domenica 15 febbraio 2015

Per la libertà di ricerca storiografica, contro il controllo ideologico della verità: no alla legge sul negazionismo di Stato

Negazionismo: “Legge idiota. Basta derby tra Hitler e Stalin, pensiamo a scheletri delle democrazie”Non facciamo a chi ne ha ammazzati di più. Anche perché se ci mettiamo su questo piano, oltre a Hitler e Stalin, bisognerebbe chiamare in causa anche Sua Maestà britannica, che nelle colonie non ne ha ammazzati di menodi Franco Cardini - 13 febbraio 2015 su lintellettualedissidente


Un’idea falsa non va vietata
di Massimo L. Salvadori Repubblica 15.2.15
INVOCANDOLO come adempimento tardivo di un atto vincolante dell’Unione Europea, il Senato della Repubblica ha approvato con 234 sì, 3 no e 8 astenuti il disegno di legge — che ora passa alla Camera dei deputati — il quale punisce il negazionismo della Shoah e di altri genocidi comminando ai colpevoli fino a tre anni di carcere. La questione non è nuova. Ha già tutta una storia ormai ricca di capitoli in vari Paesi europei, il cui inizio risale al momento in cui un numero via via più largo di Stati hanno affidato ai tribunali il compito di punire i negazionisti, che sarebbe stato e sarebbe più saggio e più coerente con gli osannati principi di libertà lasciare alla miseria delle loro idee. Anche le idee più nefaste, se pericolose, lo diventano maggiormente quando si offrono loro le aule dei tribunali. Bisogna ammettere che questo gli americani lo hanno capito molto meglio degli europei. Numerosi storici e studiosi hanno cercato senza esito di spiegarlo ai legislatori, i quali si sono sentiti investiti della missione di servire una nobile causa di cui hanno mostrato di non cogliere le implicazioni.Nel presentare al Senato il disegno di legge la senatrice Amati del Pd, prima firmataria, ha espresso la sua soddisfazione per il fatto che venga finalmente impedito a chiunque di falsificare la storia; e il ministro della Giustizia Orlando ha sentenziato che «è molto importante che nessuno possa più rimuovere la verità storica ». Bene, così si delega allo Stato il compito di stabilire quale sia e quale no la verità storica e di distribuire manette ai contravventori. Vien da domandarsi come ciò possa conciliarsi con l’articolo 21 della Costituzione — dettato da uomini da poco usciti da un regime che aveva assunto come proprio dovere di imporre con la forza della legge la verità — il quale recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione ». Tra i costituenti vi erano persone di spirito autenticamente liberale, che, forti delle esperienze loro trasmesse dai regimi autoritari, avevano capito la lezione intellettuale, morale e politica di un testo che dovrebbe essere regalato a spese del Senato a quanti oggi seggono negli scranni di quella augusta sede da cui sentenziano intorno a materie che richiederebbero le opportune cautele. Si tratta del Saggio sulla libertà di John Stuart Mill, che risale al 1858. Qui Mill spiega ai suoi lettori che le posizioni stupide e le idee menzognere non possono e non devono essere combattute con la repressione per tre motivi principali: perché la libertà di pensiero non finisce là dove incomincia l’errore; perché solo il libero confronto tra le opinioni consente di far emergere che cosa sia vero e cosa falso; perché la repressione non indebolisce ma rafforza l’errore. Scrive Mill: «Non possiamo mai essere certi che l’opinione che stiamo cercando di soffocare sia falsa; e anche se lo fossimo, soffocarla sarebbe un male. Se si vietasse di dubitare della filosofia di Newton, gli uomini non potrebbero sentirsi così certi della sua verità come lo sono. Per vera che essa sia, se non la si discute a fondo, spesso e senza timore», un’opinione «finirà per essere creduta un freddo dogma, non una verità effettiva». Ancora una pregnante citazione dal saggio di Mill, attinente alle “sole sanzioni” che giustamente occorre dare ai diffusori di false teorie: esse «sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui». È chiaro il significato delle parole del grande pensatore liberale inglese; ed è triste che persone investite di una suprema responsabilità quale è quella di legiferare dimostrino di non comprenderne il significato e il messaggio.

