domenica 8 febbraio 2015

Siamo già al "Morire per Kiev". La catena di comando imperialistica crea indignazione morale prepara la guerra per marzo

Ucraina e Grecia I due fronti dell’Europa
di Bill Emmott La Stampa 8.2.15

L’Europa si trova di fronte a due trattative importanti ma pericolose: quella tra la Russia, la Germania e la Francia sull’Ucraina, l’altra tra la Grecia e la Germania sul futuro dell’euro. Quale ha maggiori probabilità di successo?
Beh, è difficile dirlo. Ma le due trattative condividono una caratteristica comune che può offrire un indizio.
Tale caratteristica è che in entrambi i casi le parti opposte nei negoziati hanno iniziato con analisi completamente diverse del problema su cui stanno negoziando. Quando si analizza un problema, o si diagnostica una malattia, in modo opposto è molto difficile concordare una soluzione o una cura.
Nell’Ucraina, la Russia di Vladimir Putin vede un Paese che storicamente e culturalmente è stato a lungo parte della Russia, e vede la ribellione che sta sostenendo nell’Est come uno sforzo legittimo per mantenere l’Ucraina e la Russia l’una vicina all’altra. La tedesca Angela Merkel e il francese François Hollande, così come la maggior parte dei loro colleghi dell’Unione europea, vedono invece un Paese sovrano che viene violato dal suo potente vicino di casa, dopo ll precedente dell’annessione della Crimea.
Non ci può davvero essere un terreno comune tra queste posizioni. Un cessate il fuoco in Ucraina orientale potrebbe calmare le acque per un po’, ma il fatto è che l’Ucraina o è indipendente o non lo è. L’alternativa, che l’America fornisca al governo ucraino un equipaggiamento migliore, così da metterla in grado di fronteggiare i ribelli foraggiati dalla Russia, potrebbe convincere Putin che la battaglia non si può vincere - ma potrebbe anche convincerlo a voler vedere il bluff dell’America e portare a un escalation del conflitto.
Cerchiamo quindi di concentrarci su un tema più allegro: il confronto tra il nuovo governo greco la Germania della signora Merkel. In questo caso la negoziazione offre qualche speranza in più.
E’ vero che le analisi di base delle due parti sui problemi economici della Grecia, e in effetti quelle sulla zona euro nel suo complesso, sono completamente diverse. La Germania vede una malattia causata dal debito greco e per la quale l’austerità è  la cura principale. La Grecia vede un debito causato dallo sconsiderato credito tedesco, vede che gli ultimi pacchetti di salvataggio hanno aiutato soprattutto le banche tedesche, e vede l’austerità come causa solo di povertà e non di recupero.
Come nel caso dell’Ucraina, non ci può essere via di mezzo tra un creditore che insiste sul fatto che tutti i debiti devono essere pagati per intero, perché condonare i debiti sarebbe immorale e un debitore che dice che l’onere di tali crediti deve essere ridotto, altrimenti le conseguenze saranno, quelle sì, immorali.
Il tour delle capitali europee, compresa Berlino, compiuto la settimana scorsa dal nuovo, anticonformista ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, ha chiarito quanto grande sia il divario tra le due parti.
