venerdì 9 gennaio 2015

Una storia (simpatetica) del postmodernismo architettonico

Charles Jenckis: Storia del Post-Modernismo. Cinque decenni di ironico, iconico e critico in architettura, Postmedia Books



Risvolto

In Storia del Post-modernismo, Charles Jencks, vera autorità in materia, offre una panoramica brillante e accessibile dell'architettura postmoderna a partire dagli inizi degli anni Sessanta fino ad oggi. In realtà è molto di più che un manuale su un movimento così imporante nella storia della nostra cultura: con Storia del Post-modernismo, infatti, Jencks fa i conti anche con i suoi titoli precedenti e con quelli di altri autori che vanno a comporre la vasta letteratura sulla teoria postmoderna. Il Post-modernismo si afferma negli anni Sessanta come movimento principale nell'architettura mettendo in crisi l'assunzione di uno stile unico e di una totalità culturale, bloccando così il percorso del Movimento Moderno. Nel 1972 questo processo ha trova espressione nella demolizione del Pruitt-Igoe a St Louis (Missouri), il primo grande piano residenziale modernista a essere distrutto per volere dell'opinione pubblica. Dopo una serie di altre deflagrazioni, la corrente post-moderna ha gradualmente beneficiato dell'immissione di una serie positiva di tradizioni, e di quella filosofia pluralista oggi tanto fertile. Tra i fattori principali, il contestualismo e l'eclettismo radicale, il classicismo postmoderno e il regionalismo, l'eteropoli e il nuovo coinvolgimento pubblico nella costruzione della città. Dopo vent'anni di successi, incluse le inevitabili edulcorazioni commerciali, l'architettura postmoderna ha ceduto ai surrogati ed è stata svilita dalla moda. Malgrado ciò, in un'altra svolta storica all'inizio del nuovo millennio, le culture pluralistiche hanno perseguito un'identità più ricca del minimalismo dando luogo a una seconda grande fioritura del Post-modernismo. Ora, con l' aiuto del computer e di Internet, questa tradizione è riemersa nelle vesti di un architettura iconica, un ornamento strutturato dalla digitalizzazione e dal paradigma della complessità. Ironicamente, questa architettura più ricca, privata dell'etichetta "postmoderna", fiorisce di nuovo come alternativa a un modernismo meccanicistico. 


Strategie del paesaggio urbano
Icone metropolitane. Il teorico statunitense e architetto Charles Jenckis torna sulla sua antica ossessione nell'ultimo libro «Storia del Post-Modernismo», edito da Postmedia Books 
Felice Mometti, il Manifesto 9.1.2015 
È pos­si­bile scri­vere una sto­ria del Post-Modernismo in archi­tet­tura? La «bio­gra­fia» di un movimento/stile archi­tet­to­nico ibrido, basato su codici mul­ti­pli, la mesco­lanza di periodi con­trap­po­sti — pas­sato, pre­sente e futuro — che parla con­tem­po­ra­nea­mente alla cul­tura alta e bassa e fa della dif­fe­renza e del plu­ra­li­smo l’obiettivo di una comu­ni­ca­zione pubblica? 

