sabato 24 gennaio 2015

L'ex presidente del PDS dà un ulteriore colpo di piccone alla democrazia moderna

~Se ci fosse davvero qualcosa come la mitica casta, Rodotà ne sarebbe il più emblematico rappresentante. Ha fatto le sue enormi fortune grazie ai partiti ma da quando è cambiato il vento non esita a sparare su questi stessi partiti, pur sapendo benissimo quanto fondamentali siano nella democrazia moderna.
Intanto il PSE si intesta anche Tachipirinas come carta di riserva e continua a tenere sotto il tallone la Sinistra complementare [SGA].
Stefano Rodotà: “Ripartiamo dal basso, senza la zavorra dei partiti”“Chi pensa di ricostruire un soggetto di sinistra o socialmente insediato guardando a Sel, Rifondazione, Alba e minoranza Pd sbaglia. Lo dico senza iattanza, ma hanno perduto una capacità interpretativa e rappresentativa della società”intervista di Giacomo Russo Spena MicroMega 22.1.15 qui

Human Factor, a Milano kermesse della sinistrail Fatto 23.1.15
SI APRE OGGI a Milano, l’evento-congresso “Human factor” organizzato da Sel per far nascere la Syriza italiana. Alla vigilia delle elezioni in Grecia, quelle che potrebbero essere vinte da Alexis Tsipras, il laboratorio guidato da Nichi Vendola ospita anche la minoranza Pd, ormai apertamente in rotta con Matteo Renzi. Sul palco saliranno Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e Sergio Cofferati (ancora in forse a causa di un problema ad una spalla). E poi ci saranno anche esponenti del neonato gruppo ex M5S al Senato, intellettuali, rappresentanti del mondo sindacale e gli amici della sinistra radicale “e vincente” europea (ovviamente Syriza ma anche gli spagnoli di Podemos).
Quasi trecento i relatori: la giornata clou sarà domenica quando prenderanno la parola Civati, Cuperlo, Fassina, il sindaco di Napoli de Magistris, gli ex cinquestelle Campanella e Mussini e, in chiusura, l’intervento di Nichi Vendola. “Ciascuno di noi sarà giudicato sulla base della coerenza dei propri comportamenti. Non si può più dire: ‘Vorrei ma non posso’ - ha detto il leader di Sel - Sfidare Renzi per batterlo è una necessità dell’Italia”.

Tsipras: «Da lunedì in Europa si volta pagina»Atene . Nel comizio di chiusura della campagna elettorale il leader di Syriza parla da vincitore. Sul palco l’abbrccio con lo spagnolo Iglesias. Attacchi alla Troika e Germania: «Gli chiederemo anche i crediti di guerra»Angelo Mastrandrea, il Manifesto INVIATO AD ATENE, 22.1.2015
«Cit­ta­dini di Atene, il dado è tratto. La Gre­cia si rialza in piedi, con orgo­glio e dignità». Un abbrac­cio con Pablo Igle­sias, che sus­surra in rima «Syriza-Podemos, ven­ce­re­mos», e Ale­xis Tsi­pras, pre­ce­duto da Bella ciao in ver­sione Modena City Ram­blers, sale sul palco di piazza Omo­nia, davanti al suo pub­blico, quello delle cen­ti­naia di mani­fe­sta­zioni che hanno per­corso la capi­tale elle­nica dall’inizio di un’incubo chia­mato auste­rity e che ora vedono la pos­si­bi­lità di farla finita con un sistema che ha con­dotto il Paese alla rovina.
E’ da qui che di solito par­tono le grandi mani­fe­sta­zioni dirette a Syn­tagma, la piazza del Par­la­mento, ed è quest’ultima la piazza con­ven­zio­nal­mente riser­vata ai comizi di chiu­sura di quella che qui chia­mano «oppo­si­zione di maggioranza».
Ma oggi, per la prima volta dal dopo­guerra, non è acca­duto: Syn­tagma è occu­pata con gran sfog­gio di ban­diere rosse e falci e mar­tello dai cugini-coltelli del Kke, il Par­tito comu­ni­sta che si gioca il ruolo di terza forza con To Potami (Il fiume), una neo­nata for­ma­zione centrista.
Poco male. La stampa di tutto il mondo è qui per vedere da vicino il feno­meno Syriza, da Exar­chia arri­vano in cor­teo urlando «né Veni­ze­los (il segre­ta­rio del Pasok, ndr) né Sama­ras» e Tsi­pras li acco­glie con un «è arri­vato il popolo». Ma la piazza è piena di gente comune, senza ban­diere né slo­gan da urlare. Saranno loro il valore aggiunto della prima coa­li­zione di sini­stra radi­cale al governo in un paese europeo.
E’ un discorso da vin­ci­tore annun­ciato, quello di Tsipras.
L’ultimo son­dag­gio, pub­bli­cato ieri, lo dà in van­tag­gio di quat­tro punti su Nea Demo­cra­tia ma senza la pos­si­bi­lità di for­mare un governo mono­co­lore. Dice che «l’ultima spe­ranza di Sama­ras, la paura, è finita, sia fuori che den­tro la Gre­cia» e chiede la mag­gio­ranza asso­luta «non per ricreare il sistema bipo­lare che ha rovi­nato il Paese», ma per rea­liz­zare il «sogno» di cam­biare radi­cal­mente la Gre­cia e avere più forza anche dinanzi all’Europa.
