Scacco matto al Cavaliere e soprattutto alla coraggiosissima e lucida "sinistra" del suo partito.
Comunque, nel merito c'era di peggio eh... [SGA].
Le lacrime di Bindi e i complimenti di LettaSoddisfatto anche Bersani, per una volta minoranza e renziani uniti. Ma restano ruggini tra gli ex ds
di Monica Guerzoni Corriere 30.1.15
ROMA
Rosy Bindi piange felice e, mentre i renziani con i cellulari
immortalano le lacrime, fa pace con il premier: «Se questo è il nuovo
metodo si può fare della strada assieme...». Bersani è contento, perché
ha ricucito con lo stesso filo di sutura i rapporti con Renzi e la
ferita dei franchi tiratori: «Ci ho lavorato, Mattarella è una bella
figura e spero che Forza Italia non perda l’occasione. L’altra volta è
mancata la lealtà, ma ora i grandi elettori dovranno mettercela, per il
Paese, per il Pd e anche per me. Me lo devono un po’, no?». Enrico Letta
riappare e si complimenta: «Spero che anche i più riottosi facciano
prevalere la spinta all’unità. Il metodo di Renzi? Il risultato mi
sembra buono». Scene da un nuovo Pd, che prova a cancellare la macchia
dei 101 e apre un nuovo capitolo della sua storia, nel nome di un’unità
così evidente da generare, assieme all’euforia, mugugni e sospetti
incrociati.
La scena del miracolo è un centro congressi scelto per
far dimenticare il Capranica del 2013, teatro della funesta ovazione che
incoronò (fintamente) Prodi. Questa volta si vota la relazione di Renzi
e lo sventolare unanime di tessere dice che, salvo colpi di scena,
Mattarella salirà sul Colle. Lo voterà persino Civati, che si è battuto
per Prodi. Il rimpianto dei prodiani stride con l’euforia di «popolari»
come Fioroni, che dopo una paziente tessitura spodestano gli ex ds dal
Quirinale. Lo stato d’animo a sinistra è un po’ quello di Ileana
Argentin: «Dispiace che il Pd non riesca a eleggere un ex segretario,
Bersani, Veltroni o Fassino».
I «giovani turchi», che puntavano su
Amato, l’altra notte hanno discusso fino all’una prima di arrendersi a
un cattolico. E adesso c’è chi a sinistra insinua che i grandi elettori
di Orfini e Fassino potrebbero far mancare voti. Verducci smentisce:
«Sosteniamo Mattarella». Qualche vecchia ruggine correntizia resiste,
eppure il segno della giornata è l’unità. I veltroniani sono delusi?
Walter twitta «scelta giusta». La terna di Bindi era
Prodi-Mattarella-Veltroni e la presidente dell’Antimafia dà atto a Renzi
del mezzo capolavoro, sperando che si compia anche l’altra metà: «È
stato bravo a dire che non ci sarà un altro candidato, ha giocato bene.
Un risultato di tutti, se lo roviniamo succede una catastrofe».
Ottimismo
e cautela vanno a braccetto. «Prima vedere cammello...», scherza il
renziano Ermini. Il bersaniano Gotor rivendica lo strappo sulla legge
elettorale: «Abbiamo sventato un presidente scendiletto». Se qualcuno
trama, Bersani si tira fuori: «Nessuno farà scherzi. Il lavoro del
partito è più in discesa se va a buon esito questa soluzione, che mostra
un Pd capace di trovare una linea unitaria. Ora i temi del governo
corrono con le loro gambe». Se tutto va bene Renzi ricompatta il Pd e
blinda la legislatura, magari con qualche nuovo innesto dalla minoranza.
E se Bersani non andrà al governo perché «è un numero uno», come dice
Zoggia, per la Finocchiaro sarebbe pronto un ministero.
La scommessa vinta (per ora) del premier sui 444 voti del suo partito
di Lina Palmerini Il Sole 30.1.15
Questa
volta non è solo Renzi che ci mette la faccia. Su Sergio Mattarella
ieri si sono spesi i principali esponenti del Pd da Bersani a Veltroni,
Cuperlo e la Finocchiaro. Su questa elezione c'è la faccia di tutto il
Pd.
Non è solo il precedente del 2013 la forza del leader Pd ma è la
forza di un percorso che ha portato tutti i “capi” corrente a esporsi
su Sergio Mattarella come “il” candidato del Pd, quello più unitario,
dietro cui non si nasconde nessun altro nome, nessuna opzione B. Il vice
segretario Guerini in uno dei suoi colloqui sembra che abbia detto che
dopo Mattarella c'è la “matteata” - cioè un nome come quello di Cantone
che proprio ieri è stato a Palazzo Chigi - ma è chiaro che quello è lo
scenario della disperazione, dell'azzardo. Uno scenario alternativo a
quello che ha invece scelto il premier che in questa circostanza ha dato
prova di realismo politico mirando a un solo obiettivo: la compattezza
del Pd. A differenza di Bersani che fece un percorso a zigzag, prima
strizzando l'occhio ai grillini eleggendo i presidenti Grasso e
Boldrini, poi a Berlusconi, proponendo per il Colle Marini, e poi
rovesciando lo schema con Prodi, Renzi ha tirato dritto. E la sua prima
scelta - che ieri ha detto essere anche l'ultima - sono quei 444 voti di
cui è portatore il suo partito.