Detto questo, c’è una differenza fondamentale tra la politica nazionalista vista nel conflitto ucraino e l’economia nazionalista del caso greco. E’ che in economia, e in particolare nelle transazioni finanziarie, c’è più spazio per la creatività. Se le due parti vogliono una soluzione pacifica, in una trattativa economica ci sono abbastanza variabili e dimensioni per rendere possibile un tale accordo.
Per la Grecia, due aspetti di quella trattativa potrebbero offrire una via d’uscita - e un anche un modo per far convergere le diverse analisi della Germania e della Grecia.
Il primo risiede nel modo di affrontare il peso del debito sovrano della Grecia. Un’ulteriore cancellazione è inaccettabile. Un accordo speciale per la Grecia sarebbe insostenibile tra gli altri membri della zona euro. Quindi, occorre convertire la proposta iniziale della Grecia, di uno scambio di parte del debito in nuovi bond legati alla sua crescita economica, in una regola che può essere applicata non solo alla Grecia, ma a tutti i membri della zona euro, ora e in futuro.
Tale norma deve lasciare ai governi l’obbligo di rimborsare i loro debiti, ma con l’opportunità di ridurre l’onere degli interessi annui e del rischio in cambio di condizioni concordate sulla riforma economica interna. Quelle riforme economiche nazionali possono essere inquadrate nel contesto di un’iniziativa a livello europeo per estendere e completare il mercato unico, secondo le linee proposte diversi anni fa da Mario Monti, prima di diventare presidente del Consiglio.
Queste riforme interne sono anche la sede per il secondo elemento che può indurre alla speranza. Qui, c’è già un terreno comune nelle analisi tedesca e greca. Syriza, il nuovo partito di governo in Grecia, sarà pure di estrema sinistra, ma afferma di voler porre fine al capitalismo clientelare che in Grecia è dominato da oligarchi miliardari e di voler combattere la corruzione e l’evasione fiscale. Questo dovrebbe essere musica per le orecchie tedesche. Il modo migliore per avere sia la competitività che la trasparenza. In altre parole, un mercato unico liberalizzato.
Quindi un percorso saggio verso l’accordo potrebbe partire da quel terreno comune. Se le riforme possono essere concordate, trovare modi per rendere il debito abbordabile sarebbe più facile. E può essere attuato come progetto europeo e non solo greco. Una dimostrazione di solidarietà europea è esattamente ciò di cui l’Unione europea ha bisogno.
Perché qui sta la ragione ultima per essere più fiduciosi sulla Grecia che sull’Ucraina. L’esistenza del pericolo chiaro e presente di un allargamento della guerra alle frontiere dell’Ue in Ucraina deve rendere tutti gli Stati membri, ma soprattutto la Germania, ansiosi di mantenere l’unità e la solidarietà, e quindi appassionarli a una vera soluzione europea al problema greco.
Così, l’irriducibilità della situazione ucraina dovrebbe rendere più facile da affrontare la natura irriducibile della situazione greca. Syriza è un po’ troppo amichevole con la Russia per il gusto tedesco. Ma sicuramente lasciar perdere quell’amicizia sarebbe un prezzo che vale la pena pagare.
traduzione di Carla Reschia