Fa appello a più riprese all’unità dei greci («lasciamo a Sama­ras la reto­rica da guerra civile», «la gente ripone molte spe­ranze nella sini­stra, saremo patriot­tici») ma sa bene chi tenere fuori: le oli­gar­chie che hanno fatto il bello e il cat­tivo tempo nel Paese, por­tan­dolo alla rovina. Riba­di­sce quello che ha sem­pre detto fin dal primo giorno, senza rispon­dere diret­ta­mente a Mario Dra­ghi e alla Bce, che annun­ciano l’acquisto di titoli di Atene solo se la Troika rimarrà al suo posto: rine­go­zia­zione del debito, cam­bia­mento all’interno del peri­me­tro comu­ni­ta­rio («tor­ne­remo a essere un part­ner con pari diritti»), stop ai Memo­ran­dum fir­mati dai governi pre­ce­denti. Tra­dotto in pra­tica, sarebbe la fine del com­mis­sa­ria­mento della Gre­cia, ed è qui che rischia di aprirsi il primo vero scon­tro poli­tico del suo governo.
Tsi­pras su que­sto punto non si tira indie­tro e nep­pure gioca di fio­retto, anzi affonda il colpo: «La diri­genza tede­sca non ha il diritto morale di negare quello che è stato con­cesso alla stessa Ger­ma­nia. Da lunedì riven­di­che­remo anche i cre­diti di guerra».
Al rivale Sama­ras, l’uomo di Junc­ker e della Troika, è riser­vata non più di qual­che bat­tuta, come quando dice che «Nea Demo­cra­tia il pros­simo mese avrà un pro­blema, quello di dover cam­biare lea­der» oppure quando lo attacca sulla cam­pa­gna di demo­niz­za­zione che ha con­dotto: «Si sono attac­cati al potere pun­tando sulla paura. Mai un pre­mier greco era sceso così in basso, par­lando male della sua patria». Syriza ha fatto un grande sforzo per tran­quil­liz­zare le per­sone, e Tsi­pras lo ricorda ancora una volta dal palco: «Ci impe­gniamo a garan­tire i depo­siti ban­cari, le pen­sioni e le sov­ven­zioni agri­cole, e a bloc­care le aste per le prime case sequestrate».
Ma la gran parte del discorso è cen­trato sulle pro­po­ste di Syriza, quello che viene defi­nito «pro­gramma di Salo­nicco» ed è dif­fuso a ogni comi­zio come un libretto rosso: la lotta alla cor­ru­zione («La paura si è ribal­tata, ho saputo che nei mini­steri hanno già dato ordine di distrug­gere tutti i docu­menti»), la riforma della mac­china sta­tale («Lo Stato sarà un motore di svi­luppo e inve­sti­menti, pro­dut­tore di ric­chezza»), la guerra all’evasione fiscale («con­trol­le­remo tutte le liste di eva­sori che i pre­ce­denti governi non hanno veri­fi­cato»), la tas­sa­zione della grande ric­chezza, la rot­tura del legame tra poli­tica, grandi inte­ressi e media, un cavallo di bat­ta­glia dell’intera cam­pa­gna elettorale.
Vice­versa, ed è quel che lo rende popo­lare tra il ceto medio impo­ve­rito e le classi più disa­giate, sogna con Mar­tin Luther King che “nes­suno debba rima­nere al buio per­ché gli hanno stac­cato la luce, nes­sun gio­vane sia sfrut­tato, nes­suno muoia di freddo, tutti gli indi­vi­dui abbiano pari diritti indi­pen­den­te­mente dal sesso o dalla religione”.
Pro­mette di can­cel­lare la tassa sulla prima casa, un sistema fiscale più equo, l’eliminazione del lavoro nero. Un pro­gramma più che ambi­zioso al quale Syriza comin­cerà a lavo­rare «da lunedì», anche se Tsi­pras non nasconde che «sarà un lavoro molto dif­fi­cile». Ma si dice pronto ad affron­tare la sfida: «La strada che abbiamo scelto neces­sita di deci­sione e pro­vo­cherà un forte scon­tro, ma siamo preparati».
Con­clude: «Oggi que­sti sono slo­gan, da lunedì saranno leggi dello Stato». L’ovazione è scontata.
L’ultimo urlo di Tsipras tra le bandiere di Atene “L’austerity al capolinea”Il leader di Syriza esalta la piazza insieme a Iglesias (Podemos) “Non è un sogno Il futuro è nelle vostre mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita” “Noi non siamo un pericolo per l’Europa ma per chi ha portato il Paese nel baratro” Ma la Bce non esclude che il Paese possa entrare negli acquisti dei titolidi Ettore Livini Repubblica 23.1.15
ATENE “We will, we will rock you”. La Troika è avvisata. A Omonia, nel centro di Atene, sventolano centinaia di bandiere di Syriza e risuonano le note dei Queen. «La Grecia e l’Europa stanno per vivere un momento storico!», dice dal palco Alexis Tsipras, favorito numero uno del voto ellenico. «Hasta la victoria, venceremos!», lo applaude alzandogli il braccio destro Pablo Iglesias, leader di Podemos, in testa a tutti i sondaggi in Spagna. «L’era del pensiero unico dei tecnocrati di Bruxelles è finito», esulta Kostas Douzinas, professore di legge alla Birbeck University di Londra («sono arrivato dalla Gran Bretagna assieme a 400 simpatizzanti!») in una piazza dove non entra più nemmeno uno spillo. Davos e le stanze ovattate della Bce sembrano davvero lontane mille miglia. «Domenica volteremo pagina e inizierà una nuova era — assicura la strana coppia (“Tsiglesias” la chiamano qui) che vuole rivoltare come un calzino le politiche d’austerity del Vecchio Continente — La paura è finita, è l’ora della speranza. E di un’Europa governata dai popoli e dalla democrazia e non dalle mail e dagli ultimatum di Ue, Bce e Fmi».
