lunedì 16 febbraio 2015

Guerrieri d'Occidente con il culo degli altri: in testa sempre Nichi Vendola, Ernesto Galli della Loggia e Angelo Panebianco


Libia: Sel, ok missione Onu
"Possibile immaginare Italia in peace keeping e state building"

La guerra rimossa


di Ernesto Galli della Loggia Corriere 16.2.15

Le nuove crisi: Ucraina, Grecia e Libia
Mai stati così insicuri

di Angelo Panebianco Corriere 15.2.15

Svegliamoci, c’è una nuova guerra
di Franco Cardini Il Mattino 16.2.15
C’è chi, dopo l’attentato a Copenhagen, comincia a chiedersi se per caso l’Isis non faccia sul serio e, sotto sotto, a domandarsi come si fa a spiegare a quelli là che noi non c’entriamo. Dàtti una mossa, Biancaneve, la ricreazione è finita: magari non è più tempo, ormai, di centri commerciali e di karaoke. C’è chi, se i media del califfo danno del “crociato” al ministro Gentiloni – che, detto fra noi, a tutto somiglia meno che a un emulo di Goffredo di Buglione – si preoccupa e dice che siamo al nuovo medioevo. Dàtti una regolata, Panda-in-Pigiama, questo non è un film di Mel Brooks. E la parola “crociata”, in arabo (harb as-salibiyya), fino al secolo scorso nemmeno esisteva. È un neologismo. L’Islam, che gli facevamo contro le crociate, non si era mai accorto. Se usa ora quel termine, e lo fa per offenderci e farci paura, ciò dipende non dal fatto che siamo ancora nel medioevo ma da quello che ormai siamo al postmoderno. Queste sono


guerre nuove, nuovissime. Abbiamo continuato troppo tempo a pensare, nonostante tutto quello che ci capitava attorno, di vivere in un’isola felice dove il tempo era sempre sereno e non ci sarebbe mai stata tempesta. A svegliarci non sono bastati né gli anni di piombo, né la crisi balcanica degli anni novanta, né l’immenso pasticcio afghano cominciato quarant’anni fa e ancora in atto, né le due guerre irakene. La nostra “sovranità limitata”, di tutti noi europei che abbiamo perso la guerra – tutti, anche inglesi e francesi: la guerra l’hanno vinta Roosevelt e Stalin – in fondo ci faceva dormir tranquilli: c’era la Nato a farci la guardia, no?
Ma la guerra fredda, per la quale la Nato è stata pensata, è finita da un pezzo: eppure non ci siamo posti né il problema di come mutare istituzioni e strutture ormai logori, né di come evitar di continuar a pagar di tasca nostra i giochi altrui.
La politica dello struzzo non è mai servita a nulla. Ora siamo in ballo anche noi: e non possiamo nasconderci dietro il dito della Nato, se non altro perché allearsi con qualcuno è una cosa seria anche se noi seri non siamo granché. L’operazione Mare Nostrum si è chiusa, ma le cose vanno peggio di prima e noi non possiamo illuderci di uscirne semplicemente chiudendo i porti e lasciar annegare la gente. E se, da quella Libia piena di fondamentalisti che noi quattro anni fa abbiamo aiutato a prevalere dando ascolto allo stolido Sarkozy che a Gheddafi non perdonava di avergli mandato all’aria un po’ di business della Total e della telefonia interafricana, ora qualcuno ci punta contro dei missili, ciò dipende dal fatto che senza rendercene conto anche noi abbiamo accettato di giocare a un gioco pericoloso pur sapendo che non spettava a noi né tenere il banco né distribuire le carte. Ricordate come diceva il buon Machiavelli mezzo millennio fa? Credevano, i principi d’Italia, che bastasse avere una bella ed elegante cancelleria per uscire dalle peste. E che cosa credevano i nostri politici, che bastasse comprare a scatola chiusa un po’ di F35 per liberarsi da tutte le rogne? Cari miei, siamo in guerra. E, se la guerra la si fa da gregari, il nemico ce le suona lo stesso: come se fossimo noi i protagonisti. Tanto più che c’è un obiettivo dato geopolitico: questa è una guerra asiafrico-mediterranea, giocata tra Nord e Sud (anche se ciò non significa automaticamente «del Nord contro il Sud»): e noi siamo in prima linea. Lo siamo in Libia, ma anche in Grecia e quasi quasi perfino in Crimea (o vi siete dimenticati che un secolo e mezzo fa fu proprio una guerra in Crimea a decidere del nostro futuro di nazione unitaria?).
Ma questa è una guerra nuova e sui generis, dove non si sa quale sia il fronte e dove il nemico potrebb’essere già in casa. E non basta chiudere le frontiere, come blatera qualcuno, perché questa è una guerra civile: i musulmani, che la chiamano fitna, lo hanno capito benissimo: sono ormai dieci anni da quando un teorico di Al Qaeda ha sentenziato con grande lucidità che il terreno di scontro per il futuro doveva essere l’Europa. Non è che, se avremo qualche attentato nel nostro paese, potremo spedire la nostra aviazione a bombardare Mosul. Il califfo può anche atteggiarsi a capo di Stato, ma per la comunità internazionale non lo è: e non si può certo rispondere alle sue provocazioni e alle sue violenze andando ad ammazzare degli innocenti sparando nel mucchio. Lui Mosul non la governa: la occupa esattamente come i pirati di Salgari occupavano Maracaibo; e non ne governa gli abitanti, li opprime. Noi abbiamo il diritto e il dovere di difenderci, ma anche quello di restare un paese civile e uno stato di diritto. E allora?
Allora, questa guerra si vince con tre tipi di armi: l’intelligence, la prevenzione-infiltrazione nelle possibile cellule jihadiste che operano nel nostro paese, l’informazione corretta. Bisogna vigilare, migliorare il nostro sistema mediatico a cominciare dalle informazioni che arrivano ai nostri politici e ai nostri mezzi di comunicazione e che gli uni e gli altri gestiscono, intenderci bene su chi sono i nostri nemici.
Con una cosa che dev’esser chiara, tanto per cominciare. Questa non è una crociata: altrimenti avrebbe ragione il califfo, che invece non ce l’ha. Il nostro nemico non è affatto, genericamente globalmente, l’Islam. Quella islamica è una cultura che interessa quasi un miliardo e mezzo di persone la stragrande maggioranza delle quali vorrebbe solo stare in pace a casa sua (e se deve migrare, è perché gli altri ce la costringono: siano essi gli energumeni dell’Isis o le lobbies che affamano l’Africa).
Se spariamo nel mucchio, facciamo il gioco del califfo: è quello che vuole, non aspetta altro. Per esempio, al legge regionale lombarda che impedisce la costruzione delle moschee è un favore che gli è stato servito su un piatto d’argento:così potrà convincere ancora di più i suoi correligionari che egli è il rappresentante del puro Islam e che gli altri, i “crociati” e gli “apostati” (vale a dire i musulmani che desiderano la convivenza) ad avercela con lui. Europa, svegliati. E comincia una buona volta a camminare con le tue gambe.