Char­les Jencks non ha dubbi e risponde affer­ma­ti­va­mente nel suo Sto­ria del Post-Modernismo (Post­me­dia books, pp. 314, 26 euro). E torna su que­sta con­vin­zione, met­ten­dola in pra­tica, a quasi quarant’anni dal suo libro-icona, The lan­guage of Post-Modern archi­tec­ture: un’opera che ha avuto una grande impor­tanza nell’attività pro­fes­sio­nale di molti archi­tetti e archi­star e, ancor di più, in altret­tante car­riere acca­de­mi­che. Una nar­ra­zione del Post-Modernismo — è la teo­ria impli­cita di Jencks — non poteva che essere scritta in forma ana­loga, cioè deco­struendo fino a sbri­cio­lare il con­cetto stesso di sto­ria.
Ambi­guità da post­for­di­smo
S’inizia cam­biando in con­ti­nua­zione il regi­stro inter­pre­ta­tivo del Movi­mento Moderno in archi­tet­tura, che viene pre­sen­tato a volte come un «blocco sto­rico» coeso, subor­di­nato al potere e ai vari tota­li­ta­ri­smi, e altre come un ambito con­trad­dit­to­rio, che anti­cipa e pre­fi­gura quel futuro votato al «post». Le dimo­stra­zioni più ecla­tanti della subor­di­na­zione sareb­bero state, secondo Jencks, la simul­ta­nea dispo­ni­bi­lità di Le Cor­bu­sier nei con­fronti del fasci­smo ita­liano e del comu­ni­smo sovie­tico, le let­tere intrise di «ger­ma­nità» di Gro­pius a Goeb­bels, l’accettazione da parte di Mies van der Rohe dell’incarico per la pro­get­ta­zione del padi­glione tede­sco (in realtà nazi­sta) nell’Esposizione uni­ver­sale di Bru­xel­les del 1935.
Alcune anti­ci­pa­zioni, invece, pos­sono con­si­de­rarsi la cap­pella di Ron­champ sem­pre di Le Cor­bu­sier, il Salk Insti­tute a La Jolla di Louis Kahn e lo sta­dio olim­pico di Tokyo di Kenzo Tange. In altri ter­mini, la tra­iet­to­ria del Movi­mento Moderno è stata segnata da un’ambivalenza che ha oscil­lato tra un’evoluzione lineare — andando incon­tro a un destino ine­vi­ta­bile, in sin­to­nia con la rigi­dità dei suoi sim­boli e lin­guaggi archi­tet­to­nici e con una fede incrol­la­bile nel pro­gresso dello «spi­rito del tempo» — e la «tem­pe­sta per­fetta» gene­rata, tra l’altro, dalla dismi­sura della com­po­si­zione delle anti­ci­pa­zioni architettoniche. 
Il Post-Modernismo, invece, ha inter­pre­tato — e, per Jencks, tutt’ora con­ti­nua a inter­pre­tare — la com­ples­sità e la plu­ra­lità delle rap­pre­sen­ta­zioni dello spa­zio e della com­po­si­zione archi­tet­to­nica nell’epoca del post­for­di­smo finan­zia­riz­zato. L’ambito urbano è con­ce­pito come se fosse un palin­se­sto sul quale le diverse gene­ra­zioni pos­sono scri­vere la loro iden­tità, non prima però che sia avve­nuto il decen­tra­mento, il diso­rien­ta­mento e la deco­stru­zione dei sog­getti coin­volti. Il Post-Modernismo archi­tet­to­nico in quanto movi­mento «trans-storico», per essere rac­con­tato ha biso­gno di più modelli sto­rio­gra­fici. Per sfug­gire a una visione ste­reo­ti­pata, a giu­di­zio dell’autore, si deve con­ce­pire la sto­ria come un insieme di cor­renti a onde mul­ti­ple che scom­pa­iono e rie­mer­gono in alcuni periodi. Il Post-Modernismo scorre dagli anni ’60, aumen­tato nella por­tata anche dalla con­tro­cul­tura e dai movi­menti di pro­te­sta, per rice­vere il rico­no­sci­mento defi­ni­tivo con la Bien­nale di Vene­zia del 1980 inti­to­lata La pre­senza del pas­sato. Giunge poi all’attualità con una radi­ca­lità eclet­tica che pos­siede un’energia sorprendente. 
Tut­ta­via, secondo Jencks, la sto­ria si fa anche con la disa­mina delle opere dei sin­goli archi­tetti e l’aneddotica per­so­nale dello sto­rico pro­ta­go­ni­sta dei fatti. Un pud­ding dif­fi­cile da cuci­nare se non pri­vi­le­giando un solo ingre­diente. Le opere degli archi­tetti diven­tano le vere chiavi di let­tura dell’architettura post­mo­derna. Una ridu­zione della com­ples­sità, ope­rata da Jencks, con il sup­porto di tre cate­go­rie pas­se­par­tout: il con­trap­punto con­te­stuale, il segno «indes­si­cale» e l’«adhocismo».
Il time-building post­mo­derno è una stra­ti­fi­ca­zione di tempi e stili che para­frasa il pas­sato e si rela­ziona al con­te­sto come un cama­leonte, per­met­tendo sia una let­tura cul­tu­ral­mente «alta» che «bassa» che rin­via alla meta­fora del con­trap­punto jaz­zi­stico. Il segno indes­si­cale indica la pre­senza di una con­tem­po­ra­nea varia­zione dei codici della forma archi­tet­to­nica e del con­te­sto, una volta com­ple­tata la costru­zione. I pro­getti e gli inter­venti che com­bi­nano ele­menti pre­e­si­stenti, giu­stap­po­nendo ad hoc stili e fun­zioni, per­ven­gono a risul­tati solo in parte pre­vi­sti. In que­sto modo, Jencks arruola nel Post-Modernismo quasi tutta l’architettura con­tem­po­ra­nea. Da Stir­ling a Iso­zaki, pas­sando per Frank Gehry e Rem Koo­lhaas.
I cri­teri sono tal­mente ampli e vaghi da indurre l’autore, alla fine, a rive­derli impli­ci­ta­mente, con­cen­tran­dosi solo su due aspetti: l’ornamento seman­tico e l’edificio ico­nico. Un orna­mento reso pos­si­bile dalla pro­get­ta­zione com­pu­te­riz­zata in grado di imple­men­tare geo­me­trie frat­tali e anda­menti «cao­tici», in sin­to­nia con le cosid­dette scienze della com­ples­sità. Si abbat­tono in que­sto modo tutte quelle ini­bi­zioni che per­du­ra­vano dall’inizio del secolo scorso, quando Adolf Loos para­gonò l’ornamento in archi­tet­tura a un delitto. Ma la vera posta in gioco è l’edificio iconico. 
Dopo «l’effetto Bil­bao» con il Gug­ge­n­heim Museum pro­get­tato da Frank Gehry, che ha rap­pre­sen­tato un inve­sti­mento che sta ren­dendo miliardi di euro con i milioni di visi­ta­tori, molte ammi­ni­stra­zioni di città pic­cole e grandi hanno ten­tato di ripro­durre un effetto simile. Sono alla ricerca di edi­fici «land­mark» dai signi­fi­canti enig­ma­tici che sug­ge­ri­scono molte inter­pre­ta­zioni, senza evo­carne diret­ta­mente nes­suna. Una stra­te­gia comu­ni­ca­tiva pen­sata per susci­tare l’interesse del turi­smo cul­tu­rale e dei media. 