Un sogno? «No. Il futuro è nelle vostre mani. Dateci il voto per cambiare la vostra vita» chiede Tsipras dal palco dell’ultimo comizio della sua campagna elettorale. In molti sembrano pronti ad ascoltarlo: gli ultimi sondaggi (se sono attendibili) danno Syriza a un soffio da quel 35-37% che le garantirebbe la maggioranza assoluta. Un mandato fortissimo per presentarsi a Bruxelles e chiedere un taglio a quel debito «che soffoca l’economia del paese». Mettendo la parola fine alla via crucis lunga dodici finanziarie che ha ridotto di un quarto il Pil del paese e fatto schizzare la disoccupazione al 26% e aprendo uno spiraglio di flessibilità agli altri paesi, Italia compresa, schiacciati da una montagna di prestiti.
L’Europa per ora continua a fare orecchie da mercante: «Chiunque vinca dovrà mantenere gli impegni presi con i creditori» ha ripetuto ieri il presidente della Commissione Jean Claude Juncker. «Ma il clima sta cambiando, l’asse con Podemos sta ammorbidendo le resistenze dei falchi», assicura Dimitris Liakos, consigliere economico di Tsipras. E anche Mario Draghi — che negli ultimi mesi ha già incontrato due volte il leader di Syriza — ne ha preso atto a modo suo: «La Grecia non sarà sottoposta ad alcuna limitazione particolare nel piano di quantitative easing della Bce — ha detto ieri — : dovrà semplicemente rispettare alcune regole specifiche che valgono per i paesi sottoposti ai piani di ristrutturazione della Troika». Tradotto in soldoni: Eurotower non ha prevenzioni contro la sinistra greca. E comprerà titoli di stato ellenici se Tsipras riuscirà a raggiungere un’intesa con i suoi creditori.
Il premier Antonis Samaras non l’ha presa benissimo. Ieri, convinto che Francoforte avrebbe escluso Atene dal suo programma di sostegno all’economia del Vecchio continente, aveva convocato un conferenza stampa a reti unificate per calcare la mano sulle parole d’ordine della sua campagna elettorale («Syriza ci porterà fuori dall’euro e ci trasformerà in una Corea del Nord europea» l’ultima perla). Invece ha dovuto prendere atto del ramoscello d’ulivo di Draghi e fare una timida retromarcia: «Non buttate al vento cinque anni di sacrifici», ha detto davanti alle telecamere, provando a convincere quel 10% di indecisi che potrebbe ribaltare le certezze dei sondaggi.
La strada però è in salita. «Ho votato tutta la mia vita Nea Demokratia, il partito del premier — racconta davanti al palco Danai Dimitropoulou, dipendente del Comune di Atene — . E cosa ho avuto in cambio? Il mio stipendio è sceso da 1.400 a mille euro. Mio marito è rimasto senza lavoro due anni fa e da 12 mesi non ha più nemmeno l’assistenza sanitaria. Un disastro visto che è diabetico». Risultato: come molti ex elettori del centrodestra domenica prossima «farò quello che non avrei mai immaginato di fare in vita mia: mettere la croce sul simbolo di Syriza».
Tsipras e Iglesias sanno che certi treni passano una sola volta. E non vogliono sprecare il jolly che hanno in mano, sperando di trovare lungo il percorso alleati anche in Italia, Irlanda («oggi mi ha chiamato il presidente del Sinn Fein Gerry Adams», racconta il leader della sinistra ellenica) e persino in Germania. «Noi non siamo un pericolo per l’Europa e per la Grecia ma per quelli che hanno portato il nostro paese nel baratro — assicura Tsipras — . Non abbiamo paura di niente. Combatteremo l’evasione fiscale e l’economia in nero per trovare i soldi con cui ridare il lavoro alla gente». Musica per le orecchie di Omonia. «Nessuno perderà la sua prima casa se non riesce a pagare i debiti alle banche! — aggiunge — dobbiamo lavorare per un paese più giusto, più equo e più democratico».
L’obiettivo, in questa sera piena di ottimismo, è riuscire a conquistare la maggioranza assoluta in Parlamento per poter negoziare con la Troika da una posizione di forza e senza annacquare il programma elettorale in nome di un governo di coalizione. “We will, we will rock you”, canta la piazza di Atene. Qui, sei anni fa, è iniziata la crisi dell’euro. Ma da qui, sulle note dei Queen e della rivoluzione targata “Tsiglesias”, ha iniziato a soffiare il vento che rischia di cambiare di nuovo (da sinistra) la storia dei vecchio continente.
Italicum, siamo uomini o marsupialiItalicum. La riforma Renzi-Berlusconi sfregia il parlamento: ballottaggio nazionale ed eletti dai capi partito sono un delirio antidemocratico del tutto sconosciuto in Europa
Michele Prospero, 22.1.2015
Con l’approvazione dell’emen­da­mento di un sena­tore gio­vin ita­lico (non più turco) la par­tita delle riforme sem­bra pro­ce­dere per il governo con la pre­ve­di­bile speditezza.
