lunedì 16 febbraio 2015
Citati rilegge David Copperfield di Dickens
di Pietro Citati Corriere 16.2.15
Con la sua prodigiosa sensibilità istintiva, Charles Dickens avvertì che
nella realtà esistono due universi, morali, psicologici, simbolici:
quello del caldo e del colore (specialmente il rosso) e quello del gelo e
del nero. Questa opposizione tra caldo e freddo, tra rosso e nero è
molto più ricca, comprensiva e drammatica di quella che, da secoli,
oppone il bene al male nelle chiese e nei libri.
Se vogliamo conoscere l’universo «rosso» nella sua purezza, dobbiamo
aprire il David Copperfield (Einaudi, traduzione di Cesare Pavese), alle
incantevoli pagine dedicate ai Peggotty e alla loro barca-casa sulla
spiaggia di Yarmouth. Clara Peggotty, la domestica-balia di David, ha
guance e braccia così sode e rosse che David si chiedeva «come mai gli
uccelli non le beccassero a preferenza delle mele». La barca-casa è
tutta colorata. Persino le vignette della Bibbia , così tetra sulla
bocca dei predicatori, mostrano Abramo vestito di rosso, Isacco
d’azzurro, Daniele giallo, i leoni verdi: la coperta multicolore di
David «fa male agli occhi tant’è fiammante». Il bianco delle pareti
squilla come il latte: le aragoste, i granchi e i gamberi, ammucchiati
vivi in una rimessa, si preparano a diventare rossi nella cottura; e
quando il signor Peggotty si lava nell’acqua bollente, esce talmente
rubicondo che David pensa «che la sua faccia abbia questo in comune con
le aragoste, i granchi e i gamberi — che entra nera nell’acqua bollente e
ne esce tutta rossa». La famiglia di Peggotty è la vera famiglia
dickensiana, senza il padre e la madre naturali e le costrizioni del
sangue: raccoglie degli orfani, degli errabondi e dei sopravvissuti
sotto la protezione di una mano amorosa. Essa è l’Arca dove gli animali
vengono accolti nella barca-casa di Noè: il tiepido nido familiare, il
piccolo mondo chiuso e protetto, dove creature sperdute si scaldano al
calore del reciproco affetto, senza temere il vento che ulula al largo
del mare.
Di fronte all’Arca di Peggotty, Dickens dispone, come il loro rovescio
speculare, i tetri e sadici personaggi che fecero scoppiare in lacrime
Henry James bambino. Ecco il signore e la signora Murdstone, con i neri
occhi loschi, i capelli e i favoriti neri, le sopracciglia folte e
nerissime: il solido borsello d’acciaio rinchiuso nel carcere di una
sacca appesa al braccio con una pesante catenella; due inflessibili e
solide casse nere, con solide borchie d’ottone, un enorme cane nero, e
l’anima tenebrosa, fosca e metallica.
***
Il carattere di David Copperfield non dipende in nulla dal rosso o dal
nero, e nemmeno dal carattere drammatico, concentrato ed esibizionista
del suo autore. Come altri giovani protagonisti dei romanzi di Dickens,
David è ingenuo, candido, femminile, anche quando scrive e racconta di
sé stesso. Egli ha qualcosa di straordinario: da bambino vede e ricorda
la propria infanzia, possiede una ricchissima capacità di osservazione,
che scorge, uno per uno, uno accanto all’altro, tutti i piccoli
frammenti della realtà e li ricompone in un quadro. Spia: è il dono dei
grandi scrittori. E questo dono di osservazione si trasforma a poco a
poco: diventa fantasia, visione, dono di prolungare all’infinito le
sensazioni e le osservazioni infantili.