di Alberto Negri Il Sole 16.2.15

Le diplomazie cercano il sì delle Nazioni Unite
Pressing francese per un’accelerazionedi Francesco Semprini 
La Stampa 16.2.15
Le diplomazie sono alla ricerca di un’autorizzazione dell’Onu per procedere a un’eventuale azione militare in un quadro di legalità internazionale. E’ quanto emerge, secondo fonti informate, alla luce degli ultimi accadimenti in Libia, al Palazzo di Vetro, dove le consultazioni hanno preso un corso preciso. C’è ormai una convergenza ampia nell’ammettere che l’onda d’urto dello Stato islamico fa della Libia un Paese ad «altissimo rischio».
L’Italia, come del resto la Francia, già da qualche tempo pensa che tra le opzioni non può essere esclusa a priori quella di un’eventuale missione di «peacekeeping», ovvero un intervento militare seppur blindato nel quadro di legalità che prevede lo Statuto Onu. La Francia da parte sua, in vista della presidenza di turno del Consiglio di Sicurezza di marzo, sembra stia già lavorando su alcune proposte relative a terrorismo e sicurezza, che includono anche il dossier libico.
Anche di questo si occuperà Federica Mogherini, attesa all’Onu entro la prima decina di marzo, questa volta nella veste di Alto rappresentante europeo per la politica estera e di sicurezza. In occasione dell’Assemblea generale di settembre, l’allora titolare della Farnesina si adoperò molto sulla questione libica, rilanciando la necessità di sforzi congiunti col rappresentante speciale Onu, Bernardino Leon. Sforzi che sono proseguiti anche da Bruxelles, come conferma il tweet di alcuni giorni fa, nel quale diceva di «aver appena parlato» con Leon, e con «il ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shoukry, per coordinarsi su come procedere».
Certo, sino alla missione di Lady Pesc al Palazzo di Vetro molte cose potrebbero accadere, perché l’atteggiamento sembra cambiato anche da parte di chi, come alcuni Stati membri e lo stesso segretariato dell’Onu, consideravano un anatema solo pensare ad un’azione di forza. Per alcuni l’effetto di quanto sta accadendo in Libia è figlio della missione militare del 2011, ma il punto è che anche chi considerava quell’azione sciagurata, oggi ritiene che più di allora ci siano i presupposti per l’intervento. a maggior ragione perché timori più forti si percepiscono ora anche ai piani alti dell’Onu. Il rappresentante speciale Leon «prosegue nei suoi sforzi di trovare un consenso per porre termine al conflitto», ci dice il portavoce del Segretario generale, interpellato sugli ultimi sviluppi in Libia. «Tuttavia - spiega Stephane Dujarric - Leon ha ammesso che le condizioni di sicurezza sono peggiorate», e più ci saranno ritardi nel riprendere il dialogo, «più la situazione diventerà complicata».