La cosa più stra­va­gante, sulla nuova legge elet­to­rale, l’ha pro­nun­ciata pro­prio il pre­si­dente del con­si­glio. Davanti ai suoi sena­tori in sub­bu­glio, ha detto che l’Italicum è così geniale, nella solu­zione dell’enigma della gover­na­bi­lità, che il crea­tivo con­ge­gno sarà pre­sto imi­tato in tutta Europa.
I mal­de­stri gover­nanti inglesi, che non sem­pre rie­scono a garan­tire il valore costi­tu­zio­nale della gover­na­bi­lità, cioè ad ulti­mare gli scru­tini con un vin­ci­tore sicuro rico­no­sci­bile la sera stessa dello spo­glio, faranno subito la fila al Naza­reno per com­prare la ricetta mira­co­losa e archi­viare il loro seco­lare, e piut­to­sto stu­pido al cospetto della sin­go­lare tro­vata toscana, for­mato mag­gio­ri­ta­rio uni­no­mi­nale, che non sem­pre dà il volto del gran trionfatore.
E così si appre­sta a fare anche la can­cel­liera Mer­kel. Depo­sta la teu­to­nica pre­sun­zione di suf­fi­cienza, per via di una decen­nale sta­bi­lità e gover­na­bi­lità supe­riori a quella di ogni altro sistema poli­tico euro­peo, la poli­tica tede­sca freme per appren­dere dalla pre­miata ditta Boschi-Verdini come si fa a vin­cere con cer­tezza e a dor­mire tran­quilli la sera stessa del voto, senza essere più appesi alle mano­vre per varare la grande coa­li­zione e quindi indotti al fasti­dioso rito delle migliaia di iscritti della Spd che devono dare la loro appro­va­zione al con­tratto di governo siglato.
Per non dire degli spa­gnoli o dei greci, che devono fati­care sovente per rac­ca­pez­zare sin­goli voti di sigle minori per garan­tire la fidu­cia a un governo malconcio.
O dei vir­tuosi sta­ti­sti dei paesi nor­dici, che spesso dal con­teg­gio dei voti non sanno a chi toc­chi lo scet­tro e si affi­dano abi­tual­mente a lun­ghi governi di minoranza.
E anche i fran­cesi tro­ve­ranno pre­sto il modo per sep­pel­lire il loro incerto mag­gio­ri­ta­rio uni­no­mi­nale a dop­pio turno e sosti­tuirlo con il sen­sa­zio­nale mag­gio­ri­ta­rio di lista esco­gi­tato al Nazareno.
Ora che l’Italicum ha sve­lato i sacri misteri della vit­to­ria certa, l’Europa può vol­tare pagina nella sto­ria delle isti­tu­zioni e acqui­stare a buon mer­cato il pre­zioso bre­vetto della governabilità.
La vit­to­ria certa, da con­se­gnare al calar della sera, nel timore che i depu­tati siano chia­mati per espri­mere una mag­gio­ranza tra­mite le dina­mi­che seco­lari che sor­gono in aula, è però del tutto estra­nea alla logica del parlamentarismo.

Il vincitore è una possibilità, non un obbligo
La costru­zione mec­ca­nica di un vin­ci­tore, altera a tal punto la strut­tura del par­la­men­ta­ri­smo, che pre­fe­ri­bile sarebbe pas­sare, con il rigore neces­sa­rio e soprat­tutto i con­tro­po­teri richie­sti, all’incognita di una forma di governo pre­si­den­ziale piut­to­sto che for­zare in maniera così irra­zio­nale e costosa le com­pa­ti­bi­lità del regime par­la­men­tare sino a sfigurarlo.
L’obbligo della vit­to­ria fa incli­nare tutto il con­ge­gno com­pe­ti­tivo nella dire­zione della gover­na­bi­lità come arti­fi­cio e la rap­pre­sen­tanza perde qual­siasi rilievo fon­da­tivo del rap­porto poli­tico, è un mero con­torno inessenziale.
Non è dalla rap­pre­sen­tanza che si esprime la fun­zione di governo ma è dalla posta­zione del governo, aggiu­di­cata da un capo di coa­li­zione, che si pro­cede alla riem­pi­tura della rap­pre­sen­tanza con nomi­nati ben retri­buiti ma desti­nati a un ruolo pas­sivo nella legislazione.
E’ evi­dente che una logica pre­miale, già di dif­fi­cile com­pren­sione nella sua con­fi­gu­ra­zione siste­mica, è comun­que ammis­si­bile come un ecce­zio­nale sup­porto for­zoso ad una ricerca di gover­na­bi­lità (in paesi fran­tu­mati e bloc­cati, senza ricam­bio), altri­menti non garan­tita, solo se com­pare come una pos­si­bi­lità. Cioè, fis­sata al 40 per cento l’opportunità di otte­nere un pre­mio in seggi, se il bonus non scatta, per­ché nes­suna lista ha var­cato la soglia pre­vi­sta, diventa una palese for­za­tura costrin­gere l’elettorato ad una seconda tor­nata, dove l’entità della par­te­ci­pa­zione peral­tro sfuma.
Se la pre­vi­sione di un dop­pio turno è effi­cace nei sin­goli col­legi per ampliare il radi­ca­mento ter­ri­to­riale del depu­tato che in astratto si separa dalla disputa nazio­nale per il governo, del tutto insen­sato diventa come cor­nice di una com­pe­ti­zione tra liste.