Le grandi doti di David sono quelle di essere flessibile e ondivago: ciò
gli permette di avvicinarsi alla realtà, di avere simpatia per essa e
di rappresentarla, diventando il tramite tra Dickens e il mondo. In
compenso, come lo accusano Agnes e zia Betsey, egli manca di fermezza,
di energia, di risolutezza, di decisione, di carattere: soprattutto di
quel carattere che siamo abituati a definire virile. La storia del libro
è di come David, a poco a poco, acquisti la forza di cui è privo,
trasformando la sua natura flessibile in un carattere fermo. Imparando
la stenografia, per esempio, egli educa in sé stesso quella paziente e
diuturna energia che prima gli mancava. Quando comincia a scrivere, la
perseveranza è la sorgente del suo successo. «Non avrei potuto fare
quanto feci — egli dice — senza le abitudini di puntualità, ordine e
diligenza», senza la risoluzione di concentrarsi su un solo dato alla
volta. «Non posseggo un solo dono naturale che non abbia sforzato»,
insiste: mentre Dickens possedeva un immenso dono naturale, che non
aveva nessun bisogno di sforzare e di costringere.
Come si usa dire, David è vittima di un potentissimo complesso edipico:
egli adora la madre pallida, esile e inesistente, che immaginava di
essere una madre-bambina e finì per diventare una madre-bambina. Quel
topos femminile si stabilisce e si fissa nella sua anima; e, dopo di
allora, egli non può amare che una donna bambina, una moglie bambina,
che ripete tutti i caratteri della madre. Dora Spenlow era
«affascinante, infantile, occhilucente, adorabile»: non voleva che si
parlasse mai, intorno a lei, di «cose pratiche», e persino le sue zie
erano degli uccellini saltellanti, che camminavano frusciando, come se i
loro vestiti fossero fatti di foglie autunnali. «Ero immerso in Dora.
Non soltanto ero innamorato di lei dalla testa ai piedi, ma ne ero
imbevuto tutto quanto». David non voleva che Dora crescesse, egli stesso
non voleva che il suo amore diventasse adulto, come di solito accade
tra un uomo e una donna.
* * *
In collegio David Copperfield conosce James Steerforth, che ha sei anni
più di lui, e diventa il fondamento e l’ala della sua vita. Le pagine
che Dickens gli dedica sono un meraviglioso saggio sul fascino: il più
bello che sia mai stato scritto. C’era nel modo di fare di Steerforth
una disinvoltura — un modo gaio e leggero, non ostentato — che portava
con sé una specie di incanto. «Credo che in virtù di questi portamenti,
dei suoi spiriti vitali, della sua voce deliziosa, del viso e
dell’aspetto bellissimo, e per quanto ne so io, in virtù di un’innata
potenza di attrazione (come credo che ben pochi posseggano) egli
portasse con sé un fascino al quale era naturale debolezza abbandonarsi e
a cui ben pochi sapevano resistere».
Molti accenni fanno supporre che, nel rappresentare Steerforth, Dickens
pensasse a Byron: come lui, era un dilettante di sensazioni, che provava
e sperimentava tutte le cose. La coscienza di riuscire a sedurre sempre
nuove persone gli ispirava una nuova delicatezza di percezione. Ma ogni
sensazione era anche un gioco brillante, giocato con l’eccitazione del
momento, nello spensierato gusto della superiorità. Afferrava e
possedeva tutte le persone e le cose: poi si annoiava di loro e le
buttava via, come spugne, come stracci. Liberandosi per un momento da
Steerforth, Copperfield gli disse: «Ciò che mi stupisce in voi,
Steerforth, è che vi contentiate di fare un uso tanto volubile delle
vostre facoltà». Steerforth era volubile: ma non si accontentava affatto
della propria volubilità, sebbene non facesse che cercare sempre nuove
sensazioni ed emozioni. Come quella di Stavrogin, l’eroe dei Demòni di
Dostoevskij, la sua anima era vuota e gelida: non poteva piegarsi a
passioni, persone e mete; dominata dal tedio, inseguiva sensazioni
sempre più frenetiche, la distruzione e la morte.