Nell'elezione del capo dello Stato i
voti non si pesano ma si contano, ed è alla dote Pd che il leader ha
mirato, ben sapendo che nessuno degli altri protagonisti politici poteva
garantirgli quel numero. Non Berlusconi che ne ha 130 e ne potrebbe
perdere tra i 30 e i 40 di Fitto, non Alfano che ha una parte di Ncd che
flirta con l'area renziana, non il centro di Casini che sembra possa
lentamente virare sulla scelta di Mattarella in nome di una tradizione
democristiana. E dunque quell'unico colpo che Renzi poteva sparare sul
Quirinale l'ha indirizzato su quel numero: 444. E poi ha tessuto una
tela insieme a Guerini per agganciare altre forze politiche che
potessero anche sostituire i voti del patto del Nazareno: i 32 voti di
Scelta civica più i 16 di Per l'Italia, i 34 di Sel, i dissidenti
grillini e il gruppo misto vicino alla maggioranza. Insomma, ha capito
che solo il numero magico del Pd, così alto, poteva diventare una forza
di gravità, una calamita intorno cui costruire una candidatura che
passasse alla quarta votazione. Di un presidente eletto solo con la
maggioranza assoluta Renzi ne aveva parlato fin dall'inizio come se
avesse messo nel conto di poter perdere i voti di Forza Italia.
E
così sembra. Ieri la tattica di Berlusconi e Alfano è stata quella di
muoversi come un'alleanza, una resurrezione di quel centro-destra andato
in pezzi con la condanna del Cavaliere e la sua uscita dal Senato. Il
palcoscenico, del resto, è quello del Quirinale, uno dei più visibili e
prestigiosi per alludere a una nuova operazione politica in vista delle
regionali e anche di una legge elettorale che premia la lista e quindi
le aggregazioni e non le coalizioni. Calcoli collaterali che lasciano
aperto il dubbio sul patto del Nazareno e sulla sua sopravvivenza anche
dopo l'elezione di un presidente fatto senza o addirittura contro
Berlusconi.
In pochi credono che il rapporto tra Renzi e l'ex
Cavaliere possa rompersi ma intanto il premier lo ha sacrificato in nome
del suo partito. L'unità di 444 vale - oggi - più del voto futuro
sull'Italicum alla Camera o della riforma del Senato. Renzi continua a
mirare gli obiettivi a breve termine, ora è il Quirinale tra un paio di
settimane saranno di nuovo le riforme. Intanto mette tutto il suo
partito, i capi corrente, alla prova. Una prova che sabato potrà essere
di ritrovato orgoglio o di rinnovata incoscienza.
E Bersani media “È il mio favorito fin dal 2013 mi fido del premier”
Feci subito il nome di Mattarella a Berlusconi e lui disse no e preferì Marini. Ora teniamoci prudenti, ma se va dritta ne sarò felice Non ho mai pensato di impiccarmi a un nome di sinistra. Per il capo dello Stato io non guardo alle culture di appartenenza
di Goffredo De Marchis Repubblica 30.1.15
ROMA
Bersani mediatore, Bersani che passa da una telecamera all’altra,
Bersani che assapora una possibile vittoria anche non se è più lui a
guidare la Ditta e il dividendo lo incasserà Matteo Renzi e il Pd non
più suo. «Non è finita finchè non è finita — dice l’ex segretario in un
corridoio laterale di Montecitorio —. Ma la mia soddisfazione per
l’eventuale elezione di Mattarella non è un mistero per nessuno ». Era
la sua prima scelta nel 2013. «Feci subito quel nome a Berlusconi quando
ci incontrammo per trovare un candidato condiviso ed eleggerlo alla
prima votazione. Berlusconi anche allora disse di no, preferendo
Marini». Era la sua scelta anche adesso che non conduce più le danze.
Più di Amato, forse, «perché io non guardo alle culture di appartenenza
quando si sceglie una figura come il capo dello Stato. Ovvero non ho mai
pensato di impiccarmi a un nome di sinistra. Andavano bene tutt’e due».
Ma la sua preferenza è sempre andata all’ex dirigente della sinistra
Dc. Che due anni dopo sembra vicino al traguardo. Bersani spiega di non
voler analizzare adesso cosa è cambiato dal 2013 al 2015, perché oggi si
può fare quello che allora fu impossibile o peggio, si rivelò una
pasticcio clamoroso. «Non è ancora fatta ed è giusto tenersi un margine
di prudenza », dice scottato dalla tremenda catastrofe dei 101 traditori
di Prodi, che impallinarono il Professore per impallinare lui. L’ex
segretario però si muove in queste ore dando la netta impressione di
voler evitare il bis, malgrado Renzi sia un avversario interno e quasi
tutto li divide. «Stavolta di Matteo mi fido. È andato oltre i confini
del Nazareno e lo dimostra la reazione di Berlusconi. Ora il problema ce
l’ha l’ex Cavaliere».
