sabato 21 febbraio 2015

La barzelletta di Charlie Zizek su Islam e modernità

L' islam e la modernità. Riflessioni blasfeme
Slavoj Zizek: Islam e modernità. Riflessioni blasfeme, edito da Ponte alle Grazie

Risvolto
Il terrore islamista e il liberalismo occidentale sono due facce della stessa medaglia?

«Ora che siamo tutti sotto shock, a causa della furia omicida che ha investito Charlie Hebdo, è il momento giusto per armarsi di coraggio e pensare. Ora e non più tardi, quando le acque si saranno calmate, come vorrebbero persuaderci i venditori di saggezza a buon mercato. [...]Ragionare a freddo non è di per sé garanzia di maggiore obiettività, ma al contrario, normalizza la situazione e ci porta a schivare la punta acuminata della verità».

Integralisti islamici? Si vincono con valori di destra e società di sinistra

“Il pericolo non sono loro, ma la nostra impotenza di fronte al multiculturalismo” 
Francesca Sforza Tuttolibri 21 2 2015
Il problema non è L’Islam, il problema siamo noi: occidentali medi travolti dal senso di colpa per il nostro passato coloniale, per gli errori commessi, per una comprensione sballata delle dinamiche interne alle religioni altrui, essenzialmente debosciati. Il filosofo e intellettuale sloveno Slavoj Zizek arriva in libreria con Islam e modernità. Riflessioni blasfeme, edito da Ponte alle Grazie, e in meno di cento pagine entra nel vivo delle contraddizioni che abitano l’attualità più stringente. Lo fa accostando le immagini della sfilata parigina di Place de la République dopo i fatti di Charlie Hebdo ad alcuni avvincenti passi della Bibbia e del Corano, quelli in cui si ripercorre la nascita dei due capostipiti dell’ebraismo e dell’Islam, Isacco e Ismaele. Che c’entra? E invece c’entra, perché senza una comprensione della genealogia diventa impossibile capire da dove nascano i demoni presenti. E solo una volta ricordata la natura di quei demoni è possibile saltare alla modernità e trarne delle conclusioni, ad esempio che «l’ascesa dell’islamismo radicale è in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani». 

Slavoj Zizek, ci spieghi meglio, in che senso il liberalismo deve allearsi con la sinistra radicale per frenare l’avanzata del terrorismo islamico?

