Il problema non è L’Islam, il problema siamo noi: occidentali medi travolti dal senso di colpa per il nostro passato coloniale, per gli errori commessi, per una comprensione sballata delle dinamiche interne alle religioni altrui, essenzialmente debosciati. Il filosofo e intellettuale sloveno Slavoj Zizek arriva in libreria con Islam e modernità. Riflessioni blasfeme, edito da Ponte alle Grazie, e in meno di cento pagine entra nel vivo delle contraddizioni che abitano l’attualità più stringente. Lo fa accostando le immagini della sfilata parigina di Place de la République dopo i fatti di Charlie Hebdo ad alcuni avvincenti passi della Bibbia e del Corano, quelli in cui si ripercorre la nascita dei due capostipiti dell’ebraismo e dell’Islam, Isacco e Ismaele. Che c’entra? E invece c’entra, perché senza una comprensione della genealogia diventa impossibile capire da dove nascano i demoni presenti. E solo una volta ricordata la natura di quei demoni è possibile saltare alla modernità e trarne delle conclusioni, ad esempio che «l’ascesa dell’islamismo radicale è in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani».
Slavoj Zizek, ci spieghi meglio, in che senso il liberalismo deve allearsi con la sinistra radicale per frenare l’avanzata del terrorismo islamico?
L’ascesa dell’islamofascismo è la reazione al fallimento delle rivoluzioni arabe e alla scomparsa dei laici: solo l’alleanza tra liberalismo e sinistra radicale può salvare i paesi musulmani dalla deriva fondamentalistadi Slavoj Zizek Repubblica 23.2.15
LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra». Se «approfittandosi» della situazione dei contadini i Taliban hanno fatto «salire l’allarme circa i rischi che corre un Paese come il Pakistan, in gran parte ancora feudale», cosa impedisce ai liberal-democratici in Pakistan e negli Stati Uniti di «approfittare » della stessa situazione aiutando i fittavoli senza terra? La triste implicazione di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «naturali alleate» della democrazia liberale… Che dire allora dei valori fondamentali del liberalismo? Che ne è della libertà, dell’uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte da preservarli dall’attacco del fondamentalismo. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificante, ovviamente — a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo. Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione — la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.
È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.
Ciò dimostra che l’Is è un fenomeno premoderno, un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico? La resistenza al capitalismo globale non può ricevere impulso dal recupero di tradizioni premoderne, dalla difesa di forme di vita particolari — per il semplice motivo che un ritorno alle tradizioni premoderne è impossibile, considerato che la resistenza alla globalizzazione presuppone l’esistenza della globalizzazione stessa: chi si oppone alla globalizzazione in nome delle tradizioni che essa starebbe minacciando lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità. Se il contenuto di queste restaurazioni è antico, la loro forma è ultramoderna. Allora, anziché considerare l’Is come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa. La nota fotografia che ritrae Al Baghdadi, leader dell’Is, con uno scintillante orologio svizzero al polso, è in questo senso emblematica: l’Is è ben organizzato in fatto di propaganda sul web e di operazioni finanziarie, ecc., malgrado faccia ricorso a queste pratiche ultramoderne per diffondere e imporre una visione ideologico-politica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità (regolamentazione strettamente asimmetrica della differenza sessuale, interdizione dell’istruzione laica…). Tuttavia, anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista severamente disciplinata e regolata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) integrata dalla condotta delle unità militari locali dell’Is? Mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale, nella loro prassi quotidiana i reparti dell’Is compiono delle vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli). La radicalità senza precedenti dell’Is riposa in questa brutalità ostentata, mostrata apertamente. (© 2015 Slavoj Zizek. © 2015 Adriano Salani Editore s.u.rl. Milano)
Slavoj Zizek e i fratelli gemelli dell’oppressione
Arriva Jihadi John
La ricezione di quei libri va quindi inserita all’interno di uno «spirito del tempo» dominante. Possono cioè funzionare come elementi reattivi, di manifesta alterità o di adesione al pensiero dominante. Il fondamentalismo islamico è da collocare in un contesto preciso, che è quello della globalizzazione. È necessario dunque introdurre una distinzione tra Islam e fondamentalismo islamico. Questo non significa, però, che ci sia incompatibilità tra la dimensione politica fondamentalista e la religione islamica, bensì che il primo aspetto non esaurisce il secondo.