Morire per Kiev?
La posta in gioco è il destino di un popolo. E non solo Perché da lì passa il confine Occidente-Orientedi Luigi Ippolito Corriere 8.2.15

Un punto deve essere chiaro: in Ucraina ne va dell’Europa stessa. Ne va dei suoi valori, dell’idea di ciò che vogliamo essere, del futuro che vogliamo diventare. Un anno fa abbiamo assistito a qualcosa di inaudito: migliaia di persone nelle piazze di Kiev radunate attorno al vessillo blu con le dodici stelle, persone che erano disposte a farsi sparare addosso pur di difendere gli ideali incarnati da quella bandiera.
In Occidente quel progetto appare sempre più esangue, contestato al suo interno dalle forze euroscettiche che si sono affermate alle ultime elezioni continentali, minato dalle tendenze centrifughe all’opera nelle tensioni Nord-Sud. A Oriente invece sembrano aver colto quanto c’è di essenziale nel progetto europeo: una comunità fondata sui concetti di libertà e democrazia, che ha saputo garantire settanta anni di pace al suo interno e che rappresenta un faro per chi sta al limitare.
Il limite, appunto: questo è il significato del termine Ucraina. Il Paese che sta sul confine, la marca che delimita due mondi. E anche il test limite per tutti noi. L’Ucraina è la faglia sismica dove cozzano le placche tettoniche della civiltà europea e di quella russo-asiatica (non che la Russia non attenga all’Europa, ma essa porta con sé un bagaglio storico-geografico troppo ingombrante per poter essere semplicemente riassunta nel contesto europeo). Ed è all’interno dell’Ucraina che passa la frattura fra Oriente e Occidente, fra cattolicesimo e ortodossia, fra democrazia e dispotismo.
L’Ucraina dell’Est è terra pianeggiante che fa tutt’uno con le pianure della Russia meridionale, terra di cosacchi vissuti come frontiera mobile dell’impero zarista, popolazioni di lingua e cultura russe, in una parola ciò che storicamente si intendeva come Piccola Russia, provincia annessa fin dal ’600-’700 e via via allargata strappando territori al khanato tartaro dell’Orda d’Oro. L’Ucraina occidentale ha condiviso invece fin dal ’500 le vicende del Granducato di Lituania, la casa comune baltico-polacca embrione della statualità europeo-orientale, per poi divenire parte della Polonia stessa e dell’Impero absburgico. Basta andare a Leopoli, capoluogo dell’Ovest, per respirare l’aria di una piccola Praga. In mezzo sta Kiev, capitale bicefala, ma sempre più con lo sguardo rivolto a Occidente.
Eppure l’Ucraina non si spiega senza la Russia, e viceversa la Russia non si spiega senza l’Ucraina. Perché solo attraverso l’egemonia sulla sua provincia sud-occidentale Mosca può pensarsi come impero che dispiega il suo manto sulla piattaforma euro-asiatica. Una Russia privata dell’Ucraina perde la sua proiezione imperiale, e una Russia senza impero perde la sua destinazione storico-esistenziale. Ecco perché nella questione ucraina è in gioco anche l’essenza della Russia: ridotta alla Moscovia ( e alla sua propaggine siberiana) essa sarebbe costretta a ridefinirsi in maniera altra da quanto è stato fatto finora. E aprirsi alla prospettiva di un’evoluzione statuale in senso nazionale e potenzialmente democratico.
Si spiegano in questa ottica i ripetuti tentativi di Mosca di tenere avvinta a sé l’Ucraina, a prescindere dalla bandiera che sventolava sul Cremlino. Gli stessi bolscevichi, all’indomani della Rivoluzione, mettono fine con le armi al primo tentativo di indipendenza dell’Ucraina. E oggi Putin il nazional-conservatore reagisce alla sola prospettiva di un vago Trattato di associazione di Kiev con l’Unione Europea: prima col ricatto economico, poi con la forza delle armi. Non può permettersi che l’antico protettorato scivoli in un’orbita estranea, se non potenzialmente conflittuale.
Certo, Putin ha fatto leva sulla frattura insita nella storia ucraina per fomentare una guerra civile. Ma ciò non toglie che in ultima analisi spetta agli ucraini la decisione sul proprio destino e sulla propria collocazione geo-politica. Che non può essere stabilita né a Mosca né a Bruxelles. Questo vale per l’aspirazione europea manifestata dalla maggioranza della popolazione ma anche per una eventuale adesione alla Nato, per quanto possa essere vissuta come una provocazione da parte del Cremlino. Perché nessuno, a Est come a Ovest, può arrogarsi un diritto di veto sulla collocazione internazionale di un Paese sovrano.
E qui arriviamo al dunque, al perché la cornice politico-diplomatica in cui potrebbe venirsi a collocare l’Ucraina non può lasciare indifferenti gli europei. Un Paese integrato nelle strutture occidentali troverebbe la garanzia di uno sviluppo pacifico e democratico, non diversamente da quanto è stato possibile ad esempio per la Polonia, che ha percorso tutta la parabola da satellite sovietico a pilastro dell’Unione Europea. Ma se questo domani fosse possibile a Kiev, dopodomani potrebbe esserlo a Mosca. Probabilmente è questo il timore più profondo del regime putiniano: il successo della democrazia a Kiev metterebbe in questione l’autocrazia a Mosca. Ma è solo l’evoluzione in senso democratico della stessa Russia che può garantire la costruzione di quella casa comune dall’Atlantico a Vladivostok sognata alla fine della Guerra Fredda. Ecco perché l’Europa non può permettersi di lasciare sola l’Ucraina: in gioco c’è il nostro stesso futuro .

