrente, «fu il combinato disposto di una guerra per bande che si consumò, in modo un po’ cialtrone, sulla persona di Prodi».
Le bande, appunto. Quelle correnti che sono da sempre il male endemico del Pd. Nelle ore drammatiche in cui si cominciava a parlare di mutazione genetica del Pd, Sandra Zampa sfogava il suo dolore indicando D’Alema e Fioroni. Quindi annunciava l’autosospensione dal gruppo, perché riteneva «impossibile restare seduta accanto a chi ha accoltellato Prodi alle spalle come un sicario». Nel tempo la vicepresidente del Pd si è convinta che «tutti parteciparono per arrivare a quel risultato e molti si sono pentiti». Se avessero conosciuto meglio il «Prof» e intuito che si sarebbe sfilato dopo la batosta, il giorno dopo lo avrebbero votato.
Tutti traditori? Dalemiani, fioroniani, bersaniani e renziani, anche? Il perimetro è troppo largo per distinguere volti nel mucchio. Quanto all’allora sindaco di Firenze, una delle tesi difensive è che Renzi non avesse le truppe per affossare Prodi, da solo. «Non ne aveva la f orza», lo assolve Antonio Bassolino. Sandro Gozi, ora a Palazzo Chigi, si è addannato per mesi alla caccia dei «killer del fondatore».
«I franchi tiratori? Provate a chiamare Fioroni e D’Alema», insinuava Felice Casson. Ma D’Alema ha sempre smentito con un certo vigore complotti e regie occulte del fattaccio, minacciando denunce contro i «calunniatori». E se gli accusatori teorizzavano che l’ex premier avesse lasciato le impronte digitali con quei quindici voti incassati per se stesso, lui andava in tv e reagiva buttando la croce su Bersani: «È una vergogna autentica. Si cercano capri espiatori, ma come potevo impedire che 15 persone mi votassero? ».
Capri espiatori, la stessa espressione a cui affida la sua difesa Beppe Fioroni. L’ex ministro amico di Franco Marini, altra vittima illustre del fuoco amico democratico, uscì dall’aula brandendo il cellulare. Aveva fotografato la scheda con scritto PRODI: «C’era un clima da caccia alle streghe. Ero sotto stress emotivo, ma non lo farei mai più. Una regia creò il delitto perfetto precostituendo i killer in quelli più scontati». Renzi? «È stato iperattivo su Marini, su Prodi non ci credo».
Dal Mali, la mattina in cui fu mandato al massacro con una telefonata di Bersani, Romano chiamò il già líder Maximo per sondare la sua reazione alla candidatura e la risposta non gli suonò di buon auspicio. «Benissimo — si congratulò D’Alema, come ha raccontato Alan Friedman —. Ma decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti». Prodi, che già a Bersani aveva comunicato i suoi dubbi sulla «nobiltà del casato» pd, chiuse il telefono e disse alla moglie che era finita. Il verdetto dell’urna confermò il cattivo presagio e l’allora sindaco dichiarò che la candidatura di Prodi poteva ritenersi decaduta. Una velocità che insospettì, tra i tanti, anche la lettiana Paola De Micheli, ora al governo: «La prima gallina che canta ha fatto l’uovo...».
Pippo Civati fu il primo a prevedere che i 101 sarebbero entrati al governo e rivendica di non essere stato smentito: «Nasce tutto da lì. Lo schema delle larghe intese e i governi di Letta e poi di Renzi hanno preso l’abbrivio da quel voto». Il 29 gennaio che accadrà? «Sarebbe un bel segnale vedere 101 franchi tiratori nella prima votazione, sul nome di Prodi... Hanno sottovalutato il problema e adesso si ripropone».
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