La volontà del corpo elet­to­rale, in merito al pre­mio, può mani­fe­starsi nel primo pas­sag­gio elet­to­rale. Se gli elet­tori non hanno offerto un soste­gno espli­cito al par­tito mag­giore, è una cami­cia di forza alquanto impro­pria pre­ve­dere la costri­zione a dare comun­que il pre­mio attra­verso un bal­lot­tag­gio di lista.

Il premio può essere eventuale, non obbligatorio
Se poi il pre­mio otti­male dal punto di vista nume­rico è sti­mato dal legi­sla­tore al 15 per cento dei seggi (per­ché non si può gover­nare con il 50,1 per cento? Kohl aveva nel Bun­de­stag un solo voto di scarto), salta ogni rife­ri­mento a un incen­tivo ragio­ne­vole se viene rap­por­tato alla quan­tità di con­senso riscossa nel primo turno. Alla luce dei son­daggi odierni, il Pd avrebbe, in caso di suc­cesso al bal­lot­tag­gio, un pre­mio di oltre il 20 per cento, il M5S del 35 per cento e Forza Ita­lia del 40 per cento.
Le distor­sioni del prin­ci­pio di rap­pre­sen­ta­ti­vità, e la can­cel­la­zione della pari influenza delle sin­gole espres­sioni di voto, restano evi­denti. Nell’Italicum, le liste con ripar­ti­zione dei seggi sta­bi­lita a livello nazio­nale sono evo­cate per tra­scen­dere i col­legi, e il capo di coa­li­zione, inve­stito del supremo comando, è intro­dotto per ren­dere irri­le­vanti le liste.
Nel modello per­si­stente di una inve­sti­tura del lea­der o sin­daco d’Italia, il par­la­mento non deve in alcun modo esal­tare la sua auto­no­mia fun­zio­nale di organo di con­trollo e di indi­rizzo. Con­nessa a tale voca­zione all’opacità del ruolo del par­la­mento, è la stroz­za­tura di ogni nesso tra depu­tato ed elet­tori, tra col­legi e territori.
Il capo vin­ci­tore crea la rap­pre­sen­tanza, e una schiera di nomi­nati fa da scudo alla sua volontà di potenza. L’anomalia di un governo costi­tuente, che si crea la legge elet­to­rale per vin­cere, e la con­fe­ziona secondo un cal­colo di imme­diata con­ve­nienza, è dav­vero un uni­cum in demo­cra­zie di un qual­che pregio.
La gran fretta di appro­vare la legge elet­to­rale prima dell’elezione del capo dello Stato (e quindi anche dell’opportunità di un suo pre­li­mi­nare vaglio di costi­tu­zio­na­lità) svela una pre­oc­cu­pante caduta del ren­di­mento demo­cra­tico di isti­tu­zioni sfre­giate a colpi di canguro.

I fantasmi del QuirinaleDemocrack. Tensione alle stelle nel Pd. Fassina accusa Renzi: «È il capo dei 101, lo sanno tutti». Rissa nel partito. Guerini: sciocchezze. Ma l’ex portavoce di Prodi: c’erano alcuni renziani
Daniela Preziosi, il Manifesto 23.1.2015 
Un boato silen­zioso, un ossi­moro peri­co­loso per i fra­gili nervi del Pd alla vigi­lia del voto per il nuovo capo dello stato. Ieri a Mon­te­ci­to­rio Ste­fano Fas­sina, ex vice­mi­ni­stro del governo Letta e oggi diri­gente in dire­zione osti­nata e con­tra­ria a quella di Renzi, a chi gli chie­deva del voto sul Colle insi­nuando il dub­bio che i pros­simi fran­chi tira­tori saranno quelli della mino­ranza Pd, risponde sec­ca­mente: «A dif­fe­renza di quelli che oggi chie­dono disci­plina e due anni fa hanno capeg­giato i 101, noi siamo per­sone serie. Nes­suno deve temere da noi i fran­chi tira­tori». Intende dire che Renzi ha gui­dato i 101 che boc­cia­rono Prodi al Colle? «Non è un segreto», è la risposta.
Nel Pd cala il gelo. Il vice segre­ta­rio Lorenzo Gue­rini sen­ten­zia: «Una scioc­chezza incre­di­bile». Sui social net­work si sca­te­nano gli insulti. «Aspetto le scuse di Fas­sina», twitta Angelo Rughetti, «accuse gravi e inop­por­tune», il popo­lare Simone Valiante, «Ha perso luci­dità, si riposi» attacca Edoardo Patriarca. Por­ta­borse e ultrà ren­ziani usano espres­sioni forti. Anche fra i ber­sa­niani doc, all’epoca un gruppo com­patto oggi sfi­lac­ciati in almeno tre cor­renti, come ha cer­ti­fi­cato la riu­nione di mer­co­ledì sera alla camera, l’uscita non è apprezzata.
Fas­sina è un diri­gente appas­sio­nato e impul­sivo, ma è dif­fi­cile che una bat­tuta così gli sia sfug­gita. Quel 19 aprile 2013 i ren­ziani appena eletti erano meno di 50, quindi arit­me­ti­ca­mente non pos­sono por­tare da soli la respon­sa­bi­lità di quell’episodio. Che infatti fu messo in capo, sem­pre rigo­ro­sa­mente a micro­foni spenti, ai popo­lari infu­riati per il pre­ce­dente affos­sa­mento di Marini (a cui Renzi con­tri­buì aper­ta­mente) e ai dale­miani mal­tol­le­ranti verso il pro­fes­sore sin dal ’98.