La leader lituana invoca le armi «Fermare Mosca con ogni mezzo»
di Danilo Taino Corriere 8.2.15

MONACO DI BAVIERA «Anche ai confini dei Paesi Baltici ci sono raggruppamenti di truppe russe, esercitazioni militari. E voli senza segnali di identificazione che mettono in pericolo la sicurezza dell’aviazione civile. E movimenti di mare e di terra». Secondo la presidente della Lituania, Dalia Grybauskaite, è forte la pressione che si sentono addosso il suo Paese, l’Estonia, la Lettonia come conseguenza della crisi in Ucraina e della politica «di aggressione» di Mosca. Sostiene però che il problema non è solo dei tre Baltici, o della Polonia, ma di tutta l’Europa: «È uno sfoggio di muscoli che ha l’obiettivo di trattenerci dall’appoggiare l’Ucraina. Cosa che invece continuiamo a fare, per dimostrare che non abbiamo paura».
La presidente Grybauskaite ieri era alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, dove si è parlato quasi solo di Ucraina. Una discussione nella quale i Paesi Baltici e in generale quelli dell’Est europeo, Ungheria a parte, sono più duri di buona parte del resto d’Europa nel giudicare le mosse di Vladimir Putin e, soprattutto, nel sostenere cosa si tratta di fare per fermare l’espansionismo dei separatisti dell’Ucraina dell’Est sostenuti da Mosca. Su una delle questioni chiave del momento, in particolare, questo gruppo di Paesi sostiene — d’accordo con gli Stati Uniti ma al contrario della maggioranza degli altri europei — che occorra fornire armi all’esercito di Kiev: di difesa e non letali (definizione piuttosto vaga) ma comunque armi occidentali per fermare l’avanzata dei separatisti. Sulla questione, la presidente Grybauskaite non ha dubbi. «Dobbiamo essere pronti a sostenere l’Ucraina con tutti i mezzi che le servono per difendersi. Non per attaccare perché non si tratta di questo ma per difendersi. In tutti i modi, nessuno escluso: perché sostenere l’Ucraina oggi è sostenere l’Europa».
Angela Merkel, che nel tentativo di limitare la crisi sta svolgendo un ruolo guida, esclude invece la fornitura di qualsiasi tipo di arma. La presidente lituana, però, preferisce sottolineare l’unità degli europei di fronte alle iniziative del Cremlino. «Mi fido di Angela Merkel — dice — Credo che non tradirà nessuno: significherebbe tradire noi stessi, perché dopo l’Ucraina saremmo noi i prossimi obiettivi». In questa chiave, è soddisfatta della decisione della Nato di rafforzare la propria presenza nei Paesi Baltici: «Noi non combattiamo nessuno, ma dobbiamo difenderci. Certo, siamo soddisfatti della maggiore presenza della Nato, ci dà sicurezza, ci permette di non avere paura delle esercitazioni ai confini. E spero che un giorno anche l’Ucraina sarà difesa come oggi lo sono i Paesi Baltici». La signora Grybauskaite dice di non sapere se Putin avesse un piano quando la crisi ucraina è iniziata. «So però che punta sulla nostra debolezza nel rispondere: dipende da noi essere fermi». 