Un «non-grattacielo»
I nuovi «monu­menti» che aggre­di­scono il ter­reno, il cielo e il con­te­sto in modo vio­lento, senza media­zioni, stanno acqui­sendo una rile­vanza pari ai più clas­sici monu­menti sto­rici. Gli esempi della Cina e di Dubai e, in misura minore, gli ultimi grat­ta­cieli mila­nesi sono para­dig­ma­tici. Dal cen­tro finan­zia­rio di Shan­gai al non-grattacielo di Koo­lhaas a Pechino per la tele­vi­sione cinese per appro­dare al «sogno capi­ta­li­sta dopato con gli ste­roidi», per usare le parole di Mike Davis nella descri­zione di Dubai, si assi­ste a una tec­nica dello choc sot­traen­dola dalla cri­tica di Benjamin. 
La domanda che sorge di fronte a que­sti esempi, che sono diven­tati punti di rife­ri­mento a livello inter­na­zio­nale, riguarda il ruolo degli archi­tetti e dei pro­get­ti­sti rispetto le varie scale urbane e fun­zioni cor­re­late. Jencks, nelle sue «con­clu­sioni pre­ma­ture», rico­no­sce che gli archi­tetti post­mo­derni sono scesi a patti con i regimi auto­ri­tari se non rea­zio­nari e che la descri­zione del Post-Modernismo come la «sov­ver­sione dall’interno dell’élite del potere», nei fatti si è tra­dotta nella col­la­bo­ra­zione con gli obiet­tivi del potere. Ma non va oltre per­ché qui il libro si chiude dove in realtà avrebbe dovuto comin­ciare. Lasciando aperta la que­stione del rap­porto del Post-Modernismo con il mer­cato e con un sistema eco­no­mico e finanziario. 

Imma­gi­nari ibridi
Le recenti ana­lisi (J.T. Nea­lon, Post-postmodernism or the cul­tu­ral logic of just in time capi­ta­lism, Stan­ford Uni­ver­sity, 2012) che svi­lup­pano la teo­ria di Fre­dric Jame­son di un post­mo­derno stret­ta­mente con­nesso a una pre­cisa fase del tar­do­ca­pi­ta­li­smo non sem­brano del tutto con­vin­centi. Senza sco­mo­dare il Marx dell’introduzione ai Grun­drisse che parla di svi­luppo ine­guale tra le forme della pro­du­zione sociale e i generi arti­stici, sarebbe però utile ripren­dere alcune pagine della Sto­ria dell’architettura ita­liana di Man­fredo Tafuri. 
Il Post-Modernismo, in archi­tet­tura, non fa altro che ripren­dere i carat­teri più super­fi­ciali del Moderno por­tan­doli all’eccesso. Per Tafuri, infatti, l’accezione migliore è quella di «iper­mo­derno»: qui domina una per­fetta equi­va­lenza delle forme e dei signi­fi­cati (e anche della man­canza di signi­fi­cato), un annul­la­mento della sto­ria gra­zie alla sua ridu­zione a campo di scor­re­rie visive.
Una sorta di «nichi­li­smo imper­fetto» che si limita a pren­dere atto delle tra­sfor­ma­zioni sociali e urbane pur gene­rando un imma­gi­na­rio che le ibrida e, a volte, le le tra­va­lica. È que­sto pro­ba­bil­mente l’aspetto per­for­ma­tivo del Post-Modernismo: l’accettazione delle regole del gioco facendo uso di stru­menti che super­fi­cial­mente le sovvertono.

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