mercoledì 14 gennaio 2015

Virginia Woolf sulla letteratura russa

L' anima russa. Dostoevskij, Cechov, TolstojVirginia Woolf: L' anima russa. Dostoevskij, Cechov, Tolstoj, Ed. Elliot
In un inedito, l’autrice di “Orlando” spiega la letteratura di Dostoevskij e le differenze con quella ingleseVirginia Woolf “Ecco cos’è l’anima russa” 


VIRGINIA WOOLF Repubblica 13 1 2015
LEGGENDO Cechov ci troviamo a ripetere ancora e ancora la parola “anima”. È ovunque tra le sue pagine. Vecchi ubriaconi la usano liberamente: «…vi siete elevato di grado, siete di quelli che stanno molto in alto; ma, golubcik , quello che vi manca è una vera anima… nella vostra non c’è forza…». In verità, è l’anima il personaggio principale della narrativa russa. Delicata e sottile in Cechov, essa è soggetta a un infinito numero di umori e malumori, mentre in Dostoevskij ha maggiore volume e profondità; spesso afflitta da violente malattie e furiose febbri, è comunque la preoccupazione predominante. Forse è per questo che ci vuole tanto sforzo da parte di un inglese per leggere I fratelli Karamazov o I demoni una seconda volta. L’anima gli è aliena. Gli è persino antipatica.