Il tempo delle scelte per l’unione inquieta
di Mauro Magatti Corriere 16.2.15
In tempi recenti, la sgradevole percezione della realtà della guerra non è mai stata così forte in Europa come in queste ultime settimane.
A Sud, i morti senza fine nel Mediterraneo sono l’«effetto collaterale» di una guerra che infiamma gran parte del Centro-Nord Africa e del Medio Oriente. Dietro i diseredati in fuga dal fondamentalismo che guardano all’Europa come la terra della salvezza, il Califfato (ora a meno di 200 miglia dalle coste italiane) sogna di portare la guerra santa anche nel Vecchio Continente. Come sembrano voler confermare i tanti deliranti proclami messi online dopo gli attentati di Parigi e Copenaghen. Eppure, sulla frontiera meridionale, l’Europa si mostra ancora incerta: le risorse investite in Triton sono minime e la discussione su natura e limiti di un’azione che trovi un equilibrio sensato tra umanità, prevenzione e rigore sembra destinata a non raggiungere punti fermi.
A Est, l’Ucraina è l’ultimo teatro di una ferita che nella storia ha sanguinato ripetutamente. Dove sta il confine tra l’Europa d’Occidente e quella d’Oriente? Ambizione e potere sembrano tornare ad agire intemeratamente, incuranti delle conseguenze sulla vita e la sicurezza di tanti. Al tavolo dei negoziati si sono seduti Merkel e Hollande, a esprimere il punto di vista dei due principali Paesi continentali. La speranza è che la tregua ottenuta sia un passo nella giusta direzione. Ma, anche in questo caso, il ruolo dell’Europa resta una chimera.
Da ultimo, c’è la «guerra economica» che si sta combattendo con la Grecia. Al cittadino, la contraddittorietà della situazione suona incomprensibile: da una parte le sofferenze di un popolo che paga anni di mal governo e corruzione; dall’altro le istituzioni europee — tecniche e non politiche — che hanno buoni argomenti ma che non possono non vedere come le cose in questi anni siano peggiorate. Se si parte solo dai conti, la soluzione non c’è. Perché il compromesso che tutti cercano non sia al ribasso, la condizione è ammettere che esiste un bene comune europeo di medio-lungo termine. Tutti dicono che è difficile. Ma il cittadino europeo si chiede che cosa impedisca di partire da ciò che appare buon senso.
Si annusa una brutta aria. Troppi scontri, troppa violenza. Interessi che sembrano insanabilmente divergenti. Chi è più anziano ricorda il 1938-39. Far finta di nulla non si può. In giro si avverte un misto di trepidazione, coinvolgimento, senso di impotenza. Ci si sente dentro vicende troppo grandi, rispetto a cui non è chiaro che cosa fare. Si capisce che le istituzioni di cui disponiamo sono, almeno in parte, inadeguate. La storia ha sempre questo di caratteristico: passa per la decisone di pochi e investe la vita di tanti. Travolti come da un’onda che rompe gli argini.
Siamo già a questo punto? No. Siamo però al punto in cui le decisioni devono essere prese: per fortuna qualche passo in avanti negli ultimi giorni è stati compiuto. Ma siamo, soprattutto, al momento in cui la coscienza europea ha l’occasione per forgiarsi un po’ di più. Riconoscendo se stessa di fronte alle sfide del tempo.
Dai sentimenti contraddittori di questi giorni affiorano almeno tre indicazioni. Primo: nonostante tutto, l’Europa continua a essere percepita/sperata come area di libertà, benessere, democrazia e pace. È questo il bene che condividiamo e che va perseguito con una continua innovazione istituzionale in grado di farci superare l’ incertezza in cui versiamo. Le minacce da parte di nemici esterni possono forse convincerci a compiere i passi che in questi anni non siamo riusciti a fare.
Secondo: come europei non possiamo più sottrarci alla responsabilità di difendere questi valori. Mostrandoci inflessibili con chi li nega. Senza paure e infingimenti. Il dialogo va cercato sempre. Ma l’aggressione va fermata insieme. E l’integrazione economica non potrà sussistere senza quella militare e internazionale.
Terzo, l’Europa è un progetto che si struttura attraverso un processo di convergenza graduale ottenuta con un metodo comune: la moneta unica e la progressiva armonizzazione/integrazione delle politiche. L’idea resta buona e va perseguita. A 360 gradi, però: non solo dove comandano gli interessi economici e politici più forti. Senza dimenticare che a reggere lo stress della convergenza dev’essere l’intero corpo sociale, ampio e variegato culturalmente e economicamente. Ci vogliono regole, certo. Ma anche una certa arte: l’arte della politica. Nella storia, come nella vita, la coscienza si fa facendosi. Ecco: per l’Europa, ancora una volta, ci siamo.
 