«Se si chiede a un liberale classico cosa vuol dire per lui essere libero, ci risponderà che è libero di viaggiare, di andare dove vuole, di vestirsi come gli pare, di fare sesso con chi crede. Ecco per me questa libertà ha senso solo se contempla anche le condizioni grazie a cui si può scegliere questo o quello. Un esempio è la riforma sanitaria di Obama, una vera riforma di sinistra, che non si limita a offrire più prestazioni, ma che allarga lo spazio, per gli individui, di essere socialmente attivi. Interviene sulle condizioni di possibilità, non sulle singole opzioni».
Leidedica molta attenzione al femminile come simbolo della seduzione che l’Occidente diffonde e che l’Islam invece teme. Quale delle due visioni del mondo è destinata a prevalere sull’altra?
«La mia posizione è chiara, sono contro l’islamofobia ma allo stesso tempo penso che bisogna difendere i valori europei. La seduzione è un rischio che le società europee si devono assumere: siamo continuamente bombardati da una pubblicità seducente, l’esercizio è resisterle. Al contrario, l’Islam se la prende con chi seduce, escludendo ogni possibile educazione alla resistenza. Poi si finisce per ripetere gli errori dello stalinismo, che ha opposto ai valori borghesi l’abolizione di qualunque forma di libertà. Se non si salva lo spazio per la critica e l’autocritica non ci può essere autentica democrazia. E nell’Islam questo spazio per l’autocritica non c’è». 
Pensa che tollerare una donna velata in Occidente sia come accettare l’idea che rappresenti un potenziale pericolo?
«Difendo il diritto delle donne a essere velate nella misura in cui il velo è anche una forma di difesa dall’aggressività e dall’attenzione dei maschi, ma se si interiorizza l’idea che una donna velata è il segno di una trappola seduttiva e che l’unico modo per contenere questa minaccia è il velo, allora penso che questa idea vada contrastata. Combattere le donne per l’Islam è combattere il proprio demone, noi dobbiamo restarne fuori. So di sembrare uno di destra anche se non lo sono, ma penso che ogni società debba porre alcuni limiti: no alla tortura, no agli abusi, no alle violenze, sì al diritto di divorziare. Il multiculturalismo non può essere una scusa. Qui in Slovenia c’è stato due anni fa il caso di una famiglia rom in cui il padre aveva promesso in sposa una bambina di undici anni a un uomo di 40, e il capo della comunità rom dichiarò: “Questo è il nostro stile di vita, altrimenti ci estingueremmo in 20-30 anni”. Ora io dico, hai ragione, ma io non lo posso accettare. E non ci possiamo domandare all’infinito se la loro cultura meriti o no rispetto, non bisogna permetterlo e basta. Non noi».
Secondo lei la guerra è iscritta nell’Islam?
«Probabilmente ma non necessariamente. L’Islam ha un potenziale terribile, ma questo vale per ogni religione, basti pensare alla furia dei crociati. Come diceva Walter Benjamin, “ogni cultura ha la barbarie alle sue spalle”. Noi sbagliamo quando pensiamo che ci siano due Islam, uno buono e uno cattivo. Quello che cerco di fare in questo libro è mostrare che deve essere tenuta viva la dialettica interna a ogni religione, vale per l’Islam e vale anche per il cristianesimo. Le religioni sono controverse, rinunciare a questa complessità è la sconfitta dell’Occidente. Tutti i miei amici ebrei mi hanno raccontato la stessa storia: un uomo a cinquant’anni va dal rabbino dicendo che si tormenta perché non ha fede. E il rabbino sempre gli risponde: “Segui i rituali e osserva la legge, non annoiarmi con questi problemi che riguardano solo te”. L’ho sempre trovata molto liberatoria».
Come spiega la paura dell’Europa, sempre la stessa, dai tempi dei turchi alle porte di Vienna?
«Il vero pericolo è nella nostra società, non nell’Islam. Dobbiamo combattere il terrorismo duramente e con tutti i mezzi, ma anche lottare contro il nostro senso di impotenza. Noi non siamo impotenti di fronte all’Islam, siamo impotenti socialmente e economicamente, basti pensare alla Grecia. Ecco, mi aspetto che in questo caso l’Europa mostri la sua solidarietà, sarà un banco di prova del nostro coraggio, e della forza delle nostre democrazie».