Quindi la mattina presto in Transatlantico
media con Nichi Vendola, già ben disposto a convergere su Mattarella
dalla quarta votazione. Approfitta dei microfoni che lo seguono, delle
tv che lo invitano per una ospitata volante per catechizzare la
minoranza. «Se siamo tutti responsabili ce la facciamo, poi Berlusconi
farà quello che vorrà. Secondo me perde un’occasione pazzesca a tirarsi
fuori». Per anticipare i franchi tiratori tira in ballo se stesso.
«L’altra volta non ci fu lealtà nei mie confronti. Perciò adesso la
devono anche a me. Possiamo raffigurare un Pd che sia davvero al
servizio del Paese».
La fiducia in Renzi è cresciuta dopo il
colloquio di mercoledì, durato appena mezz’ora, a differenza di quello
successivo con Berlusconi seduto a Palazzo Chigi per ben due ore. «Sono
stato poco perché è andato benissimo. Mi ha detto che puntava tutto su
Mattarella, in continuità con la mia scelta del 2013. Che il patto del
Nazareno si poteva scansare in questo frangente e che l’importante era
tenere unito il Pd». Musica per le orecchie dell’ex segretario. Che ora
non vuole immaginare scenari, nuove maggioranze o uno spostamento
dell’asse a sinistra grazie ai voti di Sinistra e libertà, future
correzioni dell’Italicum e delle riforme. «Non è il momento, aspettiamo
sabato». Prudente. Come lo sono i renziani, del resto. Il braccio destro
del premier Luca Lotti ieri solcava il Transatlantico osservando i
capannelli di deputati, soprattutto quelli del Pd. Per vedere se le
correnti si riunivano, se si creava l’atmosfera della trappola.
Bersani
intanto dava una mano, cercando argomenti per non avere sorprese dal
gruppo democratico. Tra un collegamento tv e l’altro perdeva le due
“chiamate” al seggio e recuperava grazie a una deroga della presidenza.
«Con Mattarella si chiuderebbe la ferita dei 101», diceva in video a
SkyTg24 allontanando definitivamente un fantasma ormai invecchiato che
ha avuto però tanto spazio tra i militanti. Salutava Enrico Letta,
sorridente e disponibile con i giornalisti dopo un lungo silenzio.
«Mattarella? Una decisione giusta, la stessa che avevamo preparato due
anni fa. Significa che la legislatura ha avuto un’evoluzione...».
Bersani in effetti pensa che i nodi siano venuti al pettine: che la
“bolla” grillina è scoppiata, che il Parlamento de-berlusconizzato dalla
“non vittoria” del Pd ha prodotto qualche buon risultato. E sicuramente
l’elezione di Mattarella è quello che all’ex segretario piace di più.
La scommessa di Renzi balla su venti voti di scarto
Punta tutto su Mattarella scaricando Forza Italia. L’assenso di Bersani
di Carlo Bertini La Stampa 30.1.15
La
scommessa è forte: i numeri per eleggere Sergio Mattarella alla quarta
votazione ci sono ma la misura per superare la fatidica soglia di 505
voti è stretta, una ventina di sì in più al netto della quota
«fisiologica» di franchi tiratori messa in conto. Nella war room del
premier si fanno i conti, l’adrenalina per una mossa politica fin qui
vincente è palpabile, c’è chi è convinto del soccorso azzurro sottobanco
di una ventina di dissidenti, ma c’è chi si preoccupa più di altri.
Si
gioca sul filo di un’operazione che ricalca «il Napolitano uno», spiega
Renzi, quell’elezione del 2006 in cui il capo dello Stato fu eletto
senza Forza Italia. Il premier, pur disposto a tendere una mano, non
confida troppo in una retromarcia di Berlusconi: non dispera di tener in
piedi il patto del Nazareno ma si interroga su quale sia piuttosto il
vero disegno di Angelino Alfano.
Minacce e blandizie
Con
Berlusconi ogni strada viene battuta, il primo segnale minaccioso assai è
compiuto alle sette del mattino, quando Raffaele Cantone, il magistrato
anti-corruzione varca la soglia di Palazzo Chigi e quell’incontro con
il premier viene fatto filtrare sapientemente alle agenzie. Il segnale è
che se non passerà Mattarella, sarà quello e non altro il punto di
arrivo. «Non c’è Casini che tenga, se lo tolgano dalla testa». Gli
ambasciatori fanno di tutto, ad un certo punto sembra che l’ex Cavaliere
possa ammorbidirsi, ma i segnali che arrivano da Letta e Verdini non
sono positivi. Anche l’incontro a tu per tu tra Renzi e Berlusconi che
tutti si attendono e che addirittura potrebbe sbloccare un voto al primo
colpo come fu con Cossiga o Ciampi non si tiene. Insomma vicolo cieco
che magari si riaprirà con un segnale, qualcuno ipotizza un appello
pubblico da parte di Renzi. «Ci sono le condizioni perché Berlusconi
possa rientrare e certo si può tendergli una mano», dice uno dei tre del
cerchio stretto, il fiorentino Francesco Bonifazi.