Il Sole 8.2.15

Il compromesso greco
di Alberto Bisin Repubblica 8.2.15

LA SITUAZIONE greca si risolverà molto probabilmente con un accordo tra il nuovo governo e le istituzioni internazionali che operano in varie forme e mezzi come creditori del Paese (la Troika). Come spesso succede in questi casi, l’accordo sarà raggiunto all’ultimo momento utile, perché una prova di forza da entrambe le parti è necessaria per un compromesso nel giusto mezzo. Osserveremo ancora molto teatro, quindi, camicie fuori dai pantaloni, affermazioni esagerate, espressioni del viso come quella del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble alla menzione dell’ascesa del nazismo negli anni ‘30, e anche mosse apparentemente solo tecniche come quella della Banca centrale europea riguardante l’offerta di liquidità al sistema bancario greco.
Anzi, io non credo che l’accordo sarà in sostanza molto diverso da quello che sarebbe stato raggiunto se Syriza non avesse vinto le elezioni. Dico così perché i margini di contrattazione non sono elevatissimi. La Grecia non ha alcun interesse a tagliare unilateralmente il proprio debito (cioè ad un default), come promesso da Syriza in campagna elettorale. Questo perché al momento, e come conseguenza della ristrutturazione precedente, le condizioni di ripagamento del debito sono molto favorevoli per la Grecia. Sono cioè a bassi tassi e a lungo periodo. A far i conti, un po’ approssimativamente, si arriva ad un costo del debito (al netto degli interessi che la Bce e le banche centrali nazionali ritornano alla Grecia sotto certe condizioni) di circa il 2 percento del Prodotto interno lordo e ad una maturità media superiore ai vent’anni. Una ulteriore ristrutturazione farà parte del pacchetto di accordi ma non cambierà molto la situazione.
L’idea che circola di legare il ripagamento del debito alla crescita del Pil può sembrare buona (perché condizionerebbe il ripagamento alla disponibilità di risorse per farlo, limitandone il costo sociale) ma è in realtà pessima (perché darebbe al governo greco incentivi a politiche di spesa clientelare che non generano crescita; incentivi peraltro già fin troppo presenti nel sistema politico-istituzionale del Paese e nel sistema ideologico di questo governo). Speriamo sia abbandonata rapidamente.
Importante sarà il compromesso riguardo al surplus primario (la differenza tra entrate e spesa pubblica al netto degli interessi) e le riforme strutturali che sono parte degli accordi al momento in vigore con la Troika. Mi pare che la Grecia abbia poche carte in mano, a questo proposito, ma si vedrà. Quello che la politica, non solo in Grecia, chiama — con una intelligente invenzione retorica — austerità non è altro che vivere coi propri mezzi, senza deficit di bilancio permanenti (superiori al 10 percento del Pil in Grecia prima della crisi). Un po’ di margine rimane, ma non molto. L’idea di spostare le riforme verso un attacco ai monopoli e alla corruzione è ottima, se fattibile. La Grecia ha migliorato in modo abbastanza significativo la propria posizione nelle classifiche riguardanti la facilità di condurre affari della Banca mondiale negli ultimi anni. Per quanto poco valgano queste classifiche, è un buon segno, ma vi è ancora un grosso margine di azione per rendere il Paese più produttivo.
Alla fine il compromesso sarà in larga parte una questione di facciata. Permetterà a Syriza di dichiarare vittoria e al contempo alla tecnocrazia europea di prendersi i meriti dello scampato pericolo per l’Euro e per l’Unione.
L’unico elemento in grado di far saltare l’accordo è l’attacco in corso al sistema finanziario greco. Attacco sostanzialmente tutto interno, si badi bene, che si manifesta nell’uscita dei depositi dalle banche del Paese (verso l’estero chi può, sotto il materasso gli altri). Per quanto la Bce abbia meccanismi istituzionali appropriati atti a controllare crisi di liquidità, è facile immaginare la degenerazione della situazione in una spirale insostenibile e in realtà incontrollabile. Il pericolo è ancora più grave perché una crisi di liquidità potrebbe essere usata, e quindi addirittura cercata, da entrambe le parti nella contrattazione. Questo sarebbe davvero giocare col fuoco, sulla pelle dei greci. Speriamo si possa evitare.

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