Dove possa condurre l’approccio esaltato dal nostro ministro della Giustizia abbiamo avuto modo di constatarlo nel caso clamoroso occorso a Bernard Lewis, uno dei maggiori islamisti del mondo. Il quale è stato condannato in passato da un tribunale francese, seppure alla pena meramente simbolica di un franco, per avere sostenuto che, secondo la sua opinione, gli armeni durante la prima guerra mondiale erano stati vittime da parte dei turchi di “massacri” anziché di un disegno organico di “genocidio”. Faccenda umiliante per i giudici che hanno emesso la sentenza. Non occorre continuare. Ma vi è però qualcosa da aggiungere, e cioè un grazie alla senatrice Elena Cattaneo, la quale al Senato ha negato la sua approvazione al disegno di legge, con le parole di una degna seguace di Mill: «Credo che vietare il negazionismo per legge sia sbagliato. Non è ammissibile imporre limiti alla ricerca e allo studio di una teoria. Trovo ignobili le tesi dei negazionisti ma non credo che minino una disciplina. Nessuno storico prende sul serio queste teorie».


La storia non si fa in Parlamento Negare il negazionismo?

Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole Domenica 15.2.15
Talvolta ragione e sentimento sembrano andare in direzioni opposte. Questo richiamo a una ottocentesca romanziera inglese emerge quando capita di affrontare gli interrogativi più scabrosi in materia di libertà di espressione. In altri termini, al sentimento che tende ad allontanare da sé (fino a proibire) i messaggi odiosi, ribatte la ragione che impone di tollerare anche le falsità, anche le tesi più ripugnanti.


E così, come ognuno deve consentire che le proprie credenze religiose siano dissacrate, anche in modo ritenuto irrispettoso, poiché ogni forma di potere può essere messa alla berlina, allo stesso modo a chiunque deve essere garantita la possibilità di affermare le più urticanti menzogne.
Quella più odiosa di tutte, per la nostra cultura, è la negazione della Shoah. E lo è perché si respira forte il puzzo dell’antisemitismo e perché le moderne società democratiche si sono rifondate anche sul ripudio del nazismo. Ciò è tanto vero che una buona parte dei Paesi europei ha introdotto una legislazione che proibisce il discorso negazionista, anche quando non si traduce in un’istigazione alla violenza e all’odio. Si va da Germania, Austria e Belgio che puniscono soltanto la «menzogna di Auschwitz», agli Stati dell’Est che estendono il divieto agli orrori del comunismo, alla Francia che reprime il disconoscimento dei crimini contro l’umanità sanciti da una Corte internazionale.
Almeno finora l’Italia si è posta, insieme al Regno Unito e ai Paesi scandinavi, tra gli Stati che non prevedono una legislazione repressiva specifica e, per una volta, l’atteggiamento del nostro Paese non ci pare sbagliato. Di recente, però, il Parlamento sembra orientarsi in modo diverso. È di mercoledì scorso ’approvazione al Senato di un disegno di legge che introduce un’aggravante qualora i reati di propaganda razzista o di istigazione alla discriminazione si fondino sulla negazione della Shoah o di crimini contro l’umanità. Non siamo certo davanti al reato di negazionismo in senso stretto, poiché da un lato si tratta di un’aggravante, dall’altro la parola è punita solo se vi è un’istigazione pubblica all’odio. Tuttavia, in tal modo il legislatore sanzionerebbe più severamente il discorso razzista, quando ciò comporta la negazione di fatti storici non controversi e particolarmente gravi.
Restano quindi molti i motivi che sconsigliano di imboccare anche questa strada. In primo luogo, affidare al diritto, specie a quello penale, il ruolo di custode della verità storica, della versione “ufficiale” del passato, significa consentire un’incursione dei pubblici poteri negli spazi riservati alle scienze e alla ricerca storica.
Inoltre, l’introduzione di tale aggravante contrasterebbe con il principio secondo cui in uno Stato liberale non esistono verità assolute. La verità – relativa, parziale, effimera, convenzionale – deve nascere dalla discussione e non dalla decisione politica o giudiziaria, anche con riguardo alle tragedie della storia. Ciò è connesso al principio di laicità e a quello di separazione tra Stato e società, ed è alla base della tutela rafforzata della libertà di ricerca storico-scientifica sancita dall’articolo 33 della Costituzione italiana.
Questa tesi ci pare in sintonia con le radici più profonde della Repubblica. Infatti, già in Assemblea costituente era prevalsa l’idea di lasciare aperta ogni via alla ricerca della verità. Dunque, anche ai «nemici della democrazia» fu garantito il diritto di sostenere nel freemarket of ideas finanche il falso. Sembra di intravedere nella trama della Costituzione una tale fiducia nella “forza” della democrazia da ritenere di non doverla proteggere con l’esclusione per via giuridica di chi ne nega il fondamento.
In tale prospettiva ragione e sentimento sembrano riconciliarsi nel ricordare al legislatore i principi liberali in materia penale: tra essi, campeggia la raccomandazione di evitare un eccesso di criminalizzazione. E dunque evitare altresì di allungare la lista di proclamazioni ad alto valore simbolico, lista che viceversa andrebbe sfoltita in modo robusto, specie in materia di reati d’opinione.

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