Web, dollari e violenza la modernità perversa dei carnefici del Califfato
L’ascesa dell’islamofascismo è la reazione al fallimento delle rivoluzioni arabe e alla scomparsa dei laici: solo l’alleanza tra liberalismo e sinistra radicale può salvare i paesi musulmani dalla deriva fondamentalistadi  Slavoj Zizek Repubblica 23.2.15
LE RECENTI vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Walter Benjamin, e cioè che «ogni ascesa del fascismo testimonia di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al contempo testimonia di un potenziale rivoluzionario, un malcontento che la sinistra non è stata in grado di mobilitare. Non vale lo stesso per il cosiddetto «islamofascismo» di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è forse in perfetta correlazione con la scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Taliban si impadronirono della valle dello Swat in Pakistan, il New York Times riferì che essi avevano architettato «una rivolta di classe sfruttando le profonde divisioni tra un gruppo ristretto di ricchi proprietari terrieri e i loro fittavoli senza terra». Se «approfittandosi» della situazione dei contadini i Taliban hanno fatto «salire l’allarme circa i rischi che corre un Paese come il Pakistan, in gran parte ancora feudale», cosa impedisce ai liberal-democratici in Pakistan e negli Stati Uniti di «approfittare » della stessa situazione aiutando i fittavoli senza terra? La triste implicazione di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «naturali alleate» della democrazia liberale… Che dire allora dei valori fondamentali del liberalismo? Che ne è della libertà, dell’uguaglianza, ecc.? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte da preservarli dall’attacco del fondamentalismo. Il fondamentalismo è una reazione — una reazione falsa e mistificante, ovviamente — a un difetto reale del liberalismo, ed è per questo che il primo è sempre, di nuovo, generato dal secondo. Abbandonato al proprio destino, il liberalismo va incontro alla propria distruzione — la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è il rinnovamento della sinistra. Affinché questa tradizione fondamentale possa sopravvivere, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. Questo è il solo modo di sconfiggere il fondamentalismo, di minare il terreno su cui esso poggia.
È un’osservazione di senso comune che lo Stato Islamico sia solo l’ultimo capitolo di una lunga storia di risvegli anticoloniali (stiamo assistendo alla riconfigurazione dei confini tracciati arbitrariamente dalle grandi potenze dopo la Prima guerra mondiale), e allo stesso tempo un nuovo capitolo della resistenza ai tentativi del capitale globale di minare il potere degli Statinazione. A provocare tanto timore e sgomento è invece un altro tratto del regime dello Stato Islamico: le dichiarazioni delle autorità dell’Is indicano chiaramente che, a loro giudizio, l’obiettivo principale del potere statale non è il benessere della popolazione (sanità, lotta alla denutrizione ecc.) — ciò che realmente conta è la vita religiosa, che ogni aspetto della vita pubblica si conformi ai precetti religiosi. È per questo che l’Is rimane più o meno indifferente alle catastrofi umanitarie che avvengono all’interno dei suoi confini — il suo motto è «occupati della religione e il benessere provvederà a sé stesso». Qui appare lo scarto tra l’idea di potere praticato dall’Is e il concetto, occidentale e moderno, di «biopotere», di potere che regola la vita: il califfato dell’Is rifiuta totalmente la nozione di biopotere.
Ciò dimostra che l’Is è un fenomeno premoderno, un disperato tentativo di rimettere indietro le lancette del progresso storico? La resistenza al capitalismo globale non può ricevere impulso dal recupero di tradizioni premoderne, dalla difesa di forme di vita particolari — per il semplice motivo che un ritorno alle tradizioni premoderne è impossibile, considerato che la resistenza alla globalizzazione presuppone l’esistenza della globalizzazione stessa: chi si oppone alla globalizzazione in nome delle tradizioni che essa starebbe minacciando lo fa in una forma che è già moderna, parla già il linguaggio della modernità. Se il contenuto di queste restaurazioni è antico, la loro forma è ultramoderna. Allora, anziché considerare l’Is come un caso estremo di resistenza alla modernizzazione, dovremmo semmai concepirlo come un caso di modernizzazione perversa. La nota fotografia che ritrae Al Baghdadi, leader dell’Is, con uno scintillante orologio svizzero al polso, è in questo senso emblematica: l’Is è ben organizzato in fatto di propaganda sul web e di operazioni finanziarie, ecc., malgrado faccia ricorso a queste pratiche ultramoderne per diffondere e imporre una visione ideologico-politica che (più che conservatrice) appare come un disperato tentativo di stabilire chiare delimitazioni gerarchiche, in primo luogo quelle che disciplinano la religione, l’istruzione e la sessualità (regolamentazione strettamente asimmetrica della differenza sessuale, interdizione dell’istruzione laica…). Tuttavia, anche quest’immagine di organizzazione fondamentalista severamente disciplinata e regolata non è priva di ambiguità: l’oppressione religiosa non è forse (più che) integrata dalla condotta delle unità militari locali dell’Is? Mentre l’ideologia ufficiale dello Stato Islamico fustiga il permissivismo occidentale, nella loro prassi quotidiana i reparti dell’Is compiono delle vere e proprie orge carnevalesche (stupri di gruppo, torture e uccisioni, rapine ai danni degli infedeli). La radicalità senza precedenti dell’Is riposa in questa brutalità ostentata, mostrata apertamente. (© 2015 Slavoj Zizek. © 2015 Adriano Salani Editore s.u.rl. Milano)