Aprirsi all’altro islam
di Roberto Toscano La Stampa 16.2.15
L’emozione suscitata dagli attentati di Parigi aveva indotto qualche commentatore a parlare iperbolicamente di un «11 settembre europeo». Purtroppo non è così, nel senso che nelle stesse dimensioni di quell’attacco all’America e nella complessità della sua organizzazione era insita una difficile ripetibilità. Negli attentati di Parigi e Copenaghen ci troviamo invece di fronte a qualcosa di tragicamente ripetibile, di facile organizzazione e a basso costo, e soprattutto di impossibile prevenzione. Corriamo il rischio di entrare in una sconcertante fase in cui – se dovessimo mantenere quell’improprio paragone – potremmo avere, se non un 11 settembre quotidiano, un 11 settembre mensile. C’è da chiedersi comunque se sapremo tenere i nervi a posto e soprattutto contrastare e reprimere senza per questo abbandonare i nostri principi di legalità e libertà.
Cerchiamo per prima cosa di rispondere ad alcune domande. Gli attentati di Parigi e Copenaghen sono stati prodotti dalla questione della blasfemia? E se è così, non sarebbe bene mettere un limite di natura legale alla libertà di satira, e più in generale alla libertà di espressione? Vi è, in questo modo di porre la questione, un grave rischio.
Se lasciassimo alla potenziale «parte lesa» la possibilità di definire la soglia dell’offesa, il permissibile e l’impermissibile, finiremmo forse per garantire la nostra tranquillità, ma a prezzo di un silenzio generalizzato, di un impoverimento culturale, di una regressione politica difficilmente compatibile con la democrazia. Diverso è invece il discorso su quella «etica della responsabilità» che ci dovrebbe imporre una valutazione degli effetti della nostra azione, inducendoci in alcune circostanze ad astenerci dall’esercitare un diritto che pure rimane nostro.
E poi, questo discorso su offesa e blasfemia può essere fuorviante, se pensiamo che sia a Parigi che a Copenaghen sono stati presi contestualmente di mira non soltanto i blasfemi caricaturisti, ma anche gli ebrei – ancora una volta colpiti, come tante volte nella storia, per quello che sono piuttosto che per quello che fanno. E questo come facciamo a prevenirlo? Chiudendo le sinagoghe o forse, come Netanyahu torna demagogicamente a proporre, facendo emigrare in Israele le comunità ebraiche europee?
Sorge anche un’altra domanda: chi sono i terroristi e cosa li ispira? Negli ultimi tempi è capitato spesso di sentir dire che gli attentatori «non sono musulmani», ma solamente pazzi criminali. Lasciamo che a questa affermazione risponda la dichiarazione di un gruppo di intellettuali musulmani (fra cui Tariq Ramadan, un moderato ma pur sempre islamico, se non islamista): «Affermare che gli atti terroristi commessi in nome dell’islam non hanno niente a che vedere con la religione è come dire che le crociate non avevano niente a che vedere con il cristianesimo». Vengono qui subito in mente le recenti dichiarazioni di Obama che, ad un «breakfast di preghiera» alla Casa Bianca, ha affermato – citando in particolare crociate e Inquisizione – che tutte le religioni, storicamente, si sono rese colpevoli di crimini contro l’umanità. Cosa che ha suscitato una violenta reazione settaria da parte degli ultrà repubblicani, «cristianisti» piuttosto che evangelicamente cristiani. Il fatto è che le religioni non possono pretendere di essere giudicate soltanto sulla base dei principi dei loro fondatori e dei loro testi sacri, e non sul comportamento dei loro fedeli e sul concreto impatto sulle società in cui si radicano. Come dice il Vangelo, «dai loro frutti li riconoscerete».
Tutte le religioni, tutte le ideologie politiche, possono avere versioni intolleranti e anche violente. Versioni che – con una definizione forse storicamente impropria ma politicamente centrata – si possono definire come «fasciste».
Da tempo imperversa la polemica sull’uso del termine «islamofascismo». Per i musulmani si tratterebbe di un’inammissibile e razzista denigrazione della loro fede, di un’ennesima manifestazione di islamofobia. Certo, hanno torto quando pretendono di chiudere la bocca a qualsiasi critica che viene loro rivolta definendola islamofoba, ma hanno senz’altro ragione nei confronti di quelli che (esistono, e come) usano il termine in modo indiscriminato nei confronti di tutta una religione, appiattendo ogni differenza fra islamici, islamisti, islamisti radicali e terroristi.
In modo paradossale e perverso sembra oggi che, come conseguenza del terrorismo e della sfida jihadista in Medio Oriente e Nord Africa, l’opinione pubblica occidentale tenda a prendere per buona la definizione dell’islam che viene data dai wahabiti assassini: un islam intollerante, violento, retrogrado. Servirebbe un po’ meno d’ignoranza su una civiltà che, del resto come la nostra, attraverso i secoli ha prodotto il peggio ma anche il meglio. Non tutti hanno il tempo di approfondire la storia dell’islam, ma basterebbe guardare uno straordinario documento che in questi giorni circola su internet. In una registrazione fatta con un cellulare si vede una donna molto anziana che, in una zona controllata dallo Stato Islamico, affronta con il coraggio della fede religiosa e della umana indignazione una pattuglia di jihadisti accusandoli di essere assassini e di non rispettare i precetti di misericordia di Allah. Lo fa citando a memoria brani del Corano (che certo, pur essendo chiaramente una persona semplice, conosce molto meglio dei bruti che l’ascoltano sghignazzando) e persino testi di poesia.
Un altro islam. Un islam che dobbiamo rispettare ed accogliere. Un islam che dovrà prevalere.