Il sospetto su Angelino
Ma
quel che colpisce è che i più duri siano gli alfaniani, come se
Angelino volesse intestarsi la leadership di un muro contro muro dagli
esiti poco prevedibili pure sugli equilibri di governo. In serata chi
vive gomito a gomito con Renzi a Palazzo Chigi scuote il capo. «No,
Berlusconi non ci ripensa e i numeri sono scarsini, speriamo bene. Patto
del Nazareno infranto? Vediamo, certo da lunedì se tutto va bene ci
sarà un altro presidente, si apre un’altra fase». E se va male con
Mattarella, dopo la sesta o settima votazione si passerà ad un altro
schema, che comprende appunto nomi come Grasso o Cantone, ma non altri.
Ma l’interrogativo che dalla mattina non trova risposta nelle menti di
tutto lo stato maggiore è quale sia il rendiconto politico di Alfano.
«Perché ha riunito Berlusconi e tutto lo stato maggiore di Forza Italia?
Come se si stesse intestando lui il fronte anti-Mattarella. A che
scopo?», si chiedono a Palazzo Chigi.
Come blindare il Pd
Renzi ha
già il quadro chiaro quando arriva dunque al centro congressi dietro
via Margutta all’ora di pranzo determinato a giocarsi la partita a modo
suo. Sa che sulla carta i numeri sono così delineati: 445 voti del Pd,
34 di sel, 32 di Scelta Civica, 13 di centristi, 32 delle autonomie e 15
di Gal, più una decina di ex grillini, in totale 581 voti. Tenendo
conto del 10 per cento fisiologico di franchi tiratori si arriverebbe a
520, solo 15 in più del necessario. Ha già parlato con tutti, da Vendola
ai capi-corrente del suo partito, che deve a tutti i costi blindare. E
compie quello che a detta dei suoi detrattori «è un capolavoro di
bravura», un discorso che mette a tacere le speranze di chi poteva
illudersi di sostenere la corsa di altri cavalli e che racconta al
meglio i contorni politici di questa candidatura. L’obiettivo di tenere
unito il Pd, placare le ansie di chi temeva un Presidente troppo filo
renziano, è raggiunto con «una candidatura autorevole di un uomo con la
schiena dritta, capace di dire dei no anche a quelli che lo hanno
indicato. Un arbitro e non un giocatore», così la presenta Renzi ai
grandi elettori: che si spellano le mani con maggior o minor enfasi al
sentir pronunciare quel nome. Bersani annuisce convinto di aver
sponsorizzato «un fior di galantuomo che si dimostrerà autonomo».
Lacrime di gioia degli ex Dc
L’avvertimento
che può aprirsi il baratro delle urne suona chiaro quando dice «se
falliamo non sarà una normale sconfitta parlamentare, quindi niente
giochini». Sfotte gli ex Dc « Mattarella è uno dei pochi che ha avuto il
coraggio di dimettersi», che gongolano e si commuovono: la Bindi non
trattiene le lacrime quando Renzi ricorda, insieme al profilo che
«Sergio è un uomo che ha vissuto anche con dolore personale la stagione
delle stragi di mafia. Un uomo della legalità, della battaglia contro le
mafie e della politica con la P maiuscola». Quando termina va a
complimentarsi e lui le dice «stai tranquilla non dobbiamo votare
insieme neanche stavolta perché tanto io non voto».
Mattarella va, il patto del Nazareno vacilla La scelta e lo strappo
di Massimo Franco Corriere 30.1.15
C’
è già chi parla malignamente di rivincita della Prima Repubblica e
della Democrazia cristiana. Ma se domani Sergio Mattarella sarà eletto
capo dello Stato, la vulgata dovrà essere corretta; meglio,
riequilibrata. La sua designazione da parte di Matteo Renzi suggerisce
semmai una lettura meno manichea e ideologica del passato; e permette di
rivisitarlo con un senso della storia meno influenzato dai luoghi
comuni: Mattarella incarna ciò che di meglio ha espresso quella stagione
moderata della politica italiana. Le sorprese sono sempre possibili: il
Pd è maestro di lotte fratricide, come dimostra la competizione di
circa due anni fa che approdò alla conferma di Giorgio Napolitano.