Slavoj Zizek e i fratelli gemelli dell’oppressione
Saggi. «Islam e modernità» di Slavoj Zizek per Ponte alle Grazie. Un pamphlet scritto nei giorni successivi l’assalto alla redazione di Charlie Hebdo. E che considera il fondamentalismo come l’altra faccia del pensiero unico
Zizek non è ovvia­mente un esperto di teo­lo­gia isla­mica, anche se emerge una buona cono­scenza del Corano, non­ché di alcuni testi di inter­pre­ta­zione della reli­gione musul­mana. Ciò che gli sta a cuore è l’analisi, e la con­fu­ta­zione, di due tesi pre­va­lenti nel «mondo occi­den­tale». La prima è la con­vin­zione che die­tro il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico ci sia un’adesione dog­ma­tica ai pre­cetti del Corano. Nulla di più sba­gliato, sostiene il filo­sofo slo­veno. La let­tura del Corano, così come di ogni altro testo reli­gioso, è inse­rita in una con­tin­genza cul­tu­rale, sociale e politica.
Arriva Jihadi John

La rice­zione di quei libri va quindi inse­rita all’interno di uno «spi­rito del tempo» domi­nante. Pos­sono cioè fun­zio­nare come ele­menti reat­tivi, di mani­fe­sta alte­rità o di ade­sione al pen­siero domi­nante. Il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico è da col­lo­care in un con­te­sto pre­ciso, che è quello della glo­ba­liz­za­zione. È neces­sa­rio dun­que intro­durre una distin­zione tra Islam e fon­da­men­ta­li­smo isla­mico. Que­sto non signi­fica, però, che ci sia incom­pa­ti­bi­lità tra la dimen­sione poli­tica fon­da­men­ta­li­sta e la reli­gione isla­mica, bensì che il primo aspetto non esau­ri­sce il secondo.
Il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico, nelle sue diverse ecce­zioni, delle quali l’Isis è l’ultima variante, va col­lo­cato all’interno di una ricon­fi­gu­ra­zione dei rap­porti inter­sta­tali sia nelle realtà arabe, ma anche di quei paesi che hanno una popo­la­zione signi­fi­ca­tiva di reli­gione musul­mana. Va però anche inse­rito nei rap­porti poli­tici e eco­no­mici tra Nord e Sud del pia­neta. E, fat­tore in rapida espan­sione, entra come varia­bile rile­vante nelle rela­zioni sociali all’interno di alcuni paesi euro­pei tra gio­vani di reli­gione musul­mana e il resto della popo­la­zione, come testi­mo­niano le bio­gra­fie dei due assa­li­tori di Char­lie Hebdo, di Jihadi John e di altri foreign fighters.
Per Zikek sono tutti tas­selli di un puzzle in con­ti­nuo dive­nire, che asse­ri­sce soprat­tutto un fatto: il fon­da­men­ta­li­smo è un fat­tore reat­tivo alla glo­ba­liz­za­zione, alle tra­sfor­ma­zioni a cui ha dato il via, al fal­li­mento dei pro­cessi di moder­niz­za­zione seguiti alla deco­lo­niz­za­zione e ai pro­getti «libe­rali» di costru­zione di società mul­ti­cul­tu­rali. E se per il mondo arabo stiamo assi­stendo a una ride­fi­ni­zione dei con­fini impo­sti dal capi­ta­li­smo euro­peo e sta­tu­ni­tense, per i gio­vani euro­pei che ade­ri­scono alle parole d’ordine poli­ti­che del fon­da­men­ta­li­smo isla­mico si può par­lare della crisi dei pro­cessi di inte­gra­zione sociale.
Zizek ade­ri­sce a que­sta let­tura, anche se invita, giu­sta­mente, a con­si­de­rare il fon­da­men­ta­li­smo non come una oppo­si­zione alla società del capi­tale, bensì come a una com­po­nente pro­prio di una glo­ba­liz­za­zione certo in crisi, ma che vuol comun­que imporre al mondo la cami­cia di forza dell’economia di mer­cato. Il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico, in quanto pro­getto poli­tico, altro non è che il ten­ta­tivo feroce di poter con­di­zio­nare pro­prio la glo­ba­liz­za­zione, senza mai met­terla in discus­sione. È cioè l’ospite inat­teso a un ban­chetto che ha come menù le risorse natu­rali del pia­neta e la ric­chezza prodotta.
Non va quindi con­si­de­rato come un sog­getto anta­go­ni­sta alla società del capi­tale, come è stato tal­volta scritto dagli orfani del mondo bipo­lare, bensì come il pro­getto di chi aspira, con un forte senso di rivin­cita, a diven­tarne pro­ta­go­ni­sta al pari di altri.
Ma c’è anche l’altro aspetto che Zizek tiene a pre­ci­sare: il rap­porto tra la cul­tura libe­ral e il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico. L’immagine che usa è quello di due facce della stessa meda­glia, cioè entrambe sono cul­ture poli­ti­che sono tese a con­so­li­dare l’ordine costi­tuito. Più che la libe­ra­zione dagli oppres­sori o il rispetto delle libertà dallo sfrut­ta­mento sono entrambe cul­ture poli­ti­che dell’oppressione. È un vec­chio cavallo di bat­ta­glia di Zizek, quello di asse­gnare all’ideologia dei diritti umani un ruolo di legit­ti­ma­zione dello sta­tus quo. Quel che però risulta poco con­vin­cente è, rispetto al fon­da­men­ta­li­smo isla­mico, la dif­fe­renza tra alcune libertà garan­tite nell’Occidente e la loro nega­zione da parte dei movi­menti poli­tici isla­mici fondamentalisti.
Un malin­co­nico invito