Vittorio Emanuele Parsi “La guerra sarà lunga e dispendiosa”
intervista di Alessio Schiesari il Fatto 16.2.15
L’intervento in Libia sarebbe molto lungo e dispendioso, anche in termini di vite umane”. Vittorio Emanuele Parsi, direttore dell’Alta scuola in economia e relazioni internazionali, ipotizza gli scenari che si aprirebbero se l’Italia desse seguito alle parole del ministro Gentiloni, che ha aperto alla possibilità di un intervento militare.
Per il titolare della Farnesina, l’Italia sarebbe disposta anche a guidare un intervento sotto l’egida dell’Onu.
È apprezzabile la disponibilità ad assumersi delle responsabilità, ma bisogna prima capire con quali obiettivi. Combattere l’Isis è un’operazione complessa: Obama per la Siria e Iraq ha chiesto tre anni. Per stabilizzare la Libia non è sufficiente armare delle milizie o bombardare, è necessario cercare degli alleati e accettare la prospettiva di un impegno lungo. Però, se non se ne occupa l’Italia, non lo farà nessuno perché siamo noi i primi a dover essere preoccupati di quanto sta accadendo.
Che tipo di opzione militare servirebbe?
Non bastano i bombardamenti per fermare l’avanzata dell’Isis, com’è evidente in Siria e Iraq. E là comunque ci sono truppe di terra che combattono.
Mentre i jihadisti puntano Tripoli, in buona parte del Paese mancano anche i servizi essenziali. Come si è arrivati fino a qui?
Il Paese è scivolato progressivamente in una situazione prima di guerra civile, poi di semi-anarchia. Nessuna delle due autorità che reclamano legittimità ha il controllo del territorio. Questo ha permesso la penetrazione dell’Isis, la milizia jihadista più preparata, da est. È uno scenario somalo, solo un po’ più ordinato perché l’Isis è organizzata.
Gli interlocutori che l’Occidente si è scelto, a cominciare dal comandante dell’esercito regolare Khalifa Haftar, si sono rivelati inadatti. Quali sponde occorre cercare?
Si può provare a insistere con il governo di Tobruk, ma è chiaro che non ci sono interlocutori affidabili, capaci di coordinare gli interventi. Il governo non è stato all’altezza della complessità della situazione. Gheddafi aveva deistituzionalizzato il paese, la sua caduta ha lasciato il vuoto. La Libia è un paese molto complesso a livello tribale che il Raìs riusciva a governare solo per i metodi brutali che adottava.
È stato un errore intervenire per deporlo?
Com’è risaputo, sono stati i francesi a insistere per deporre Gheddafi, ma non hanno pianificato la fase successiva. L’Italia ha provato per quanto possibile a starne fuori perché non condivideva gli obiettivi dell’intervento. La responsabilità di questo pasticcio grava su Londra e Parigi ma, anche se la frittata l’hanno fatta gli altri, ora chi se la ritrova davanti alle proprie coste siamo noi.
L’Egitto, anche grazie al supporto finanziario degli Emirati Arabi, ha appena acquistato 24 cacciabombardieri Rafael perché – lo dice la commissione difesa del Parlamento francese – al-Sisi è preoccupato dalla guerra libica. Quali partner arabi bisogna interpellare?
L’Egitto lotta contro l’Isis nel Sinai e sarebbe disposto a farlo anche in Libia. Poi bisognerebbe sondare Algeria e Lega Araba se sono disponibili a una missione con legittimità internazionale. E anche i paesi del Golfo, nonostante il loro giochi poco trasparenti, sono inquieti.
Dopo la caduta dei dittatori laici, da Gheddafi a Saddam, il Medio Oriente sta cadendo nelle mani dei jihadisti. Perché?
Il ritorno della religione in politica è un fenomeno antico che riguarda anche l’Occidente, penso a Carter negli Usa negli anni ’70. Le forme inaccettabili di islamismo radicale invece sono da imputare alla volontà politica di certi Paesi – Arabia Saudita e gli altri Stati del Golfo – che da trent’anni finanziano un certo tipo di Islam.