È vero però che nel pome­rig­gio di quel 19 aprile, appena con­su­mata la vota­zione, men­tre la camera era nel caos e il Pd nel panico, fu pro­prio Renzi, da Firenze, a dichia­rare: «La can­di­da­tura di Prodi non c’è più». Una con­clu­sione curio­sa­mente fret­to­losa: giu­di­cata una firma sul delitto.
Sta­volta nean­che Ber­sani difende il suo ex brac­cio destro: «È la sua opi­nione», dice, del resto «allora c’era chi non voleva Prodi, chi non voleva Ber­sani. L’importante è che quella cosa non la fac­ciamo più».
In que­sti giorni fra Palazzo Chigi e la camera cir­co­lano liste di ’inaf­fi­da­bili’ sull’elezione del Colle, la prova del nove della lea­der­ship (e della pre­mier­ship) di Renzi. E per chi non è in linea con il capo, il rischio di essere bol­lato del mar­chio d’infamia dei nuovi 101 c’è: «Io che una slealtà l’ho subita, pra­tico lealtà», con­clude l’ex segre­ta­rio. «L’unica cosa che tanti di noi chie­dono è che non si pensi mai di pre­pa­rare la mine­stra con la destra e farla bere con forza a un pezzo del Pd».
L’ex por­ta­voce di Prodi San­dra Zampa, oggi molto vicina a Renzi, non smen­ti­sce del tutto Fas­sina: «Imma­gino che inten­desse dire che anche la com­po­nente ren­ziana, o meglio alcuni ren­ziani, hanno par­te­ci­pato all’ affos­sa­mento». Un solo capo «non c’è stato», rico­strui­sce, «non dico che Renzi non c’entrasse, però non credo che lui avesse dato indi­ca­zioni ai suoi per non votare Prodi. Di alcuni ren­ziani sicu­ra­mente c’è stata la regia, ma anche Ber­sani è stato tra­dito dai suoi. Poi hanno par­te­ci­pato quelli che erano arrab­biati per la vicenda Marini».
All’epoca — altri tempi — i ren­ziani erano una cin­quan­tina. Per arri­vare ai 101, o forse ai reali 121 (con­tando i voti che sul Pro­fes­sore arri­va­rono dai 5 stelle) ne man­cano altret­tanti. Quel voto fu insomma una spe­cie di «Assas­si­nio sull’Orient Express», quello che si con­suma nel giallo di Aga­tha Chri­stie in cui tutti i pas­seg­geri di un treno par­te­ci­pano ad un omi­ci­dio con la loro per­so­na­lis­sima coltellata.
Un delitto da cui «ha tratto van­tag­gio chi voleva far fuori Ber­sani e il suo no alle lar­ghe intese. Non c’è stata una regia unica, ma certo ci fu un obiet­tivo comune», ricorda Chiara Geloni, all’epoca stretta col­la­bo­ra­trice di Ber­sani che poi, con Ste­fano di Tra­glia ha rac­con­tato quella vicenda nel libro Giorni Bugiardi.
Per que­sto sull’episodio il Pd non volle mai affron­tare una discus­sione aperta. Invece la let­te­ra­tura su quel delitto è ster­mi­nata. «Fu il col­lasso della classe diri­gente di cen­tro­si­ni­stra», ha scritto Wal­ter Tocci in Sulle orme del gam­bero. Il gior­na­li­sta dell’Espresso Marco Dami­lano, in Chi ha sba­gliato più forte, tra­scrisse un’intervista a uno dei 101, una con­fes­sione ano­nima di un diri­gente dalemiano.
Ma è l’anno zero della sto­ria recente del par­tito e rischia di restare il fan­ta­sma, il buco nero delle ori­gini dell’era Renzi.
E la sinistra di casa nostra sbarca ad Atene: la “Brigata Kalimera” alla corte di SyrizaTrecento intellettuali deputati e no global fanno comizi in vista delle elezionidi Giuseppe Salvaggiulo La Stampa 23.1.15 qui

La Brigata Kalimera, dall’Italia con furoredi E. L. Repubblica 23.1.15
ATENE . La sirena di Alexis Tsipras chiama. La Brigata Kalimera (come si sono auto-battezzati con un filo d’ironia) risponde. «Abbiamo cominciato quasi per scherzo per sostenere i nostri vecchi amici di Syriza – racconta Raffaella Bolini, l’organizzatrice di questo strano viaggio della speranza della sinistra italiana. Poi tutto è andato oltre le nostre previsioni». Sotto lo striscione “Kalimera Grecia, Kalimera Europa” in piazza Omonia, di fronte al palco da cui parla il favorito numero uno delle elezioni elleniche, si sono trovati in duecento. Politici d’esperienza come l’ex ministro Paolo Ferrero («E’ la prima volta da Maastricht che c’è una vera alternativa nel Vecchio continente»). Volti storici come quello di Luciana Castellina e facce più giovani come Eleonora Forenza, parlamentare europea della Lista per Tsipras. Ma anche decine di ragazzi e diversamente ragazzi arrivati qui – come dice Carlo, studente di 23 anni di Perugia – «perché guidati dalla certezza che il voto in Grecia è l’unica occasione per cambiare». E perché qui - come ammette Bolini - «si sta mettendo un piccolo mattone per provare a costruire la nuova casa comune della sinistra italiana».