Ma
la logica porterebbe a dire che il segretario-premier è riuscito a
trovare un profilo insieme alto e condivisibile dall’intero partito, e
non solo. Mattarella è una personalità agli antipodi rispetto a Renzi,
eppure proprio questo rappresenta un elemento di merito per chi lo ha
proposto. Si dirà che ha prevalso l’esigenza di tenere unito il Pd. E
questo c’è: sarà essenziale per centrare il risultato e non aprire
giochi al buio. Non a caso, il ruolo di ricucitura di Pier Luigi Bersani
può risultare decisivo per arginare i franchi tiratori. Se regge
l’intesa, l’abilità renziana va sottolineata. Rimane da capire il ruolo
che il centrodestra si assegna.
M entre tra gli ex comunisti
Berlusconi ha spesso scelto uomini con cui dialogare — D’Alema
innanzitutto, ma per qualche tempo anche Veltroni —, i cattolici di
sinistra sono da sempre in conflitto con i suoi referenti politici, fin
da prima della discesa in campo: dorotei e socialisti. E loro non hanno
mai nascosto di provare nei suoi confronti una distanza antropologica
prima che politica.
Sergio Mattarella non è soltanto il ministro che
si dimette perché Andreotti ha posto la fiducia sulla legge Mammì, che
salvaguarda il monopolio di Arcore sulle tv private; è il dirigente del
Partito popolare europeo che definisce «un incubo irrazionale»
l’ingresso di Forza Italia nel Ppe, appoggiato dallo stesso Kohl.
La
sobrietà del personaggio agli occhi di Berlusconi diventa noia; la sua
passione per la giustizia, giustizialismo. Quel che per l’uno è una
virtù, per l’altro è un vizio. Per questo, e non soltanto perché ieri
mattina l’ha trattato male al telefono, Berlusconi è davvero risentito
con Renzi. Che ha tenuto insieme il Pd e individuato una figura
moralmente inattaccabile che difficilmente gli farà ombra, almeno dal
punto di vista mediatico. Ma ha capovolto lo schema con cui aveva
governato per un anno, in sostanziale accordo con Forza Italia.
Enrico
Letta, ieri insolitamente loquace, si augurava che l’ex Cavaliere ci
ripensasse, e finisse per sostenere o almeno non ostacolare Mattarella:
«La legge Mammì è storia di venticinque anni fa. Anch’io vengo dalla
sinistra Dc; eppure Berlusconi ha votato il mio governo. Fare politica
significa cambiare. Dicono che Mattarella alla Corte costituzionale si è
sempre opposto alle istanze di Berlusconi? E come fanno a dirlo? I
giudici costituzionali si esprimono in segreto». Un ripensamento in
effetti è sempre possibile, sollecitato da Confalonieri e Gianni Letta,
oltre che dai centristi affezionati ai loro posti di governo e
preoccupati da una rottura con Renzi. Ma Berlusconi dovrebbe davvero far
violenza a se stesso.
Non è affatto detto che, se salirà al Colle,
Mattarella si rivelerà un presidente apertamente ostile all’ex premier,
come Scalfaro (che non veniva dalla sinistra Dc). Il processo che
preoccupa di più Berlusconi è quello sulla compravendita dei senatori,
dove non ci sono «olgettine» che negano, ma un parlamentare, Sergio De
Gregorio, che sostiene di aver ricevuto denaro in cambio del passaggio
da sinistra a destra, dalla risicata maggioranza di Prodi (lui sì ex dc
di sinistra) all’opposizione. In caso di condanna, un gesto di clemenza
proveniente dalla parte lesa sarebbe più praticabile e utile per
Berlusconi di un impossibile salvacondotto generale.
Si apre uno
scenario lungo sette anni, in cui gli umori e le attitudini del
Quirinale, di Palazzo Grazioli e di Palazzo Chigi possono incrociarsi ed
evolvere in modi oggi imprevedibili. Resta il fatto che oggi Berlusconi
si è sentito tradito dall’uomo che percepiva come il proprio autentico
erede politico. È probabile che i due facciano pace. Renzi se lo augura,
anche perché — a differenza di Scalfaro, di Prodi, di Fini e di altri —
non ha ancora sperimentato cosa significa avere contro la macchina
editoriale berlusconiana.
Prove di terremoto politico
di Federico Geremicca La Stampa 30.1.15
La
storia recente, intendiamo le trappole in cui sono inciampati appena
due anni fa Franco Marini prima e Romano Prodi poi, non induce a facili
ottimismi: ma se la candidatura di Sergio Mattarella domani supererà la
prova del voto, ecco, l’elezione del nuovo presidente della Repubblica
sembra caratterizzarsi – a parte tutto il resto – come il primo atto di
un possibile cambio di fase politica dagli sviluppi pericolosamente
incerti. Infatti, arrivato davanti a un bivio vero e dovendo scegliere
tra il suo partito e la prosecuzione del contestato dialogo con
Berlusconi, Matteo Renzi ha scelto il Pd.
E la cosa, in tutta evidenza, potrebbe esser gravida di conseguenze sul profilo e lo sviluppo della legislatura...