Il fondamentalismo islamico, nelle sue diverse eccezioni, delle quali l’Isis è l’ultima variante, va collocato all’interno di una riconfigurazione dei rapporti interstatali sia nelle realtà arabe, ma anche di quei paesi che hanno una popolazione significativa di religione musulmana. Va però anche inserito nei rapporti politici e economici tra Nord e Sud del pianeta. E, fattore in rapida espansione, entra come variabile rilevante nelle relazioni sociali all’interno di alcuni paesi europei tra giovani di religione musulmana e il resto della popolazione, come testimoniano le biografie dei due assalitori di Charlie Hebdo, di Jihadi John e di altri foreign fighters.
Per Zikek sono tutti tasselli di un puzzle in continuo divenire, che asserisce soprattutto un fatto: il fondamentalismo è un fattore reattivo alla globalizzazione, alle trasformazioni a cui ha dato il via, al fallimento dei processi di modernizzazione seguiti alla decolonizzazione e ai progetti «liberali» di costruzione di società multiculturali. E se per il mondo arabo stiamo assistendo a una ridefinizione dei confini imposti dal capitalismo europeo e statunitense, per i giovani europei che aderiscono alle parole d’ordine politiche del fondamentalismo islamico si può parlare della crisi dei processi di integrazione sociale.
Zizek aderisce a questa lettura, anche se invita, giustamente, a considerare il fondamentalismo non come una opposizione alla società del capitale, bensì come a una componente proprio di una globalizzazione certo in crisi, ma che vuol comunque imporre al mondo la camicia di forza dell’economia di mercato. Il fondamentalismo islamico, in quanto progetto politico, altro non è che il tentativo feroce di poter condizionare proprio la globalizzazione, senza mai metterla in discussione. È cioè l’ospite inatteso a un banchetto che ha come menù le risorse naturali del pianeta e la ricchezza prodotta.
Non va quindi considerato come un soggetto antagonista alla società del capitale, come è stato talvolta scritto dagli orfani del mondo bipolare, bensì come il progetto di chi aspira, con un forte senso di rivincita, a diventarne protagonista al pari di altri.
Ma c’è anche l’altro aspetto che Zizek tiene a precisare: il rapporto tra la cultura liberal e il fondamentalismo islamico. L’immagine che usa è quello di due facce della stessa medaglia, cioè entrambe sono culture politiche sono tese a consolidare l’ordine costituito. Più che la liberazione dagli oppressori o il rispetto delle libertà dallo sfruttamento sono entrambe culture politiche dell’oppressione. È un vecchio cavallo di battaglia di Zizek, quello di assegnare all’ideologia dei diritti umani un ruolo di legittimazione dello status quo. Quel che però risulta poco convincente è, rispetto al fondamentalismo islamico, la differenza tra alcune libertà garantite nell’Occidente e la loro negazione da parte dei movimenti politici islamici fondamentalisti.
Un malinconico invito
Il filosofo sloveno ha molte frecce nel suo arco nello scagliarsi contro la misoginia dei fondamentalismi islamici e l’esaltazione consumista del corpo delle donne in Occidente, ma il suo malinconico invito al pensiero critico, a salvare la cultura liberal da se stessa risulta una boutade per catturare l’attenzione. Un invito che non può, infatti, che cadere nel vuoto se non è accompagnato dall’altro movimento di pensiero: la critica ai dispositivi che impongono lo stesso regime di produzione della ricchezza. Più sinteticamente: il problema che drammaticamente il fondamentalismo islamico pone al pensiero critico è l’elaborazione di rapporti sociali che non prevedano oppressione e espropriazione privata della ricchezza. Tanto nel Nord che nel Sud del pianeta, in Francia come in Siria.
Senza nessuna concessione alla retorica, il movimento da compiere è quello che ha portato gli uomini e le donne di Kobane e della Rojava a resistere all’Isis in nome non di generiche libertà, ma della propria capacità di sviluppare, costruire relazioni e rapporti sociali. Qui la libertà è una componente fondamentale per la capacità di autodeterminare la propria esistenza, le relazioni sociali e nel valorizzare, al tempo stesso, le differenze culturali, etniche, religiose. Il fondamentalismo islamico è un nemico di processi di liberazione, altro che possibile compagno di strada nella lotta contro il capitalismo neoliberista o l’imperialismo occidentale. Così come lo è, ma in forme diverse, quella cultura liberal che rischia sempre di ridursi a una tolleranza repressiva verso chi propone di andare oltre l’angusto orizzonte dell’economia di mercato.
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