Ha poco senso dell’umorismo e nessun senso della commedia. È informe. Ha solo una vaga connessione con l’intelletto. È confusa, espansiva, tumultuosa e, a quanto pare, incapace di sottomettersi al controllo della logica o alla disciplina della poesia.
I romanzi di Dostoevskij sono vortici ribollenti, mulinelli di sabbia in una tempesta, trombe d’acqua che sibilano e gorgogliano e ci risucchiano. Sono composti puramente e completamente della materia dell’anima. Veniamo inghiottiti contro la nostra volontà, presi nel vortice, accecati, soffocati, e allo stesso tempo riempiti di un’estasi che ci stordisce. All’infuori di Shakespeare, non c’è lettura più eccitante di questa. Apriamo la porta e ci ritroviamo in una stanza piena di generali russi, dei tutori di questi generali, delle loro figliastre e cugine, una folla di persone varie che parlano tutte ad alta voce dei loro affari più privati. Ma dove siamo? Di certo è compito di un romanziere comunicarci se siamo in un albergo, un appartamento, un alloggio in affitto. Eppure qui nessuno ritiene di dovercelo dire. Siamo anime, torturate e infelici, la cui unica occupazione è parlare, rivelare, confessare, attingere a qualunque lacerazione della carne e dei nervi per estrarne quei peccati indecifrabili che strisciano nella sabbia, sul fondo di noi stessi. Ma, mentre ascoltiamo, la nostra confusione si placa lentamente. Ci viene gettata una fune; afferriamo un soliloquio; riusciamo a stento a mantenere la presa mentre veniamo trascinati fuori dall’acqua; continuiamo a procedere in modo febbrile, furioso, ora sommersi, ora comprendendo più di prima in un attimo di chiaroveggenza, ricevendo rivelazioni che di norma solo la forza della vita al suo massimo può sospingere verso di noi. E nel nostro volo cogliamo tutto – i nomi delle persone, le loro relazioni, il fatto che soggiornano in un albergo a Roulettenburg, che Polina è coinvolta in un intrigo con il marchese des Grieux (nel romanzo Il giocatore , ndr) – ma sono tutte questioni ininfluenti se paragonate all’anima! È l’anima che conta, la sua passione, il suo tumulto, la sua sconcertante mistura di bellezza e infamia. E se le nostre voci d’un tratto si sollevavano in grida di ilarità, o se veniamo scossi da violenti singhiozzi, cosa c’è di più naturale? Vale a stento la pena di notarlo. Viviamo a una tale velocità che le ruote delle nostre carrozze lasciano una scia di scintille. Inoltre, quando il ritmo è così serrato gli elementi dell’anima non si mostrano separatamente in scene comiche o scene di passione tra loro distinte, così come le concepisce il nostro lento intelletto inglese, ma sono intrecciati, avvinti, inestricabilmente confusi, e ci viene rivelato un nuovo panorama della mente umana. Le vecchie divisioni si fondono l’una nell’altra. Gli uomini sono allo stesso tempo malvagi e santi, i gesti sono insieme meravigliosi e deprecabili. Amiamo e odiamo contemporaneamente. Non c’è traccia di quella precisa divisione tra bene e male alla quale siamo abituati. Spesso coloro verso cui proviamo più affetto sono i peggiori criminali, e i più abietti peccatori suscitano in noi la più intensa ammirazione, oltre all’amore.
Scagliato sulla cresta delle onde, scosso e sbattuto sulle pietre al fondo, per il lettore inglese è difficile sentirsi a proprio agio. Il processo al quale la sua letteratura lo ha abituato viene invertito. Se noi avessimo voluto raccontare la storia d’amore di un generale (e prima di tutto avremmo trovato molto difficile non ridere del generale), avremmo dovuto iniziare con la sua casa, avremmo dovuto dare solidità al suo ambiente. Solo dopo avremmo potuto tentare di occuparci del generale stesso. D’altra parte, non è il samovar ma la teiera a regnare in Inghilterra; il tempo è ristretto; lo spazio è affollato; l’influenza di altri punti di vista, di altri libri, persino di altre epoche, si fa sentire. La società viene suddivisa in classi inferiori, medie e superiori, ognuna con le proprie tradizioni, le proprie abitudini e, in certa misura, il proprio linguaggio. Che lo voglia o no, il romanziere inglese subisce una pressione costante affinché riconosca queste barriere e, di conseguenza, gli vengono imposti un ordine e un qualche genere di forma; è incline alla satira piuttosto che alla compassione, alla disamina della società piuttosto che alla comprensione degli individui stessi. A Dostoevskij non vennero imposti questi limiti. Per lui non fa alcuna differenza che siate un nobile o una persona semplice, un barbone o una gran dama. Chiunque voi siate, siete un contenitore di questo liquido perplesso, questa materia nebulosa, in fermento, pregiata: l’anima. L’anima non è trattenuta da barriere. Tracima, dilaga, si mescola con le anime di altri. La semplice storia di un impiegato di banca che non poteva pagare una bottiglia di vino si diffonde, prima che ce ne possiamo rendere conto, nelle vite di suo suocero e delle cinque amanti che quest’ultimo tratta in maniera abominevole, e nella vita del postino, e in quella della domestica, e in quella delle principesse alloggiate nello stesso palazzo; perché niente è al di fuori della provincia di Dostoevskij, che quando è stanco non si ferma, prosegue. Non può contenersi. E riversa su di noi questa sostanza calda, infuocata, varia, meravigliosa, terribile, opprimente – l’anima umana.
Tratto da L’anima russa di Virginia Woolf Elliot Edizioni ( Traduzione di Veronica La Peccerella) © 2-015 Lit Edizioni Srl Per gentile concessione © RIPRODUZIONE RISERVATA