Il giovane Copperfield — l’orfano, il nonamato, il derelitto, che non
possedeva nessuna delle qualità di Steerforth — lo amava con una
travolgente passione femminile: qualcuno direbbe con un vero raptus
omoerotico. Il fascino di quell’angelo colpevole, dalle grandi ali nere
bagnate di luce, travolgeva senza limiti David, felice di essere un
oggetto infantile nelle mani di lui. La sera Steerforth, disteso nel
lettuccio del collegio Salem, non riusciva a prendere sonno; e mentre
avanzavano le ore della notte, David gli raccontava, confondendoli e
mescolandoli l’uno con l’altro, tutti i libri che aveva letto — il Don
Chisciotte , Gil Blas , Robinson Crusoe , Tom Jones , Il Vicario di
Wakefield , R oderick Random , Le Mille e una notte —, come la sultana
Schahrāzād inganna la morte raccontando al suo signore le complicate
storie di Oriente. L’istinto fabulatorio di David Copperfield nasce
così: nella notte e nell’ombra, dal cui alone romanzesco resta fasciato;
dal desiderio dell’orfano femmineo di vincere l’esclusione e la
separazione, dall’ansia di salvarsi, di servire e adorare, propiziando
l’angelo protettore.
Tra i culmini del David Copperfield si estende la sterminata pianura
delle lacrime e del riso. Più si legge profondamente il romanzo, più ci
si rende conto che il riso più sgangherato e le lacrime più commoventi
sono esattamente la stessa cosa. Il riso nasce da tutto: dall’orrore e
dalla tragedia: dall’eccesso di emozioni e di sentimenti, come i bottoni
di Clara Peggotty, che saltano e schizzano via, ogni volta che piange o
è commossa. Tutto fa ridere: persino Uriah Heep, che è certamente la
persona più malvagia del libro, è un concentrato ineguagliabile di
comicità e di virtuosismo grottesco — con i suoi repellenti occhi rossi e
insonni, con le sue mani fredde e umidicce, con le righe sulle guance
che fingono il sorriso, le narici dilatate e contratte, le contorsioni
serpentine del corpo, e l’espressione ripetuta: «sono soltanto una
persona umile».
Dall’altra parte del romanzo c’era Agnes. «Il suo viso era calmo e
felice, aveva intorno una calma — uno spirito di pace, di bontà, di
pacatezza — che non ho più dimenticato e non dimenticherò mai». Il suo
fare modesto, ordinato e placido esercitava un influsso benefico sul
cuore altrui: «Agnes, la mia dolce sorella, il mio consigliere e il mio
amico, il buon angelo della vita di tutti coloro che entravano sotto il
suo tranquillo, benefico, disinteressato influsso». Agnes era una
massaia: aveva tutte le virtù che la madre di David e Dora Spenlow non
possedevano; conosceva la realtà, la placava, la vinceva, la dominava e
la trasformava in una pianura celestiale. David commette un immenso
errore: non la ama e non la sposa appena la conosce: si innamora di
Dora, il doppio di sua madre; e solo dopo aver errato a lungo nella
«pianura della dissimilitudine», arriva nella distesa celeste di Agnes.
Là tutto è come una volta: là apprende che lei «l’ha amato per tutta la
vita». «Stretta tra le mie braccia tenevo la fonte di ogni nobile
ispirazione avuta fino a allora; il centro di me stesso, il cerchio
della mia vita, mia moglie; che amavo di un amore fondato sulla roccia».
* * *
Tutta la narrazione del David Copperfield , sebbene affondi in un
passato che diventa sempre più ricco, è portata al presente, che
coincide con lo sguardo affabulatorio di David: il presente del tempo;
non quello assoluto di Dio, che Dickens ignora. Segno del presente è la
rappresentazione dei personaggi, la quale non esclude l’analisi
psicologica ma la traduce in violenti, robustissimi, ripetuti tratti
fisici, come nel caso della signorina Dartle. «Guardando lei fissa, vidi
il suo viso affilarsi e impallidire e la traccia dell’antica ferita
allungarsi finché non passò il labbro sformato e affondò in quello
inferiore, traversando la bocca di sghembo». Queste rappresentazioni
fisiche del viso torneranno, con straordinarie somiglianze, in Guerra e
pace e in Anna Karenina . Come sempre, Dickens, così molteplice e
polimorfo, non si accontenta dei precisi lineamenti fisici: corteggia
l’inesprimibile; l’espressione fisica del sentimento si capovolge
nell’indefinito, nell’«orrore di non so che», perdendosi nel puro enigma
in cui egli bagna così volentieri.
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