Ma attaccare oggi è un regalo al Califfo
Un’operazione militare a Tripoli porterebbe a nuovi disordini e alimenterebbe soltanto la propaganda contro l’Occidentedi Lucio Caracciolo Repubblica 17.2.15
IL “califfo” al-Baghdadi non potrebbe sperare di meglio: l’invasione armata di ciò che resta della Libia, condotta da ”crociati” (italiani, francesi e altri europei) e “apostati corrotti” (egiziani più arabi e africani vari). Eppure del nuovo sbarco sulla quarta sponda si discetta nelle cancellerie europee e nei palazzi dei monarchi e delle giunte militari arabe, con il discreto ma pressante incoraggiamento americano. Una operazione di controguerriglia da sviluppare su un territorio largamente desertico grande sei volte l’Italia, in totale caos geopolitico, dove si affrontano decine di bande e milizie di vario colore e appartenenza etnica, locale o regionale, tutte armate fino ai denti. Una campagna che in teoria si presenta non dissimile dalle guerre sovietica o americana in Afghanistan, solo in un contesto molto più confuso e senza i mezzi delle superpotenze. Ma con la stessa carenza di obiettivi chiari e perseguibili. Perché, contrariamente a quanto affermano i suoi portavoce, lo Stato Islamico non sta conquistando la Libia. Semmai, alcune fazioni che continuano a massacrarsi senza pace usano il marchio “califfale” in franchising, per ottenere visibilità e attirare reclute.
In ogni caso, per una spedizione oltremare toccherebbe esibire una bandiera Onu autorizzata dal Consiglio di Sicurezza — percorso non scontato — in modo da vestirla da “operazione di pace”. Come ha avvertito il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, l’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale». Stavolta però la foglia di fico onusiana non potrebbe mascherare la natura della guerra: non c’è nessuna pace da preservare, nemmeno in embrione.
Non basta: il ministro della Difesa Roberta Pinotti ha annunciato che Roma aspira a guidare l’agognata missione schierando un contingente di cinquemila uomini. In effetti, più che di soldati avremmo bisogno di carri armati (Rommel docet), che non abbiamo: quelli davvero efficienti si contano sulle dita delle mani o poco più. Peggio, sembra che alcuni esponenti del governo abbiano persa la memoria del nostro passato coloniale in Tripolitania e in Cirenaica. Certo non l’hanno dimenticato i libici. «Tutto ciò cui aspiriamo è avere di nuovo gli italiani qui fra le mani», ha twittato uno dei più seguiti blogger di Misurata, nemmeno fra i più radicali. Per vendicare Omar al-Mukhtar e i suoi gloriosi martiri.
Quattro anni dopo aver partecipato controvoglia, su uno strapuntino dell’ultimo minuto, alla liquidazione franco-britannica di Gheddafi (e della Libia), adesso rischiamo dunque di tornarci in pompa magna, per ritessere la tela che abbiamo strappato. A supportare le ambizioni egiziane sulla Cirenaica e gli interessi francesi nel Fezzan. Invece del Colonnello, con cui flirtammo per quattro decenni, lavoreremmo stavolta per un sedicente generale dalle ambigue credenziali, Khalifa Heftar, appoggiato da egiziani, sauditi, emiratini e altri petromonarchi del Golfo. Il quale ha saputo abilmente intestarsi la “guerra al terrorismo” (sezione libica), certificato di qualità ad uso dei governi e delle opinioni pubbliche occidentali meno avvertite, utile a legittimare l’eliminazione dei propri avversari — in questo caso anzitutto le milizie di Misurata e altri gruppi presuntamente “islamisti”. Puro avventurismo geopolitico, che fra l’altro significherebbe esporci gratuitamente al terrorismo jihadista sul nostro territorio molto più di quanto non lo si sia adesso. A rimettere ordine nel dibattito pubblico alimentato dai suoi stessi ministri ha pensato Matteo Renzi, avvertendo che «non è tempo per una soluzione militare». Il nostro premier ha preso tempo: meglio “aspettare l’Onu”. E ha correttamente osservato: «In Libia non c’è un’invasione dello Stato Islamico, ma alcune milizie che combattevano lì hanno iniziato a fare riferimento a loro». Renzi mostra così di non voler cadere nella trappola della propaganda del “califfo”, che si annuncia “a sud di Roma”. E, se volessimo davvero combattere lo Stato Islamico, potremmo attaccarlo dove effettivamente si trova, fra Siria e Iraq. Non risulta però che i nostri piloti siano autorizzati a colpirlo.
Ma qualcosa si può e si deve fare. Prima di tutto, non accendere nuovi focolai di guerra senza speranza di vincerla. Poi, usare le leve finanziarie di cui ancora disponiamo per bloccare i flussi di denaro che arrivano ai gruppi armati — operazione tutt’altro che impossibile. In terzo luogo, colpire i traffici che alimentano i miliziani, compresi i jihadisti che fanno riferimento allo Stato Islamico. Tra Iraq e Siria gli americani hanno bombardato con qualche successo raffinerie e impianti controllati dal “califfato”. In Libia le Marine occidentali potrebbero affondare, prima che partano, le barche con cui i mercanti di essere umani attraversano il Canale di Sicilia, lucrando su migliaia di disperati. Un blocco navale di fatto, accompagnato da operazioni di forze speciali nei porti libici, infliggerebbe un colpo severo al più osceno dei traffici. E alla cassa degli aspiranti emuli del “califfo”.