Il filo­sofo slo­veno ha molte frecce nel suo arco nello sca­gliarsi con­tro la miso­gi­nia dei fon­da­men­ta­li­smi isla­mici e l’esaltazione con­su­mi­sta del corpo delle donne in Occi­dente, ma il suo malin­co­nico invito al pen­siero cri­tico, a sal­vare la cul­tura libe­ral da se stessa risulta una bou­tade per cat­tu­rare l’attenzione. Un invito che non può, infatti, che cadere nel vuoto se non è accom­pa­gnato dall’altro movi­mento di pen­siero: la cri­tica ai dispo­si­tivi che impon­gono lo stesso regime di pro­du­zione della ric­chezza. Più sin­te­ti­ca­mente: il pro­blema che dram­ma­ti­ca­mente il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico pone al pen­siero cri­tico è l’elaborazione di rap­porti sociali che non pre­ve­dano oppres­sione e espro­pria­zione pri­vata della ric­chezza. Tanto nel Nord che nel Sud del pia­neta, in Fran­cia come in Siria.
Senza nes­suna con­ces­sione alla reto­rica, il movi­mento da com­piere è quello che ha por­tato gli uomini e le donne di Kobane e della Rojava a resi­stere all’Isis in nome non di gene­ri­che libertà, ma della pro­pria capa­cità di svi­lup­pare, costruire rela­zioni e rap­porti sociali. Qui la libertà è una com­po­nente fon­da­men­tale per la capa­cità di auto­de­ter­mi­nare la pro­pria esi­stenza, le rela­zioni sociali e nel valo­riz­zare, al tempo stesso, le dif­fe­renze cul­tu­rali, etni­che, reli­giose. Il fon­da­men­ta­li­smo isla­mico è un nemico di pro­cessi di libe­ra­zione, altro che pos­si­bile com­pa­gno di strada nella lotta con­tro il capi­ta­li­smo neo­li­be­ri­sta o l’imperialismo occi­den­tale. Così come lo è, ma in forme diverse, quella cul­tura libe­ral che rischia sem­pre di ridursi a una tol­le­ranza repres­siva verso chi pro­pone di andare oltre l’angusto oriz­zonte dell’economia di mercato.

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