Sergio
Mattarella, dunque. Un uomo della Prima Repubblica, un signore di quasi
74 anni, un politico (ex politico?) poco smart e dai valori
tradizionali e solidi. Un dirigente della fu Dc col quale Matteo Renzi
avrà scambiato qualche battuta tre o quattro volte in vita sua. Non un
amico, insomma. E nemmeno un possibile Presidente col quale fosse facile
immaginare una naturale sintonia politica. Eppure, Matteo Renzi ha
scelto lui. Verrà tempo, in caso di elezione al Quirinale, per provare a
spiegare con più attenzione le possibili ragioni di questa decisione:
per ora, conviene fermarsi all’annuncio di terremoto politico che la
possibile ascesa di Sergio Mattarella al Colle sembra prefigurare.
Il
Pd che si ricompatta (o sembra ricompattarsi); il Patto del Nazareno
che si frantuma, rivelandosi per quel che forse è sempre stato (almeno
nell’idea di Renzi); un pezzo di maggioranza di governo (il partito di
Alfano) spiazzato e in difficoltà; il cammino delle Grandi Riforme
(quella del Senato e quella elettorale) che pare complicarsi
ulteriormente. E sullo sfondo, naturalmente, il solito allarme per
possibili elezioni anticipate: che nessuno vuole, ma che è comodo e
facile evocare di fronte ad una mossa che per tempi e modi ha spiazzato
praticamente tutti.
Protagonista e regista dell’intera operazione
(non ancora coronata da successo, va annotato) è Matteo Renzi: un
giovane politico che nemmeno due anni fa era null’altro che il sindaco
di una media città italiana e che si è trovato – anzitempo – a
cimentarsi con quello che viene considerato l’esame di laurea per un
leader di spessore: l’elezione del Presidente della Repubblica. Vittima
di questa operazione appare, al momento, Silvio Berlusconi: da vent’anni
«padrone» del centrodestra e convinto che l’abbraccio col giovane
premier potesse costituire la premessa e la garanzia per un allungamento
della sua vita politica. Chi ieri ha parlato con l’ex Cavaliere,
racconta di un uomo prima di tutto sorpreso: e poi profondamente deluso.
«Renzi ha tradito i patti», anzi il patto dei patti, il cosiddetto e
famigerato Patto del Nazareno.
Nessuno ha mai saputo davvero cosa
prevedesse quell’intesa: tutti, al momento, possono invece osservare che
cosa abbia finora prodotto: una legge elettorale vantaggiosa per il Pd e
suicida per Forza Italia; il declino elettorale del «partito azzurro» e
la sua disintegrazione come soggetto politico unitario; un soccorso
parlamentare che ha spesso tolto dai guai l’esile maggioranza di
governo; e un Presidente della Repubblica – se Sergio Mattarella dovesse
esser eletto domani – che Berlusconi (e Alfano) pare non vogliano,
incredibilmente, votare. Se il Patto del Nazareno ha prodotto questo
(come in effetti ha prodotto) molti «professionisti del retropensiero»
dovranno forse rivedere le cose dette e scritte...
Ci sarà tempo per
ragionarci. Per ora meglio stare a quel che potrebbe accadere:
l’elezione, appunto, di Sergio Mattarella. Il nome, secondo alcuni,
forse non entusiasma (come non entusiasmò quello di Napolitano...) ma
probabilmente – considerate le divisioni dentro e tra i partiti – non
c’era al momento soluzione migliore. Domani potrebbe essere il giorno
buono, ma non è detto: dipenderà solo e soltanto dalla tenuta del Pd.
Dovesse andar bene, per Renzi sarebbe un successo notevolissimo. I guai,
magari, cominceranno dal giorno dopo...
Quel che resta del Nazareno I tre rischi (calcolati) del premier
Lo strappo con Berlusconi, i rapporti con Alfano e la tenuta del Pd nello stress test del Quirinale
di Stefano Folli Repubblica 30.1.15
AVER
scelto Sergio Mattarella come candidato autentico e non fittizio al
Quirinale rappresenta per Renzi un rischio calcolato, ma pur sempre un
rischio. Prova ne sia che al momento il patto del Nazareno è parecchio
sbrindellato e l’irritazione di Berlusconi non è una sceneggiata a uso
dei media. La verità è che il premier ha fatto prevalere la coesione del
suo partito, il Pd, rispetto alla fedeltà passiva verso un’intesa con
Forza Italia da cui aveva già ricavato il massimo.
La riforma
elettorale ha superato a Palazzo Madama lo scoglio più arduo, la riforma
costituzionale del Senato è in cammino, circa a metà delle quattro
letture: in teoria Berlusconi può vendicarsi buttando tutto all’aria,
come sta minacciando di fare, ma quale sarebbe il suo guadagno? In fondo
Renzi rimane, nonostante lo strappo sul Quirinale, il più affidabile
punto di riferimento per l’anziano leader del centrodestra.