“Entrare in guerra è facile ma si rischia il pantano”
Il generale Mini: 5 mila uomini? Ne servirebbero 50 milaintervista di Francesco Grignetti La Stampa 17.2.15
«Andare in Libia a fare la guerra è fin troppo facile. Una volta che ci fossimo infilati in quel pantano, però, difficile sarebbe uscirne. Guardate che cosa accade dopo 14 anni di Afghanistan». Non è usuale sentire un generale del nostro esercito usare tanta freddezza nei confronti della guerra. Eppure Fabio Mini, che è stato il comandante della missione Nato in Kosovo, e capo di stato maggiore del Comando Nato delle forze alleate Sud Europa, non si nasconde dietro le parole.
Generale Mini, perché intervenire in Libia sarebbe una missione tanto sbagliata?
«Perché ho sentito molta frettolosità nell’analisi del presente, e nessuna parola sul futuro. Per parafrasare un mio libro, diteci quale guerra verrebbe dopo la guerra. Spiegateci quale è la strategia complessiva. Parlare di “peace keeping” alla maniera libanese, non ha senso: non ci sono due fazioni che si affidano a noi per consolidare una tregua. Fare come nel 2011 con i raid aerei, poi, lascerebbe le cose come stanno. Se proprio si deve controllare il territorio, in Libia ci sarebbe da combattere sul serio e non so se è chiaro che avremmo 50 morti nella prima settimana. Né si pensi che bastino 5 mila uomini, ce ne vorrebbero 50 mila e forse sarebbero ancora pochi».
L’alternativa sarebbe un’operazione alla kosovara o alla curda. Noi ci mettiamo potenza aerea e consiglieri militari, loro le forze di terra.
«Possibile. Ma allora ci devono dire chi sono gli alleati e chi no. Cioè quali fazioni appoggiamo e quali contrastiamo. Perché è evidente che l’Isis è soltanto una bandiera, e sotto ci sono le stesse milizie che prima pagavamo e che ora indossano la tuta nera perché da quelle parti è diventato un marchio vincente».
I jihadisti sembrano essere diventati i terzi incomodi tra due fazioni in rotta, gli islamici di Tripoli e i laici di Tobruk. Un intervento occidentale rischia di rompere gli equilibri e coalizzare tutti gli islamisti contro di noi?
«Appoggiando lo schieramento del generale Haftar, gli egiziani e gli americani avevano già provato a chiudere la partita con una spallata. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Egiziani e francesi, da quel che vedo, tentano ora una nuova spallata ma non penso che avranno successo neppure stavolta».
E allora, che fare?
«Innanzitutto andrei a rivedere quell’accordo di amicizia tra Italia e Libia che si firmò ai tempi di Berlusconi. Se un ampio spettro di forze libiche ci chiedessero aiuto... Ma abbandoniamo idiozie come l'esportazione della democrazia. Ipocrisia. Come quella che in questi anni ci fossero uno Stato, elezioni regolari, e governi legittimi. La Libia è terra di tribù, ciascuna con i suoi pozzi di petrolio. Se devo dirla tutta, converrebbe che gli equilibri locali si chiariscano da soli. Con un intervento occidentale ora, la crisi si internazionalizza e in prospettiva diventa ancora più ingestibile».

Servono 60 mila soldati
di Paolo Rastelli Corriere 17.2.15
L’ex primo ministro iracheno Nouri al Maliki l’ha definita senza mezzi termini «Terza guerra mondiale», visto che viene combattuta contro un’organizzazione, il Califfato di Al Baghdadi, che aspira al dominio universale. Maliki in quel momento (ottobre 2013) aveva tutto l’interesse a drammatizzare gli attacchi dell’Isis per avere il massimo dell’aiuto possibile. Ma certo la minaccia portata dallo Stato Islamico si sta allargando, producendo una risposta multinazionale i cui aderenti aumentano giorno per giorno.
Oggi si sono uniti gli egiziani, che dopo la decapitazione dei cristiani copti diffusa via video in tutto il mondo, hanno eseguito tre raid aerei in forze in Libia, aiutati anche da quel poco che rimane di aviazione libica rimasta fedele al governo di Tobruk, riconosciuto come legittimo dalla Comunità internazionale: secondo rapporti diffusi dallo stesso governo libico, una cinquantina di militanti dell’Isis sarebbero rimasti sul terreno anche se un effettivo controllo di queste cifre è allo stato impossibile. Qualche giorno fa in Siria erano intervenuti gli F-16 (in generale il velivolo più diffuso nell’area mediterranea, in possesso anche dell’Aeronautica militare italiana) della Forze aeree reali giordane, in risposta all’immolazione del pilota Maaz al Kassasbeh, bruciato vivo in una gabbia. Sempre in Siria e Iraq hanno lanciato incursioni, in momenti diversi, aerei americani, australiani, britannici, francesi, sauditi, del Qatar e degli Emirati arabi.
La Libia non è raggiungibile agevolmente da tutte queste aviazioni, soprattutto da quelle degli Stati arabi del Golfo in assenza di basi più vicine all’obiettivo. Ma comunque sul nuovo fronte aperto dal califfato è ipotizzabile, se mai avverrà, l’impegno di una robusta coalizione, più o meno analoga a quella che aiutò i ribelli a rovesciare Gheddafi nel 2011: Francia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Danimarca, Norvegia, Spagna, Emirati arabi uniti, Qatar, Egitto (che proprio ieri ha concluso con la Francia l’acquisto di altri 24 sofisticati caccia Rafale), con l’appoggio degli Stati Uniti, che può anche essere solo di Elint (informazioni elettroniche) con i velivoli Awacs e individuazione/illuminazione degli obiettivi.
Da questa lista si capisce che un eventuale intervento italiano (sul quale peraltro il presidente del Consiglio Matteo Renzi si è dimostrato per ora alquanto tiepido) non potrà che essere inquadrato in un’iniziativa Nato con il via libera dell’Onu. Chiunque interverrà non potrà certo limitarsi ai raid aerei, per controllare un territorio ci vogliono, come dicono gli americani, i boots on the ground , gli stivali sul terreno: contro Gheddafi le forze di terra erano fornite dai ribelli, ma adesso dovranno essere mandate anche truppe europee. Quante? Secondo una stima prudente, dovendo bonificare e controllare un territorio vasto senza rilievi naturali importanti, almeno 60 mila uomini con equipaggiamento pesante: carri armati, elicotteri di attacco, mezzi trasporto truppe, genio.
Nel caso dell’Italia, non meno di una brigata corazzata o meccanizzata tipo Ariete o Garibaldi: due reggimenti di fanteria, uno di cavalleria corazzata, uno di carri armati, uno di artiglieria semovente, per un totale di almeno 7 mila soldati. Cosa troverebbero ad attenderli? Secondo un’analisi diffusa ieri dal Rid , Rivista italiana difesa, in Libia l’Isis ha un nucleo «duro» di 800 uomini (tra cui molti reduci del teatro siriano-iracheno) nell’area di Derna. A queste vanno aggiunte bande sparse, di consistenza incerta, nella Sirte e in Tripolitania, in parte scissioniste dalle milizie della Fratellanza musulmana. Per il momento l’armamento sarebbe leggero: mitragliatrici, razzi anticarro Rpg, mortai. Niente carri armati, per ora.


