sabato 7 febbraio 2015
La rivoluzione immaginaria della guru della sinistra féscion
Ma meglio il neoliberismo più spietato... [SGA].
Naomi Klein: Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile, Rizzoli
Risvolto
Il capitalismo non è più sostenibile. A meno
di cambiamenti radicali nel modo in cui la popolazione mondiale vive,
produce e gestisce le proprie attività economiche - con i consumi e le
emissioni aumentati vertiginosamente - non c'è modo di evitare il
peggio. Cosa fare allora? Il messaggio è dirompente: si è perso talmente
tanto tempo nello stallo politico del decidere di non decidere, che se
oggi volessimo davvero salvarci dal peggio dovremmo affrontare tagli
così significativi alle emissioni da mettere in discussione la logica
fondamentale della nostra economia: la crescita del PIL come priorità
assoluta. "Non abbiamo intrapreso le azioni necessarie a ridurre le
emissioni perché questo sarebbe sostanzialmente in conflitto con il
capitalismo deregolamentato, ossia con l'ideologia imperante nel periodo
in cui cercavamo di trovare una via d'uscita alla crisi. Siamo bloccati
perché le azioni che garantirebbero ottime chance di evitare la
catastrofe - e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza delle
persone - rappresentano una minaccia estrema per quell'élite che tiene
le redini della nostra economia, del nostro sistema politico e di molti
dei nostri media."La via d'uscita che intravede Naomi Klein non è una
Green Economy all'acqua di rose, ma una trasformazione radicale del
nostro stile di vita. "La buona notizia è che molti di questi
cambiamenti non sono affatto catastrofici; al contrario, sono
entusiasmanti".
Questa nostra Terra non è fatta per il capitalismo
Senza una “Green economy” il pianeta affonda: bisogna combattere il neoliberismo predatore
Massimiliano Panarari Tuttilibri 7 2 2015
Nella disgregazione e disarticolazione della cultura progressista avvenuta nel corso di questa nostra età postmoderna si sono aperti spazi enormi per i singoli. Per i leader, che hanno preso il sopravvento sui partiti, e per altre figure divenute punti di riferimento, e finanche icone – e la scrittrice e giornalista canadese Naomi Klein è decisamente una di queste (la «star della nuova sinistra americana», secondo il Guardian). In virtù di una serie di innegabili talenti propri (e demeriti altrui), la profetessa glamour dell’altermondialismo si è imposta a colpi di best-seller (il proverbiale No logo e Shock Economy), assurgendo a simbolo planetario di ribellione contro un’economia disumana e prevaricatrice, e pure al ruolo di pensatrice politica – un po’ fast thinker, per la verità, per rifarci all’etichetta coniata da Pierre Bourdieu. Il quale amava pochissimo quella categoria degli intellettuali mediatici a cui appartiene indiscutibilmente (sebbene, certo, su sponde assai più vicine proprio ai bourdivins) la stessa Klein, di cui è appena uscito il ponderoso affresco globale di
Una rivoluzione ci salverà
.L’esito di un quinquennio di lavoro e il terzo atto della sua «trilogia», che individua nella questione ambientale il perno della problematica politico-economica del tempo presente e racconta (attraverso le sue notevoli qualità di narratrice e storyteller e uno stile di scrittura, tipicamente anglosassone, molto efficace) una molteplicità di episodi relativi agli effetti devastanti del global warming e dei mutamenti climatici in giro per il globo. La giusta battaglia contro i negazionisti del riscaldamento globale non conduce tuttavia ad alcuna perorazione in favore dell’utilità della green economy o dello sviluppo sostenibile naturalmente, bensì a una climatologia politica (anch’essa non precisamente originale) che stabilisce l’equazione inossidabile e la piena coincidenza tra economia di mercato e fondamentalismo neoliberista (sulla genealogia recente di quest’ultimo risulta invece illuminante il «classico» di Luc Boltanski ed Eve Chiapello Il nuovo spirito del capitalismo, pubblicato da poco in italiano da Mimesis).
Il precedente assioma fa dunque dell’appassionata scrittrice e attivista una dottrinaria dell’anticapitalismo senza se e senza ma. La sua sfida all’ordinamento neoliberale e a quello che chiama il suo magical thinking si colora così di varie tinte apocalittiche e millenaristiche di troppo, che leggono la crisi ecologica quale manifestazione paradigmatica di un capitalismo estrattivo e predatore nel quale convivono con una serenità e un interesse condiviso riguardo a cui non ci sentiremmo affatto di mettere la mano sul fuoco l’«ideologia estremista del libero mercato», le istituzioni pubbliche e gli istituti privati della finanza internazionale, le multinazionali e il «totem» della crescita. A dispetto, quindi, del fatto che la teoria economica ci ha insegnato a distinguere le formazioni storiche dell’economia di mercato e a discernere tra differenti capitalismi. Ma Klein, animata da ottime intenzioni umanitarie (e anche da quello che considera «spirito rivoluzionario»), tende a semplificare, evitando di prendere in considerazione le (numerose) sfumature e variabili che caratterizzano la realtà, muovendosi di ipostasi e contrapponendo in maniera apodittica il «pianeta» al «capitalismo», quando, a nostro avviso, sarebbe più opportuno e corretto interpretare la crisi ambientale nei termini dello scontro tra un mondo dalle risorse finite e le inesauribili aspettative del genere umano in espansione demografica. Per giunta, non si trovano tracce della delineazione di un sistema economico e di consumi alternativo, e l’autrice preferisce concentrarsi sull’appello a una coalizione tra le lotte locali dei popoli indigeni nativi, le campagne dei comitati ecologisti anti-fracking e contro gli oleodotti e i movimenti sociali di critica del sistema delle metropoli occidentali (come l’usurato Occupy Wall Street o l’ascendente Podemos). Un po’ poco per assistere al realizzarsi dell’auspicato «salto di civiltà», e pure per innescare la vaticinata «eco-rivoluzione»; e, infatti, la domanda che sgorga spontanea è: che fine hanno fatto, allora, i movimenti no (o new) global? Ai lettori l’ardua sentenza…
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