Certo, è
esistito un tempo in cui Berlusconi si concedeva dei colpi di testa
clamorosi quanto ben meditati e finalizzati: come quando sul finire
degli anni Novanta buttò all’aria la Bicamerale di D’Alema. Ma da allora
è passata molta acqua sotto i ponti. Nella politica di oggi la parte
dello scacchista imprevedibile tocca a Renzi e Berlusconi dovrà in
qualche misura adattarsi. A meno di non voler smentire del tutto se
stesso e le scelte dell’ultimo anno, come già gli sta rimproverando il
dissidente Fitto. La verità è che nel patto non c’era tutto e sul
Quirinale non era «già tutto deciso», come hanno sostenuto per giorni
con sufficienza i difensori del dogma nazareno. Renzi si è affrancato
con destrezza da un abbraccio scomodo quando ha visto che il prezzo da
pagare (lo sfilacciamento del Pd) diventava troppo oneroso. Lo accusano
di essersi messo, scegliendo Mattarella, nelle mani dei suoi avversari,
cioè i conservatori e i «frenatori» della sinistra. Anche questo fa
parte del rischio calcolato, ma è troppo facile criticare in via
preventiva il candidato alla presidenza, da cui ci si attende
soprattutto — come ha detto proprio Renzi — che sia il garante di un
equilibrio complessivo al vertice delle istituzioni, ben sapendo che «la
Costituzione non è intangibile ».
Ancora un rischio calcolato: la
posizione dei centristi di Alfano stretti fra la permanenza al governo e
l’intesa tattica con Berlusconi. È il punto più delicato della vicenda.
Senza dubbio il gruppo Ncd-Udc non ha la minima intenzione di
abbandonare l’esecutivo, e del resto un conto è la maggioranza di
governo e un altro è la maggioranza parlamentare che esprime il
presidente della Repubblica. Tuttavia è anche una stranezza che il
ministro dell’Interno e il presidente della commissione Esteri della
Camera (Casini) non votino il capo dello Stato. Per ora la questione si
risolve con la scheda bianca alla quarta votazione, la stessa scelta
annunciata da Berlusconi. Regge quindi la convergenza con Forza Italia,
ma senza che da essa nascano nuovi equilibri (e pensare che fino a pochi
giorni fa qualcuno prevedeva un «rimpasto» per allargare la maggioranza
a esponenti berlusconiani): un’altra contraddizione che dovrà
risolversi a breve.
Infine c’è il rischio che riguarda lo stesso Pd.
Renzi ha reso più compatto il partito con Mattarella, ma ora serve la
verifica dei numeri. Sulla carta alla quarta votazione il candidato sarà
eletto anche senza l’apporto dei centristi. Ma è evidente che Renzi
spera fino all’ultimo di allargare la platea del consenso. Per ragioni
di ordine istituzionale e anche per il legittimo timore dei franchi
tiratori. Ieri il primo, inutile scrutinio ha dato un responso non del
tutto tranquillizzante. Sepolti sotto la montagna di schede bianche ci
sono circa 130-150 voti dispersi. Per cui le schede non votate risultano
inferiori — e di molto — alla somma di Pd, Forza Italia e sigle
centriste (circa 750). In altri tempi sarebbe stato un segnale di
battaglia. Oggi forse è solo un caso, ma la partita del Quirinale non è
affatto chiusa. Renzi, se vorrà evitare di inciampare all’ultima curva,
dovrà essere molto vigile nelle prossime ore.
Il premier a capo di tre maggioranze:
Silvio? alla fine non romperà. Presto smaltirà la sua rabbia La preoccupazione per la quota di voti dispersi alla prima «chiama»
di Maria Teresa Meli e Francesco Verderami Corriere 30.1.15
Grazie
a un ex dc, Renzi fa pace con gli ex pci, blinda la «ditta», si prepara
ad accompagnare il suo prescelto al Colle e si ritrova con tutte le
carte del mazzo in mano. Comprese le elezioni anticipate. Non era mai
accaduto che un presidente del Consiglio diventasse il capo di tre
diverse maggioranze: quella di governo, quella del patto del Nazareno e
quella del Quirinale. Certo, Mattarella non è stato ancora eletto, ma è
inevitabile che da ieri il leader del Pd debba guardare oltre l’elezione
del capo dello Stato.
Il premier d’ora in avanti si troverà a
coltivare i nuovi rapporti che ha costruito (con Sel) e a gestire quelli
che si sono logorati con l’alleato di governo (Alfano) e con l’alleato
di opposizione (Berlusconi). Il modo in cui ha cambiato schema di gioco
ha spiazzato i suoi interlocutori, e la conversazione con Berlusconi non
dev’essere stata amabile. Tuttavia Renzi ritiene che il rapporto con il
leader di Forza Italia non si sia rotto, «mi ha detto che comunque
l’intesa sulle riforme rimane valida. Ora — ha spiegato ai dirigenti del
partito — si prenderà qualche giorno per smaltire la rabbia. Dopo si
ripartirà». Una conferma rispetto a quello che aveva preventivato, e
cioè che il Cavaliere non si sarebbe posto sulle barricate per la scelta
di Mattarella, che si sarebbe «limitato a marcare il dissenso con la
scheda bianca».