In piazza risuonano le note di “O Bella Ciao”, versione rock dei Modena City Rambler. «Tsipras? Mi ricordo di lui nel 2001, quando ha cercato di arrivare a Genova per il G8 ed è stato fermato a manganellate ad Ancona dalla polizia », racconta Bolini. «Allora noi eravamo più avanti, ora ripartiamo da zero», ammette Ferrero. Qui sotto lo striscione in Omonia, sono convinti tutti che a sinistra di Renzi ci sia spazio per creare una Syriza tricolore. C’è il caso Cofferati, ci sono i venti di scissione nel Pd. Il toto-Brigata Kalimera dà in arrivo tra oggi e domani sotto il Partenone Stefano Fassina e Beppe Civati. «Nei prossimi due mesi la sinistra si ricomporrà – è convinto Ferrero – arriveranno in tanti e metteremo sotto la Merkel».
Facile dirlo nella tiepida serata ateniese. Con migliaia di persone che applaudono il tandem anti-troika “Tsiglesias”, come qui chiamano Tsipras e Pablo Iglesias, leader di Podemos. «La lezione di Syriza è che per vincere bisogna rimanere uniti» dice Bolini, che non ha dimenticato le mille scissioni e i partitini personali che hanno segnato la storia recente della sinistra tricolore. Intanto si riparte dalla Brigata Kalimera. «Domenica – conclude Carlo sfidando la scaramanzia– sarà davvero una buona giornata per la Grecia e per l’Europa ».

Cuperlo al leader “Muta noi democratici nella balena centrista che guarda a destra”“Non me ne vado, ma voglio anche capire che partito è diventato il Pd: discutiamo di come siamo cambiati”intervista di Francesco Bei Repubblica 23.1.15
ROMA Gianni Cuperlo, sinistra dem. Alla vigilia delle votazioni per il Quirinale è tra i critici più duri delle scelte di Renzi. Fino all’accusa di voler dar vita a un nuovo partito con Berlusconi.
Forza Italia è entrata in maggioranza?
«Lo chiedo io. Mai contestato il principio che le riforme si fanno assieme ma qui si dice che da quell’accordo deriverebbe la scelta sul Quirinale e non solo. Serve chiarezza ».
Seguiamo una logica aristotelica: se è vero, come dite voi, che è cambiata la maggioranza di governo, significa che la minoranza dem che ha votato contro l’Italicum va considerata all’opposizione?
«L’abbinamento tra Esposito e Aristotele è suggestivo ma ci svia. Il punto è che la riforma elettorale e della Costituzione dovrebbero osare di più. Io voglio superare il bicameralismo ma si è blindato un Senato che sarà un ibrido. Un po’ Camera delle garanzie, un po’ delle autonomie. La conferenza Stato-Regioni difenderà le sue prerogative e aumenteranno i contenziosi davanti alla Consulta. La vivo come un’occasione sciupata e comunque la battaglia continua».
Ogni Ditta ha le sue regole. Sull’Italicum si sono riuniti gli organi direttivi del Pd, ma al dunque la minoranza si è sentita legibus soluta, sciolta da ogni vincolo. Come fate a invocare la libertà di coscienza per una materia così squisitamente politica come la legge elettorale?
«Certo che la materia è politica ma le regole raccontano la tua concezione della democrazia. Le proposte fatte potevano migliorare i testi sia dell’Italicum che del futuro Senato. Invece si è abbassata la saracinesca e le sole correzioni sono transitate dal famoso patto. Avrei dato più fiducia al Parlamento invece di spostare il processo costituente in una sede extra parlamentare. Per altro senza streaming».
Non legittimate in questo modo l’accusa renziana di essere un partito nel partito?
«A parte che il primo a dotarsi di un partito nel partito è stato il premier, io so che esiste un’alternativa all’idea di partito di Renzi e ad alcune sue scelte di governo. Questo pluralismo è l’anima del Pd e non può che avere lo scopo di cambiare quell’idea di partito e quelle scelte».
Adesso considerate le preferenze come la panacea dei mali della democrazia. Eppure nell’ottobre 2012, a Youdem, Bersani disse che “in Italia le preferenze portano a situazione patologiche”...
«Resto affezionato ai collegi uninominali. Ma sto con chi si batte contro un Parlamento fatto ancora in prevalenza di nominati».
Da mesi ormai alcuni esponenti della minoranza trattano Renzi come il principale nemico. Avete la sindrome di chi non si rassegna ad aver perso il congresso e cerca la rivincita?
«Per me il congresso è finito un anno fa. Sostengo il governo, Renzi è il mio segretario e credo di dovergli la lealtà di chi difende e argomenta le proprie idee. Se rinunciamo a questo perdiamo tutti».
Quindi si sente ancora del Pd?
«Sì ma voglio capire che partito è. Perché, tornando all’Italicum, la novità non è il tentativo di spingere verso due grandi partiti ma il fatto che uno dei due col 13% dei voti non ha alcuna chance di vittoria. Allora delle due l’una. O Berlusconi consegna i suoi a una resa preventiva oppure si immagina che il partito della Nazione debba risolversi in una balena centrista relegando ai margini chi non si omologa».
E il Pd che fine farebbe?
«In quel caso il nostro destino sarebbe diventare un partito moderato che guarda a destra. È anche in questo la mutazione d’identità del Pd renziano, e io vorrei discuterne. Per capire se abbiamo ancora la stessa visione della sinistra, del bipolarismo, della democrazia».
Quanto peserà lo strappo sull’Italicum nelle scelte relative al Quirinale? C’è da immaginare imboscate di franchi tiratori?
«Ma naturalmente. Ho appena ricevuto la convocazione per una riunione in un luogo segreto dove ordiremo trame diaboliche. Altre domande?» Fassina accusa Renzi di essere stato il mandante dei 101? Ha dei sospetti anche lei?