Quando Tolstoj e Cechov conquistarono la fredda zarina della letteratura inglese 
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6 feb 2015  Libero MICHELA RAVALICO 
Raccontare in trenta pagine l’anima della letteratura russa. Solo Virginia Woolf, con la sua prosa essenziale e profonda al contempo, poteva riuscirci. Chi sono Fedor Dostoevskij, Anton Cechov e Lev Tolstoj e perché il loro modo di scrivere, di narrare, di intendere la letteratura è così unico, seducente e soprattutto distante dalla maniera inglese di scrivere e raccontare storie. Utilissima, di questo libello firmato dalla scrittrice inglese e edito da Elliot, 55 pagine, 7 euro intitolato L’anima russa, Dostoevskij, Cechov e Tolstoj, è l'introduzione di Benedetta Bini. 
La professoressa della Statale, esperta di letteratura inglese, ci proietta nel passato e in particolare negli anni 10 del ventesimo secolo a Londra, quando «intellettuali artisti e pubblico borghese colto» ebbero la fortuna di assistere per la prima volta ai Ballets russes. Fu un' esperienza globale, dice Bini, «sfolgoranti icone di una nuova estetica», che iniettarono nuova energia e colore alla scena artistica londinese negli anni prima della grande guerra. 
Ed è negli stessi anni, nello stesso clima, con lo stesso entusiasmo, che gli inglesi accolgono le prime traduzioni di romanzi dei grandi autori russi. Si scopre, grazie a Bini, che gran parte delle traduzioni sono opera di Constance Garnett, «giovane donna di Brighton dalla vista fragile e dalle simpatie socialiste». 
Fu merito suo se la monumentale opera di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, arrivò sui comodini dei lettori inglesi. «Grazie a lei il pubblico inglese (e tra essi Virginia Woolf, ndr) avrebbe conosciuto Dostoevskij, Tolstoj, Cechov, Turgenev, Gogol, Herzen ». 
Così, in quell'inizio di secolo così fertile e prodromico di tragedie, nascono le critiche, le illuminanti analisi di Woolf ai grandi scrittori russi. Una premessa: l'autrice di Orlando e La signora Dalloway è conscia del limite di leggere opere tradotte. Il limite di comprensione di un mondo come quello russo è ancora più grande, sostiene Woolf, se non bastasse la distanza geografica e culturale. «La nostra valutazione delle qualità degli scrittori russi è stata formata da critici che non hanno mai letto una parola di russo, che non sono stati in Russia e nemmeno hanno mai sentito parlare la lingua dei suoi abitanti» argomenta Woolf, e conclude « In pratica vale a dire che abbiamo giudicato un’intera letteratura spogliata del suo stile. Quando traduciamo ogni parola, non rimane nulla eccetto una versione cruda e grossolana del significato». 
Ciò detto nemmeno la grande scrittrice inglese resiste al fascino delle misteriose storie russe, e ci confessa senza pudore una predilezione per Tolstoj. «Dei tre grandi scrittori russi è colui che più ci incanta e più ci respinge». Ma ciò che spinge avanti il discorso di Woolf è il desiderio di indagare il senso di una scrittura che a volte può apparire senza senso, senza fine. Per arrivare a confrontarla con quella inglese. La conclusione è una cocente sconfitta per la madrepatria: «Noi siamo inclini più alla satira, che alla compassione; alla disamina della società, piuttosto che alla comprensione degli individui stessi». Il centro dei romanzi russi, invece, è l'anima umana: «questa sostanza calda, infuocata, varia, meravigliosa, terribile e opprimente». 
Non esistono finali, non esistono contesti, non esiste la storia in quanto trama, spiega Woolf. «Dobbiamo dedurre che le storie inconcludenti sono legittime, sebbene ci lascino una sensazione di malinconia e magari di incertezza» dice la critica riferendosi al racconto di Cechov, il Vescovo. A Woolf piace questo modo di narrare e non nasconde un'implicita critica ai suoi colleghi d'oltremanica, così troppo attaccati al materiale e all'empirico, lontanissimi dai moti dell'animo, in cui i russi sono maestri. 
Maestro tra i maestri, fine psicologo e conoscitore unico, nel suo genere, dell'animo umano è Dostoevskij: «Unico ad avere il potere di ricostruire quegli stati mentali repentini e complicati, di ripensare l'intero flusso delle idee in tutta la sua velocità, perché lui è in grado di seguire non solo la vena scoperta del pensiero compiuto, ma anche di suggerire il sommerso più offuscato della coscienza». Difficile descrivere Dostoevskij in modo migliore.  
Utile e bello, questo libretto, come guida per riprendere in mano vecchie letture dei tempi delle superiori o ancora meglio per dare coraggio a coloro che non hanno mai avuto voglia o tempo di affrontare i grandi romanzieri russi.

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