Tutti i rischi di autogol di un’azione militare
di Gianandrea Gaiani Il Sole 17.2.15
Sarà l’Italia a guidare la Coalizione che muoverà guerra allo Stato Islamico sul fronte libico? Il termine «guerra», inusuale per la politica italiana che non lo utilizza dal 1945 preferendogli la definizione «missioni di pace», è stato evocato dal ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. L’Italia «è pronta a combattere, naturalmente nel quadro della legalità internazionale».
«Non possiamo accettare - aveva detto il ministro venerdì - che a poche ore di navigazione dall’Italia ci sia una minaccia terroristica attiva». Una sfida che lo Stato Islamico ha raccolto e rilanciato con la propaganda e con le armi. Prima la radio dello Stato Islamico ha definito Paolo Gentiloni «ministro degli Esteri dell’Italia crociata» poi un gruppo di scafisti armati di kalashnikov ha imposto all’equipaggio di una motovedetta italiana di consentire loro di andarsene con il barcone una volta trasferiti gli immigrati clandestini a bordo sull’imbarcazione italiana. Affermare che l’Italia è pronta a combattere ha un senso se si sono già autorizzate iniziative militari ma rischia di diventare un autogol se a queste parole fanno seguito la rassegnata accettazione che le nostre motovedette possano essere minacciate (e domani forse aggredite) da terroristi e miliziani e se l’unica operazione effettuata in Libia dagli italiani è l’evacuazione dell’ambasciata e degli ultimi connazionali. Una fuga, una ritirata che fornirà all’attenta propaganda dello Stato Islamico materiale utile a denigrare l’Italia. Del resto sull’ipotesi di un intervento militare italiano c’è molta confusione. Lo ha escluso anche il presidente della Commissione esteri del Senato, Pier Ferdinando Casini che ha sottolineato «la necessità che l’Onu si assuma la responsabilità di convocare al più presto il Consiglio di sicurezza». Il ministro della Difesa Roberta Pinotti si è invece spinta già a quantificare il contingente da schierare in Libia in 5 mila militari. Quella libica diverrebbe così la più importante missione nazionale all’estero con un costo, considerati mezzi, velivoli e navi, superiore al mezzo miliardo di euro. Dubbi circa la tenuta dell’Italia in un conflitto sono più che giustificati. Non riusciamo a fermare i flussi di immigrazione illecita e siamo pronti a fare la guerra in Libia? Siamo l’unico Paese della Coalizione che non autorizza i suoi aerei a bombardare i jihadisti a Mosul ma siamo pronti a bombardarli a Sirte?
Sbarcare in Libia con 5 mila soldati per combattere lo Stato Islamico non ha senso se non sono chiare le alleanze sul terreno. I due schieramenti politico –militari che si contendono il Paese e devono entrambi fare i conti con lo Stato Islamico, sono divisi al loro interno ma concordano nel non volere stranieri sul suolo libico. Il governo laico di Tobruk guidato da Abullah al Thani è ai ferri corti col generale Khalifa Haftar che guida gran parte dell’esercito e la campagna contro gli islamisti. I miliziani islamici (Fratelli Musulmani, Salafiti, milizie di Misurata) del “Fronte Alba della Libia” controllano molte aree della Tripolitania ma pare stiano perdendo alcune milizie attratte dal modello dello Stato Islamico. Come è accaduto in Siria l’Isis utilizza armi e denaro per comprare l’adesione di milizie tribali o appartenenti ad altre organizzazioni. In Libia gli uomini del Califfato hanno incassato e incassano milioni gestendo i traffici di immigrati verso l’Italia, denaro che possono investire nella guerra per conquistare Sirte e puntare ora su Misurata. Prima di sbarcare truppe sulla nostra “quarta sponda” meglio chiarire che sarà una missione di guerra non certo di peacekeeping e che la presenza di nostre truppe sul terreno attirerà terroristi islamici da tutto il Nordafrica e Sahel.

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