«No e non mi sono mai appassionato al tema ».
Quella guerra tra bande e le accuse incrociate nel giorno più nero del Pddi Monica Guerzoni Corriere 23.1.15
ROMA Il Parlamento (e i gruppi del Pd) non sono cambiati dal giorno livido dell’agguato contro Romano Prodi, il frutto avvelenato di vecchi rancori, tradimenti e vendett e incrociate che innescarono una catena di lutti politici. Il 19 aprile 2013 è una data che il Pd porta impressa nel suo dna, severo monito degli errori da non ripetere. I 101 franchi tiratori che affossarono l’ex premier — incoronato di fresco con una standing ovation al teatro Capranica — sono ancora a volto coperto e la loro identità resterà celata dal voto segreto.
Dopo venti mesi di tormenti la dolorosa autoanalisi non è finita. Chi furono i registi del trappolone ai danni dell’intero Pd? «Il capo dei 101 è Renzi», accusa a sei giorni dal voto Stefano Fassina. E la ferita mai suturata riprende a sanguinare. L’unico farmaco è «la lealtà» suggerisce Bersani, colui che ha pagato il prezzo più alto. E la domanda che assilla i protagonisti di quella pagina nera è se il Grande Complotto possa vedere un remake, magari a parti invertite. Silvio Sircana, storico portavoce di Prodi, si augura che i grandi elettori «riescano a trovare un candidato forte e credibile e che non si facciano invischiare in questo tipo di inciuci». L’ex senatore del Pd resta convinto che l’obiettivo dei cecchini fosse «radere al suolo Bersani». L’ordine di eseguire la sentenza non arrivò però da un solo capocorrente, «fu il combinato disposto di una guerra per bande che si consumò, in modo un po’ cialtrone, sulla persona di Prodi».
Le bande, appunto. Quelle correnti che sono da sempre il male endemico del Pd. Nelle ore drammatiche in cui si cominciava a parlare di mutazione genetica del Pd, Sandra Zampa sfogava il suo dolore indicando D’Alema e Fioroni. Quindi annunciava l’autosospensione dal gruppo, perché riteneva «impossibile restare seduta accanto a chi ha accoltellato Prodi alle spalle come un sicario». Nel tempo la vicepresidente del Pd si è convinta che «tutti parteciparono per arrivare a quel risultato e molti si sono pentiti». Se avessero conosciuto meglio il «Prof» e intuito che si sarebbe sfilato dopo la batosta, il giorno dopo lo avrebbero votato.
Tutti traditori? Dalemiani, fioroniani, bersaniani e renziani, anche? Il perimetro è troppo largo per distinguere volti nel mucchio. Quanto all’allora sindaco di Firenze, una delle tesi difensive è che Renzi non avesse le truppe per affossare Prodi, da solo. «Non ne aveva la f orza», lo assolve Antonio Bassolino. Sandro Gozi, ora a Palazzo Chigi, si è addannato per mesi alla caccia dei «killer del fondatore».
«I franchi tiratori? Provate a chiamare Fioroni e D’Alema», insinuava Felice Casson. Ma D’Alema ha sempre smentito con un certo vigore complotti e regie occulte del fattaccio, minacciando denunce contro i «calunniatori». E se gli accusatori teorizzavano che l’ex premier avesse lasciato le impronte digitali con quei quindici voti incassati per se stesso, lui andava in tv e reagiva buttando la croce su Bersani: «È una vergogna autentica. Si cercano capri espiatori, ma come potevo impedire che 15 persone mi votassero? ».
Capri espiatori, la stessa espressione a cui affida la sua difesa Beppe Fioroni. L’ex ministro amico di Franco Marini, altra vittima illustre del fuoco amico democratico, uscì dall’aula brandendo il cellulare. Aveva fotografato la scheda con scritto PRODI: «C’era un clima da caccia alle streghe. Ero sotto stress emotivo, ma non lo farei mai più. Una regia creò il delitto perfetto precostituendo i killer in quelli più scontati». Renzi? «È stato iperattivo su Marini, su Prodi non ci credo».
Dal Mali, la mattina in cui fu mandato al massacro con una telefonata di Bersani, Romano chiamò il già líder Maximo per sondare la sua reazione alla candidatura e la risposta non gli suonò di buon auspicio. «Benissimo — si congratulò D’Alema, come ha raccontato Alan Friedman —. Ma decisioni così importanti dovrebbero essere prese coinvolgendo i massimi dirigenti». Prodi, che già a Bersani aveva comunicato i suoi dubbi sulla «nobiltà del casato» pd, chiuse il telefono e disse alla moglie che era finita. Il verdetto dell’urna confermò il cattivo presagio e l’allora sindaco dichiarò che la candidatura di Prodi poteva ritenersi decaduta. Una velocità che insospettì, tra i tanti, anche la lettiana Paola De Micheli, ora al governo: «La prima gallina che canta ha fatto l’uovo...».
Pippo Civati fu il primo a prevedere che i 101 sarebbero entrati al governo e rivendica di non essere stato smentito: «Nasce tutto da lì. Lo schema delle larghe intese e i governi di Letta e poi di Renzi hanno preso l’abbrivio da quel voto». Il 29 gennaio che accadrà? «Sarebbe un bel segnale vedere 101 franchi tiratori nella prima votazione, sul nome di Prodi... Hanno sottovalutato il problema e adesso si ripropone».

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