Se per questo, il leader di Forza Italia — che non
accetta mai la sconfitta — ieri mattina sembrava tentennare, come fosse
addirittura intenzionato a votare a favore del candidato di Renzi: un
moto dell’anima o una reazione istintiva? Per non sbagliarsi, i
dirigenti azzurri hanno fatto pressing su di lui: «Non possiamo
votarlo», gli ha detto più volte Ghedini. Il prezzo politico che
Berlusconi sta pagando è molto alto: tra Fitto che chiede l’azzeramento
dei vertici di Forza Italia e la Lega che lo irride e avoca a sé il
primato nel centrodestra, gli è rimasta solo l’intesa con Alfano, che ha
tenuto fede al «patto sul Quirinale» stretto tra le forze che si
rifanno al Ppe. È il primo embrione del progetto di ricostruzione
dell’area moderata che si rifà all’Ump francese.
Anche con il
ministro dell’Interno Renzi è ai ferri corti. Immaginava che Ncd alla
fine avrebbe votato a favore di Mattarella, «e secondo me Alfano sbaglia
se vota scheda bianca. Per certi versi mi dispiace, perché con la
posizione che ha assunto rischia di perdere consensi». Il segretario del
Pd, dopo averci provato di persona, gli ha inviato numerosi
ambasciatori che hanno tentato di fargli cambiare idea. E nei loro
ragionamenti non è mai mancato un cenno al «rischio di una crisi di
governo»...
Ma il leader del raggruppamento di Area Popolare contesta
al premier il cambiamento di schema, e alla riunione con i grandi
elettori ha spiegato il suo «no a logiche ancillari»: «Non siamo cadetti
di Berlusconi, figurarsi se diventiamo cadetti di Renzi». La scheda
bianca permette ad Alfano di presidiare un’area che va ancora
ricostruita, e mette nel conto la possibilità che si incrini l’asse con
Renzi. Il punto è che la situazione si fa complicata nell’esecutivo, e
come se non bastasse il Cavaliere ieri — per uscire dalle secche — lo ha
messo in difficoltà con le sue dichiarazioni che anticipavano
addirittura l’apertura della crisi da parte di Ncd. «Berlusconi non ha
titolo per parlare di questioni di governo», ha detto il responsabile
del Viminale per parare il colpo: «E il patto di governo non è in
discussione. Piuttosto toccherà al premier fare il vigile urbano, per
evitare incidenti agli incroci».
Sono gli «incroci» delle tre
maggioranze distinte e distanti che il segretario del Pd ha costituito e
che oggi lo rendono il dominus nel Palazzo. «Ma se Renzi pensa di
andare avanti con le tre maggioranze va a sbattere», dice il bersaniano
Gotor. Sarà, intanto il primo obiettivo del leader democrat — quello
fondamentale — è di concludere l’operazione Quirinale portandosi dietro
tutto il suo partito. E su questo è ottimista: «Ho ricompattato il Pd,
anche se nessuno lo credeva possibile. Persino Fassina è con noi. Fino
ad ora è stato un capolavoro». Poi, ripetendolo quasi come un mantra,
Renzi dice di credere nel «senso di responsabilità di tutti i
parlamentari democratici».
Ma ora lo attende la prova del voto a
scrutinio segreto, «ora si va alla prova di forza in Aula e dobbiamo
stare attenti, controllare quante saranno le schede bianche e quelle
disperse, perché non possiamo permetterci nessun errore». E infatti,
dopo la prima chiama, è stato analizzato il risultato. I voti andati
dispersi sono stati un po’ troppi, e bisogna verificare se si tratta di
una sorta di «libera uscita» momentanea o se dietro c’è dell’altro. In
fondo, questo rimane pur sempre il «Parlamento dei 101» .
In più, c’è
da considerare la possibile reazione di tutti quei quirinabili che
speravano di essere «il prescelto» e che invece vedono sfumare le loro
aspettative. La dote di voti di Renzi è elevatissima, ma va capito se
tutti i suoi avversari riuscirebbero a diventare una «massa critica»
capace di far saltare l’elezione del capo dello Stato al quarto
scrutinio. Sarebbe un evento tanto clamoroso quanto improbabile. Per
cautelarsi dai franchi tiratori il premier si sta muovendo su due
fronti. Il primo è mediatico: quando la Boschi dice che «altri si
preparano a votare Mattarella», si tentano di dissuadere i
malintenzionati. Il secondo è politico: al Nazareno sono convinti che
«nel segreto dell’urna qualcuno di Forza Italia voterà con noi. O
Berlusconi o Fitto»...
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